Gentile e Spaventa
Nell’operazione, culturale e teorica, messa a punto da Giovanni Gentile a partire dal secondo decennio del Novecento, l’importanza rivestita dalla dottrina di Bertrando Spaventa è stata centrale. Importanza, peraltro, esplicitamente ammessa a più riprese dallo stesso Gentile, che proporrà Spaventa come uno dei pensatori più rilevanti che l’Italia abbia avuto sino ad allora. In questo senso, Gentile opera una riproposizione, in parte teoricamente improntata, delle opere di Spaventa, curandone anche alcuni inediti. Tra questi, il più celebre e importante è senza dubbio il Frammento inedito del 1880-1881, che Gentile presenta, insieme ai propri saggi sulla questione, nella Riforma della dialettica hegeliana (1913), celebrandone l’originalità teorica, nonché l’influenza profonda esercitata sulla genesi dell’idealismo attuale. Non deve ritenersi, in ogni caso, che gli spunti offerti a Gentile dal pensiero spaventiano siano circoscritti alla revisione della dialettica. Tutto l’impianto storico-filosofico messo a punto dal primo Gentile risente della teoria spaventiana della «circolazione del pensiero», e lo stesso modo di intendere la filosofia del fondatore dell’attualismo si deve ricondurre a un idealismo filtrato attraverso gli spunti ricavati da Spaventa.
La prima formazione filosofica del giovane Gentile, già all’insegna dell’idealismo, non è da attribuirsi alla diretta esperienza della lezione spaventiana, bensì all’intercessione di un allievo di Spaventa, Donato Jaja. Egli, professore di filosofia teoretica a Pisa, trasmetterà a Gentile un’impostazione teorica tipicamente hegeliana, sia pure rivisitata in chiave autonoma. Questa rivisitazione, tuttavia, non è da imputarsi all’originalità del maestro di Gentile, bensì a quella dello stesso Spaventa, cui Jaja era rimasto molto legato dal punto di vista teorico. Un bilancio effettuato da Gentile – ormai filosoficamente maturo e non del tutto disinteressato nel rileggere i propri predecessori – dell’importanza e di Spaventa e di Jaja è riscontrabile in Le origini della filosofia contemporanea in Italia (4° vol., 1923). Se il testo non è che una fonte tra altre per giudicare l’influenza di Spaventa su Gentile, risulta, invece, importante per capire quali contenuti originali Gentile riscontrasse in Jaja. Il motivo centrale della speculazione di quest’ultimo resta quello che per Gentile era un’attitudine quasi caratteriale: la tensione alla concretezza di pensiero. Già Spaventa si era concentrato sulla necessità di interpretare l’idealismo assoluto come una filosofia della assoluta realtà, tentando di conciliare qualsiasi ‘duplicazione’ tra il piano del pensiero e quello dell’essere. Era, pertanto, giunto a una posizione che Gentile definisce «spiritualismo assoluto»: un rigoroso immanentismo, concentrato sulla concretezza del Geist hegeliano non meno che sulla sua universalità. Jaja si era posto su questa linea di ricerca, indagando i rapporti vigenti, nel pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, tra la fenomenologia e la logica. Vale a dire: tra la conoscenza operata dal singolo individuo umano, che si scopre a poco a poco Pensiero assoluto, e il Pensiero assoluto medesimo, avente ormai piena consapevolezza di sé, in quanto costituente tutto il reale. L’errore attribuito da Gentile al maestro pisano era quello di avere fatto troppe concessioni – in linea con alcune suggestioni dell’ultimo Spaventa – all’empirismo della filosofia positivistica, sdoppiando, per così dire, il principio della filosofia nei termini del sentire (fenomenologico) e del pensare (logico). Jaja, come il suo maestro, non aveva, pertanto, risolto il dualismo hegeliano di fenomenologia e logica, tenendo distinti i due processi, sia pure all’interno dell’unità del pensiero. E, tuttavia, Spaventa era stato filosoficamente più conseguente del discepolo, giungendo vicino alla risoluzione del problema.
Problema che non costituiva ancora l’oggetto privilegiato delle indagini del giovane Gentile, che nel 1900 si accingeva a ristampare buona parte degli Scritti filosofici di Spaventa, preceduti da una breve prefazione di Jaja e da una corposa introduzione scritta da lui stesso, in cui la figura di Spaventa è caratterizzata da una sostanziale unità di pensiero all’insegna dell’idealismo assoluto, nonché presentata come il culmine della speculazione italiana del secondo Ottocento. Il più grande merito di Spaventa è qui indicato nella dottrina della circolazione del pensiero – da lui elaborata nelle lezioni introduttive al corso napoletano del 1861-62 –, secondo cui i primi germi dell’emancipazione dalle astrattezze del pensiero scolastico e dell’avvio della moderna filosofia occidentale incentrata sulla coscienza del pensiero umano sono da ricercarsi nei pensatori italiani del Rinascimento. Più che agli umanisti propriamente detti, Spaventa faceva riferimento a Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e, soprattutto, Giordano Bruno, che avrebbero avuto il merito di spostare l’attenzione filosofica da un’astratta trascendenza all’immanenza del piano naturale e umano. Così, dai due principi di Campanella – la cognitio abdita (innata) e la cognitio illata (acquisita) – sarebbero sorte le due correnti filosofiche di razionalismo ed empirismo, con René Descartes e John Locke come rispettivi fondatori; mentre dal panenteismo bruniano sarebbe, invece, sorto il rigoroso immanentismo di Baruch Spinoza. In questo modo Spaventa ricavava varie derivazioni concettuali, sino a giungere al kantismo e all’idealismo assoluto, precorsi in Italia da Giambattista Vico e recuperati inconsapevolmente da Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti costoro avrebbero posto ‘al passo con i tempi’ il pensiero italiano, destinato a ritornare alle proprie origini dopo che i principi da esso scoperti, ‘emigrati’ all’estero, erano stati arricchiti.
Dal carteggio con Jaja e dall’introduzione agli Scritti filosofici emerge chiaramente come Gentile ritenesse Spaventa il corrispettivo nostrano di Hegel, e ritenesse sé stesso come investito di una sorta di missione: quella di riportare in auge l’idealismo assoluto sulla scia degli hegeliani di Napoli e del maestro Jaja, ormai isolato dal punto di vista culturale. Si tratta di un progetto che trova la propria espressione nel 1903, con la prolusione di Napoli La rinascita dell’idealismo, una sorta di manifesto del nuovo programma, già perseguito a suo modo da Spaventa: confrontare la filosofia idealistica con tutte le forme del pensiero contemporaneo, per dimostrarne l’inferiorità rispetto a essa. Il «deteriore» positivismo dell’ultimo Ottocento e le tendenze «mistiche» del neokantismo (professato in Italia anche da alcuni allievi o sodali dello stesso Spaventa, quali Felice Tocco e Francesco Fiorentino) sono i bersagli privilegiati degli acerbi strali di Gentile. L’applicazione della teoria della circolazione del pensiero in sede storico-filosofica, d’altra parte, era già operata da Gentile persino prima della pubblicazione degli scritti spaventiani. Nella sua tesi di laurea, dedicata a Rosmini e Gioberti, egli aveva messo in rilievo l’ascendenza kantiana del pensiero di Rosmini, e aveva riletto la nota disputa teorica tra i due pensatori alla luce della filosofia tedesca a loro contemporanea. Il che voleva significare, come già per Spaventa, che il pensiero italiano si stava riappropriando dei propri fecondi fondamenti.
Una riprova del fatto che, almeno prima della costruzione matura dell’attualismo, Gentile ritenesse la dottrina della circolazione del pensiero l’apporto più importante fornito da Spaventa è data dalla ripubblicazione che, nel 1908, curò della Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, ribattezzandola La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea. Nella prefazione a questa ristampa Gentile batte l’accento sul fatto che non si debba ritenere meramente storiografico il carattere dell’opera, riscontrandosi in essa una sorta di fenomenologia dello spirito, sia pure condotta nel suo aspetto storico (e non a partire dai primordi della conoscenza dell’individuo astratto). Si tratterebbe di una fenomenologia più ridotta e unilaterale di quella hegeliana, ma altrettanto chiara nel suo svolgimento: dalle impenetrabili concezioni dell’essere divino delle filosofie orientali sino all’oggettivismo greco, riformato in senso spiritualistico dall’avvento del cristianesimo, e tuttavia non abbandonato dal pensiero scolastico; infine, la scoperta del principio della soggettività pensante, effettuata dai pensatori italiani del Rinascimento, e sviluppata nel resto d’Europa. Il fatto che questa filosofia della storia appaia come una sorta di fenomenologia o, quantomeno, tale apparisse a Gentile, è un indizio sia delle pulsioni spaventiane alla riforma del sistema hegeliano sia di una possibile, precoce intuizione di Gentile riguardo l’indefinitezza dei confini di fenomenologia, storia e logica. Di quest’ultima disciplina (la logica) – non certo intesa come «materia particolare», bensì, di nuovo, come autoesplicazione dello Spirito – Spaventa aveva, del resto, fornito uno «schizzo» di storia in appendice all’opera in questione (Schizzo di una storia della logica).
Esso si presentava come complementare, in quanto incentrato in generale sullo sviluppo della filosofia, alla precedente trattazione, focalizzata sul pensiero italiano. La conclusione di questo lavoro, naturalmente, portava a Hegel, il cui merito sarebbe stato quello di provare l’identità tra pensiero ed essere. E, tuttavia, Spaventa esprimeva un dubbio che conferma come la sua adesione al filosofo tedesco non fosse all’insegna dell’ortodossia più rigida. Egli si chiede, riferendosi all’identità di cui sopra: «L’ha provata egli davvero? Questa è un’altra quistione» (Prolusione e introduzione alle lezioni di filosofia nella Università di Napoli, 1862, in Opere, 2009, p. 1396). Malgrado i possibili spunti di riforma presenti in questo scritto, tuttavia, Spaventa, nel rispondere alla questione su quale debba essere il «primo assoluto» in filosofia, forniva una sostanziale conferma della separazione hegeliana tra il «primo per noi» e il «primo in sé», riferendosi alla classica separazione tra fenomenologia e logica. Su questo passaggio, a suo avviso lasciato irrisolto da Spaventa, il Gentile attualista si concentrerà ampiamente. Così come si soffermerà sull’accenno finale dello Schizzo: quello alle prime categorie della logica di Hegel. Riferendosi ancora al «primo in sé», l’inizio della logica, Spaventa lo indica sì, seguendo Hegel, come «semplicemente l’essere», ma – precisa subito dopo – «il pensare come essere» (p. 1423).
L’esordio ufficiale dell’idealismo attuale è da collocarsi tra il 1911 e il 1912, con la composizione e la stampa della celebre comunicazione palermitana L’atto del pensare come atto puro. Se questo breve scritto si configura come puramente teoretico, è nella successiva raccolta La riforma della dialettica hegeliana (1913) che Gentile considera la genesi – storica e ideale – della propria revisione del sistema hegeliano. Nel farlo, oltre ad alcuni inediti, ripubblica suoi vecchi lavori nei quali erano progressivamente emerse delle questioni lasciate irrisolte in Hegel e dedica l’intera prima sezione dell’opera al confronto con Spaventa. Di quest’ultimo Gentile pubblica qui per la prima volta un Frammento inedito, che egli presenta come decisivo per tutto il pensiero contemporaneo, ovvero, per la nascita dell’attualismo. Tuttavia, il primo scritto spaventiano che Gentile prende in questo contesto a esaminare è una trattazione del celebre problema hegeliano della «deduzione categoriale», della posizione e giustificazione delle categorie costituenti il pensiero e, pertanto, la realtà: Le prime categorie della logica di Hegel (1864).
Qui, Spaventa affronta l’inizio della logica hegeliana, con la celebre esposizione delle prime tre categorie della Qualità – Essere, non-Essere, Divenire –, e alcune obiezioni o correzioni mosse alla deduzione di Hegel. La più nota tra queste è senza dubbio quella di Friedrich Adolf Trendelenburg, che aveva rilevato come, essendo il «primo logico» – l’Essere – assolutamente indeterminato (in quanto realtà nella sua forma più pura, priva di qualsiasi distinzione), esso viene a identificarsi con il non-Essere (Nulla), vale a dire, di nuovo, l’assenza totale di determinazioni ontologiche che avrebbe dovuto contraddistinguere la seconda posizione della logica. Stando così le cose, non vi sarebbe modo di ricavare il Divenire – la terza categoria – dalle prime due, perché la distinzione che esso richiederebbe per instaurare la propria posizione come «diversità ontologica» (non dandosi movimento nell’assoluta fissità dell’essere) non potrebbe certo scaturire dal nesso di due categorie identiche, e identiche nella loro totale immobilità. Di conseguenza, per Trendelenburg, Hegel avrebbe fallito nel tentativo di rendere conto del principio immanente a tutta la sua filosofia – il principio della dialettica –, poiché la categoria che dovrebbe esplicarlo – il Divenire, per l’appunto – è ricavata in un modo erroneo, smentendo tutto lo sviluppo successivo delle posizioni logiche. La logica hegeliana sarebbe quindi inadeguata perché instabile nel suo stesso fondamento, e tale si rivelerebbe tutto il sistema del filosofo, poggiando sulla determinazione ed esplicazione che la logica – come ‘Idea in sé’ – fornisce per le ulteriori manifestazioni del Pensiero.
Nel suo scritto del 1864 Spaventa, tenendo una posizione simile a quella già avanzata da Kuno Fischer, offre, più che una vera e propria «revisione», una «interpretazione» della deduzione hegeliana, tentando di dimostrarne la legittimità. La chiave della sua proposta risiede nella considerazione del non-Essere: non Nulla in quanto semplicemente, al pari dell’Essere primigenio, assenza totale di determinazioni – come, tra gli altri, Trendelenburg aveva inteso –, bensì in quanto «negazione assoluta dell’Essere», ovvero negazione di quella stessa indeterminatezza primordiale. La negazione dell’Essere assolutamente indistinto – l’impensabile – non potrà che rivelarsi il Pensare stesso. Esso, «fissando» l’Essere indeterminato, vi si «perde», confondendosi nella totale assenza di determinazioni. Così facendo, tuttavia, proprio «estinguendosi» nell’Essere, il non-Essere vi si «differenzia», introducendo una distinzione nell’originario indistinto. Una volta attivata questa «scintilla», il Divenire si spiega agevolmente, in quanto identità e distinzione (vale a dire: sintesi) delle prime due categorie. In quanto, cioè, incessante movimento di determinazioni, reso possibile dalla rottura dell’apparente immobilità di partenza. Ora, Spaventa nega recisamente che la «differenza» introdotta dal Pensare nell’Essere possa venire apportata da un «opinare»: un pensiero meramente soggettivo, quello del singolo individuo, che si trovi a pensare, negando l’essere puro come assenza di pensiero. In effetti, se così fosse (e la critica di Trendelenburg mirava proprio a dimostrare che Hegel non avesse altra via d’uscita se non quella di introdurre «da fuori» la differenza tra le due prime categorie), Hegel sarebbe caduto in un’incongruenza di sistema, reintroducendo al livello del «sapere assoluto» quel pensiero umano individuale e astratto che doveva essere stato inverato dal processo fenomenologico. La «differenza», invece, si deve considerare per Spaventa intrinseca allo stesso Essere che, proprio ponendosi come impensabile, è costretto a pensarsi come tale (impensabile), rivelandosi Pensare (non-Essere). La prima categoria della logica, di conseguenza, si rivela intimamente «dialettica», e da essa – il «primo della scienza» – può scaturire il funzionamento stesso della dialettica hegeliana degli opposti: il Divenire.
Gentile, a differenza di Spaventa, condivide sostanzialmente la critica di Trendelenburg, essendo pienamente convinto della «necessità» di riformare Hegel, non di interpretarlo semplicemente. Pertanto, anch’egli ritiene che l’errore fondamentale della deduzione hegeliana delle prime categorie infici tutto lo svolgimento della logica; non solo perché tale deduzione vi è posta a fondamento, ma anche per altre due ragioni. In primo luogo, la risoluzione della prima triade, la categoria del Divenire – come detto –, dovrebbe rendere conto del «principio motore» di tutto il Pensiero assoluto; in seconda istanza, perché Hegel avrebbe tratto dalla scorretta posizione del problema del fondamento l’illegittima pretesa di potere «ipostatizzare» l’intero svolgimento logico. Con il termine ipostatizzare, Gentile intende dedurre (giustificare) i vari momenti del processo concettuale – le categorie – derivandoli da un’analisi di nozioni sintetiche già previamente costruite, la cui costituzione venga esplicitata da questi stessi momenti. A questo proposito, Gentile critica la stessa nozione hegeliana di superamento (Aufhebung), inteso come il movimento dialettico che «toglie» i precedenti momenti del pensiero e tuttavia li «conserva». Gentile ribatte che la «conservazione» di un contenuto di pensiero – sia pure in una diversa forma data dall’avanzamento dinamico del processo – nuoce alla pretesa dialetticità del pensiero, facendo sì che ogni sua categoria sia in qualche modo ricavata da un qualcosa di «già posto» (le precedenti categorie). A questo meccanismo analitico, Gentile sostituisce la nozione di «sintesi originaria». Vale a dire: la forma eterna del Pensiero nella quale l’articolazione triadica si costituisce. In questo processo, però, se, come per Hegel, si ha la continua «presa di coscienza» da parte di un pensiero dapprima «inconscio» (soggetto) che si estrania nelle determinazioni specifiche (oggetto), tuttavia, stante la «precedenza ideale» della sintesi, non si dà l’esigenza di una cristallizzazione dello Spirito in sottotriadi, ossia in una successione statica di contenuti particolari, ognuno dei quali mantenga in sé i precedenti. È a causa di questa esigenza teorica che Gentile rigetta anche la separazione hegeliana di fenomenologia e logica: gnoseologia e ontologia vanno radicalmente unificate, poiché il processo conoscitivo è unico, ed è attuato non dal singolo individuo empirico, bensì «originariamente» dall’universalità dello Spirito. Il che vanifica le ulteriori posizioni hegeliane di filosofia della Natura e filosofia dello Spirito: una logica – quale quella di Hegel – che pretenda a tutti gli effetti di essere metafisica non può lasciare «residui» al di fuori di sé; non può – vale a dire – non costituire in maniera intrascendibile la totalità del reale.
La differenza tra la posizione di Spaventa e quella di Gentile, tuttavia, non si limita alla considerazione che la prima è una «interpretazione» e la seconda una «revisione» di Hegel. Gentile ritiene ancora inadeguata – al pari di quella offerta da Fischer – la proposta spaventiana del 1864 a causa della sostanziale, persistente presupposizione dell’Essere rispetto al Pensare. In effetti, se è vero che Spaventa aveva qualificato come «intrinseca» la differenza introdotta dal Pensare nell’Essere, è altrettanto vero che tale intrinsecità sarebbe stata semplicemente offerta dalla supposta necessità che il Pensare pensasse l’Essere. Dalla necessità, pertanto, di quell’Essere assolutamente indeterminato che Gentile nega, sostituendovi l’originarietà di una sintesi che, nei termini hegeliani, dovrebbe essere costituita dalla categoria del Divenire – che è invece «terzo», e non «primo», per Hegel. Una soluzione che a Gentile appare più convincente è avanzata da Spaventa nel Frammento inedito. Qui Spaventa – precorrendo a tutti gli effetti l’attualismo, come Gentile dichiara esplicitamente – corregge la propria posizione di quasi vent’anni prima, riconoscendo di fatto la superfluità del presupposto costituito dall’Essere immobile e privo di determinazione. Se il movimento (la «differenza») non può essere, come detto, introdotto da fuori – dal pensiero soggettivo, umano o assoluto che sia –, e se, posto un Pensare che pensi l’Essere, non si comprende da dove deriverebbe quest’ultimo, la conclusione di Spaventa è che il Pensiero sia originariamente in atto. Vale a dire: che il Pensare pensi eternamente, sdoppiando, per così dire, sé medesimo nell’atto pensante (Denken) e nel pensato (Gedanke) che ne costituisce l’oggetto. Questo porta Spaventa a concludere che il «primo logico» – l’«Essere indeterminato» – sia a tutti gli effetti costituito dal Pensare, cui il divenire sarebbe intrinseco.
La soluzione – come detto – fu particolarmente apprezzata da Gentile, che la ritenne un superamento di quella enunciata nello scritto sulle Prime categorie e, di conseguenza, la soluzione più rigorosa tra tutte quelle offerte fino ad allora a riguardo (comprese quelle, affini a quella spaventiana, di Karl Werder e Fischer). Tuttavia, egli non la considerava una soluzione definitiva. In effetti, commentando il Frammento spaventiano, poteva sostenere che esso avesse aperto la via, senza tuttavia imboccarla risolutamente. Ciò che tratteneva Spaventa dal farlo era, per Gentile, la sua – sofferta, ma mai del tutto sconfessata – adesione alla ripartizione sistematica hegeliana, nonché la stessa triplicità, nel senso di Hegel, da lui mantenuta nella deduzione delle prime categorie logiche. Se, in effetti, Spaventa aveva mostrato che l’Essere indeterminato era a tutti gli effetti Pensare, non per questo aveva rigettato la successione (sia pure ideale e non cronologica) Essere-non Essere-Divenire, limitandosi ad attribuire al Pensare (non-Essere) l’intero onere del processo sin dalla sua origine. Non aveva – in altri termini – posto rigorosamente il Divenire come «primo», cogliendo l’astrattezza delle due categorie che Hegel aveva a quello premesse, e la mancanza di giustificazione autonoma di esse. Vale a dire: la mancanza di giustificazione di esse se non in rapporto al Divenire stesso, dal quale erano state ricavate «analiticamente». Una vera deduzione «dialettica», per Gentile, non può ricavare un concetto (nella fattispecie, il Divenire) dai concetti che presuppongono il primo (Essere e non-Essere); al contrario, saranno questi ultimi a dover essere dedotti dal vero «primo»: la sintesi originaria che dispiega tutte le determinazioni del reale. E tutte queste determinazioni, a cagione della dialetticità del reale medesimo, non potranno essere «indicate» nel contenuto, ma semplicemente «poste» dalla forma eterna in tutta la loro infinita varietà.
Dalla scuola di Spaventa o mediante gli influssi da lui esercitati emersero personalità importanti nel panorama filosofico italiano. Ciononostante, negli ultimi decenni dell’Ottocento, il positivismo assurse a filosofia dominante nel Paese, e gli ultimi scolari propriamente idealisti del filosofo – tra cui Jaja e Sebastiano Maturi – restarono in una situazione di relativo isolamento culturale. Il merito di riportare in auge la filosofia di Spaventa spetta proprio a Gentile. Se lo Spaventa gentiliano sia poi realmente fedele agli scritti di Spaventa è un’altra questione. Quel che resta certo è che Gentile contribuì a istituire quella ‘linea genetica’ Hegel-Spaventa-Gentile che dal secondo dopoguerra in poi verrà sia criticata a livello teorico sia messa in discussione a livello storiografico.
Il destino patito dal pensiero di Spaventa e quello del pensiero gentiliano sono stati, in un certo senso, paralleli. Denigrata e accantonata come provinciale e arretrata la filosofia di Gentile, a maggior ragione non poteva essere valutata con approvazione quella di Spaventa, la cui unica originalità era fatta consistere in tematiche che si stava cercando di mostrare irrilevanti, vale a dire le (pretese) «riforme» del sistema hegeliano, condotte da un punto di vista che hegeliano – e, pertanto, retrogrado – restava.
Quella messa in atto da Gentile, mediante Spaventa, si può definire una radicalizzazione dell’idealismo hegeliano, intesa nel senso di una ‘rarefazione’ della sua struttura e della sua articolazione sistematica. Il tentativo di Gentile – in altre parole – è stato quello di elaborare un metodo di indagine che, coincidendo programmaticamente con l’asserzione hegeliana della identità di filosofia e metodo filosofico, dalla prospettiva hegeliana cercasse, tuttavia, di espungere le elaborazioni specifiche che andassero contro tali propositi. In questa chiave si deve intendere la critica gentiliana di ogni forma di dogmatismo, ovvero di tutte le filosofie che pretendano di partire da presupposti vagliati in modo arbitrario. In nome del «metodo dell’immanenza» in cui consiste la presa di coscienza operata dalla filosofia, tutto ciò che pretenda di costituire un ‘residuo’ irriducibile a tale metodo va considerato una presupposizione infondata. Il criterio fondante di questa immanenza si basa sull’unica evidenza che si configuri come imprescindibile e assoluta, in quanto costituita dal «pensare», inteso come orizzonte unitario di ogni determinazione della realtà. Un pensare impossibile da trascendere, perché ogni supposta trascendenza di esso sarebbe, in ogni caso, in quanto pensata, interna a tale orizzonte.
A queste ragioni, naturalmente, vanno ricondotte le critiche alla stessa prospettiva di Hegel, alla quale Gentile nega il titolo di effettiva filosofia del «pensiero pensante», riducendola a filosofia del «pensiero pensato», impostata su una serie di ripartizioni «permanenti», presupposte ed erroneamente separate da quel pensiero sempre presente a sé stesso che dovrebbe pensarle. I tentativi di Spaventa, letti mediante questo approccio teorico, appaiono perfettamente congruenti a quelli – più consapevoli – del suo successore. Uno dei problemi fondamentali (ad avviso di Gentile, il problema fondamentale) di tutta la meditazione spaventiana era dichiaratamente stato quello di «provare l’identità»: cioè, dimostrare la coincidenza del piano dell’essere con quello del pensiero, in modo da evitare qualunque forma di presupposto oggettivistico che ponesse in discussione l’unitarietà del reale. Come lo stesso Gentile non ha mancato di rilevare, la meditazione spaventiana, a partire da un certo periodo in poi, si è orientata sempre meno sulla trattazione dell’impalcatura sistematica hegeliana e, contemporaneamente, sempre più verso quelle questioni nelle quali egli riteneva si annidasse la stessa radice dell’idealismo assoluto, nonché la sua salvaguardia teorica.
D’altra parte, appiattire completamente la speculazione spaventiana sugli sviluppi a essa impressi da Gentile sarebbe un’operazione storiografica sostanzialmente scorretta. Esattamente come sarebbe scorretto ritenere che il pensiero spaventiano – in continua tensione, modificazione, sviluppo – si sia unicamente arrovellato intorno a poche questioni. Questo pregiudizio, oltre che dall’interpretazione gentiliana, è stato avallato anche da Benedetto Croce, che ritenne Spaventa esclusivamente intento a misurarsi con un «problema unico», che egli poi indicherà (adducendo anche le origini «seminariali» di Spaventa) come un problema di carattere «teologico» (cfr. lettera a Gentile dell’agosto 1898, in Lettere di Benedetto Croce a Giovanni Gentile, «Giornale critico della filosofia italiana», 1969, 1, p. 27). A questo proposito, sarà sempre Croce a ricordare, in una tarda memoria, come Gentile avesse elaborato l’attualismo proprio sulla base di un «pensiero poco felice dello Spaventa» (recensione a M. Ciardo, Natura e storia nell’idealismo attuale, 1949, postilla a Ugo Spirito, «Quaderni della “Critica”», marzo 1950, 16, p. 98), dando vita a una filosofia che già il Croce della polemica sulla «Voce» aveva definito «teologizzante» e «mistica».
In ogni caso, bisogna ribadire come Spaventa non giunse mai a rigettare esplicitamente la distinzione hegeliana di fenomenologia e logica. La fenomenologia riveste, anzi, un ruolo importante nella sua filosofia, come dimostrano la fenomenologia storica delle lezioni napoletane e lo Schizzo a esse in appendice. Si può aggiungere a quanto già rilevato che è proprio in quest’ultima trattazione che si riscontra come Spaventa – o, almeno, questo Spaventa, dell’inizio degli anni Sessanta – non si fosse discostato dall’architettura sistematica hegeliana. Vi si legge che a necessitare di essere «provato» sia solo il «primo logico», mentre il mero «cominciamento fenomenologico», riferendosi alla «esperienza immediata», non si deve «dimostrare», in quanto semplicemente «si dà». Il che procede, da un lato, verso una constatazione dell’ego umano empirico in quanto astratta immediatezza, da superarsi e mediarsi e, tuttavia, presente; dall’altro, verso quella reduplicazione del «piano trascendentale» che, a detta di Gentile, aveva caratterizzato anche gran parte dei tentativi speculativi di Jaja.
Va inoltre ricordato come più di uno scritto spaventiano degli anni Settanta – basti pensare a Sulle psicopatie in generale (1872) o a La legge del più forte (1874) – prenda l’aspetto di un confronto con positivismo, empirismo e persino con la psicologia fisiologica del tempo; un confronto, tuttavia, molto meno esclusivista di quanto non sarà quello intrattenuto da Gentile con le stesse tematiche. Se Gentile sarà, per tutto l’arco della propria speculazione, poco incline a compromessi e contaminazioni con quelle scienze e quelle filosofie (il positivismo, per eccellenza) da lui giudicate dogmatiche, lo stesso non si può a ogni effetto affermare di Spaventa. Il suo intento, infatti, era quello di mostrare come la filosofia (e, ovviamente, la filosofia hegeliana nella fattispecie) non dovesse tanto discostarsi dalle moderne acquisizioni scientifiche, quanto inverarle compiutamente. La grande differenza rispetto a Gentile sta, a questo proposito, nel fatto che quest’ultimo, pur ritenendo anch’egli che la filosofia sia la «scienza universale», nella quale confluiscono tutte le attività umane, mette chiaramente in rilievo come il metodo filosofico debba differire radicalmente da quello delle scienze naturali.
Un altro elemento significativo da prendere in considerazione è poi la diversa concezione della religione, e in particolare della religione cattolica, vigente tra i due pensatori. Dovendo addurre una ragione per il mancato sviluppo, in Italia, dei principi scoperti nel Rinascimento, Spaventa la additava nella nefasta influenza della Controriforma, proseguendo una polemica per lui duratura, sin dal dibattito degli anni Cinquanta con la «Civiltà cattolica»: quella anticlericale. Se Gentile non fu mai del tutto ostile alla religione cattolica, è tuttavia evidente che anche questo aspetto esercitò su di lui una certa influenza. Il primo Gentile, in effetti, polemizzò vivacemente contro le forme mistiche ed estatiche assunte da un impensabile (e, quindi, indimostrabile) fondamento trascendente la realtà spirituale, anche se fu sempre netta, sul piano teorico, la sua accettazione del cattolicesimo come di un momento insopprimibile della coscienza spirituale.
L’interpretazione di Gentile – effettivamente legittimata dalle intuizioni spaventiane, soprattutto, da quelle del Frammento – si presenta, quindi, da un lato, come un’accentuazione – essa sì, concentrata su un «problema unico» – delle esigenze di unitarietà gnoseologica e ontologica emerse negli scritti spaventiani citati; dall’altro lato, come una messa a fuoco di aspetti che nel pensiero di Spaventa erano inseriti in un contesto più complesso e variegato. Il «problema unico» è quello del rapporto tra unità del piano trascendentale e «constatata» molteplicità delle determinazioni di esso: a tale riguardo, il nesso dialettico tipicamente idealistico viene riproposto da Gentile (che lo rende monotriadico). Con tale problema viene a coincidere anche la messa a fuoco operata riguardo Spaventa: un’interpretazione che Gentile non poté effettivamente disgiungere dalla genesi del proprio idealismo attuale.
F. Alderisio, Esame della riforma attualistica dell’idealismo in rapporto a Spaventa e a Hegel, Todi s.d. [ma 1941].
E. Garin, Cronache di filosofia italiana. 1900-1943, Bari 1955, pp. 15-22, 196 e 231-40.
V.A. Bellezza, La riforma spaventiano-gentiliana della dialettica hegeliana, in Incidenza di Hegel, a cura di F. Tessitore, Napoli 1970, pp. 685-756.
A. Negri, Giovanni Gentile, 1° vol., Costruzione e senso dell’attualismo, Firenze 1975.
A. Savorelli, Riforma della dialettica, riforma del sistema: crisi e trasformazioni dell’hegelismo in Spaventa (1861-1883), in B. Spaventa, Esperienza e metafisica, Napoli 1983, pp. 7-80.
A. Savorelli, Gentile e Jaja, «Giornale critico della filosofia italiana», 1995, 74, pp. 42-64.
D. Spanio, L’essere e il circolo. Spaventa, Jaja, Gentile, «Annali dell’Istituto italiano per gli studi storici», 1998, 15, pp. 405-544.
V. Vitiello, Hegel in Italia. Dalla storia alla logica, Milano 2003, pp. 129-49 e 211-48.