Gentile e Mussolini
Gentile giurò fedeltà al re Vittorio Emanuele III, come ministro della Pubblica Istruzione, il 31 ottobre 1922. Fino ad allora non aveva mostrato interesse nei confronti del movimento fondato dal capo del governo, Benito Mussolini, né tanto meno l’intenzione di collaborare con il Partito fascista. Era un noto studioso di filosofia e di pedagogia che ricopriva un ruolo istituzionale, perché dal 1917 era membro della giunta del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione. La sua candidatura a ministro era stata sostenuta da Camillo Pellizzi – fascista della prima ora e intellettuale vicino agli idealisti – e dal pedagogista gentiliano Ernesto Codignola, i quali nel settembre del 1922 avevano incontrato Mussolini per illustrargli la riforma scolastica cui Gentile lavorava dai primi anni del secolo. Da parte sua il capo del fascismo aveva approvato il nome del filosofo, che gli era stato indicato dal sindacalista Agostino Lanzillo (De Felice 1966, p. 376; Turi 1995, p. 304). Nel chiamarlo a far parte del suo governo, Mussolini ottenne due risultati: da un lato, mostrò all’Italia e al mondo che il fascismo poteva avvalersi della collaborazione di intellettuali di chiara fama e, dall’altro, si assicurò il consenso del Partito popolare, che era fra i principali sostenitori della politica scolastica di Gentile. A differenza di molti fascisti, infatti, i popolari si mostrarono subito entusiasti di una riforma che introduceva la religione cattolica come materia di insegnamento nelle scuole elementari e l’esame di Stato al termine di ciascun ciclo scolastico.
In realtà, la riforma Gentile modificò tutti i gradi e gli ambiti dell’istruzione pubblica, e soprattutto aumentò il carico di lavoro degli studenti italiani: sia l’ingresso a una scuola secondaria di primo grado, sia il passaggio a una di secondo grado erano vincolati al superamento di esami di ammissione che, come quelli di maturità per i licei, o quelli di licenza per la scuola complementare e per il liceo femminile, assunsero la forma di esami di Stato e divennero obbligatori per tutti gli alunni. La decisione di inserire l’esame di Stato non derivava dalla volontà di facilitare il percorso degli studenti delle scuole private, ma da quella di esercitare un controllo su tutte le scuole e di consentire ai privati di organizzare propri istituti per assorbire la popolazione scolastica che non riusciva a frequentare le scuole dello Stato.
Analogamente, la scelta di inserire la religione cattolica nei programmi delle elementari non nasceva dal proposito di trasformare la scuola laica in una scuola confessionale. Gentile riteneva che la religione avrebbe potuto svolgere le funzioni di una philosophia inferior ed era convinto che quella cattolica, essendo la religione dei padri e della tradizione italiana, avrebbe contribuito alla costruzione della coscienza nazionale degli studenti. Per queste ragioni nel 1923 stabilì che fosse insegnata da maestri elementari, e non da religiosi, e che non rientrasse nella valutazione del profitto complessivo dell’alunno (Scuola laica, in Educazione e scuola laica, 1921, a cura di H.A. Cavallera, 19885, p. 128).
Nei venti mesi in cui guidò il ministero della Pubblica Istruzione, Gentile dovette difendersi dai numerosi critici della sua riforma: il Partito nazionale fascista (PNF), il variegato mondo antifascista, i rappresentanti delle categorie e i genitori dei ragazzi, che lo accusarono di avere una concezione aristocratica dell’insegnamento e di aver creato una scuola che aumentava eccessivamente l’impegno di lavoro degli studenti (Tarquini 2009, p. 39). Proprio allora i suoi rapporti con il capo del governo si consolidarono. Il 12 marzo 1923, per ringraziarlo del sostegno e della fiducia che gli aveva accordato, Gentile dedicò a Mussolini una sua antologia di scritti, I profeti del Risorgimento italiano (1923, 19443), definendolo «italiano di razza degno di ascoltare la voce dei profeti della nuova Italia» (p. VII), e il 31 maggio fu con una lettera aperta a lui indirizzata che accettò la tessera ad honorem del PNF:
Caro Presidente, dando oggi la mia formale adesione al Partito Fascista, La prego di consentirmi una breve
dichiarazione, per dirLe che con questa adesione ho creduto di compiere un atto doveroso e di sincerità e di onestà. Liberale per profonda e salda convinzione, in questi mesi da che ho l’onore di collaborazione all’alta Sua opera di Governo e di assistere così da vicino allo sviluppo dei principi che informano la Sua politica, mi son dovuto persuadere che il liberalismo, com’io l’intendo e come lo intendevano gli uomini della gloriosa Destra che guidò l’Italia del Risorgimento, il liberalismo della libertà nella legge e perciò nello Stato forte e nello Stato concepito come una realtà etica, non è oggi rappresentato in Italia dai liberali, che sono più o meno apertamente contro di Lei, ma per l’appunto, da Lei. E perciò mi son pure persuaso che fra i liberali d’oggi e i fascisti che conoscono il pensiero del Suo fascismo, un liberale autentico che sdegni gli equivoci e ami stare al suo posto, deve schierarsi al fianco di lei (Adesione al Partito fascista, in La riforma della scuola in Italia, 1932, a cura di H.A. Cavallera, 1989, p. 94).
Come si può notare, nell’entrare a far parte del PNF, Gentile prese le distanze dal liberalismo dei liberali italiani e rivendicò la volontà di aderire non a un generico fascismo, o a quello rappresentato dal Partito, ma al progetto politico di Mussolini, al quale scrisse la lettera. In effetti, gli scambi epistolari di quei mesi testimoniano la presenza di una reale vicinanza: per es., il 12 febbraio 1924, in occasione di uno scontro fra i fascisti trapanesi e suo fratello Giuseppe, Gentile presentò le proprie dimissioni al capo del governo, il quale le respinse, scrivendogli una lettera molto cordiale che iniziava con «caro Maestro e Amico» (Archivio della Fondazione Gentile, d’ora in poi AFG). Il 31 marzo dello stesso anno, in occasione della campagna per le elezioni politiche del 6 aprile, il filosofo pronunciò nel Teatro Massimo di Palermo un discorso (Il fascismo e la Sicilia, poi pubblicato in «La nuova politica liberale», aprile 1924, pp. 81-99, e ora in Politica e cultura, a cura di H.A. Cavallera, 1° vol., 1990, pp. 38-60) in cui descrisse Mussolini con la retorica di un vero fascista:
Ricordate sempre, o giovani, l’Uomo che a Palazzo Chigi lavora giorno e notte, nel travaglio di una passione fiammeggiante per la grandezza della Patria, i grandi occhi intenti, rivolti su voi, su tutti gli italiani. A lui l’anima vostra, pel vostro avvenire, per le fortune di questa isola da venticinque secoli sacra ad ogni popolo civile, per la gloria della nuova Italia vittoriosa! (in Politica e cultura, 1° vol., cit., p. 60).
Il 14 giugno 1924, in piena crisi Matteotti, quando le sorti del governo erano in pericolo, Gentile si dimise ma non prese le distanze dal fascismo e meno che mai da Mussolini. Cedette l’incarico perché era criticato dagli uomini del partito – che lo consideravano un liberale, e dunque non uno di loro – e perché era convinto che la sua permanenza al ministero avrebbe pregiudicato le sorti della riforma scolastica. Nel lasciare il ministero, Gentile indicò Alessandro Casati come suo successore, e da allora intensificò la collaborazione con il fascismo. Il 1° luglio il capo del governo ratificò le dimissioni di Gentile, ma non ne considerò conclusa l’esperienza politica e anzi, il 4 settembre, lo nominò presidente della Commissione dei quindici, che era stata incaricata dal PNF di elaborare un progetto di riforma dello Statuto albertino.
Quando Gentile inaugurò i lavori, ricordò che i più autorevoli esponenti della classe politica italiana avevano espresso la volontà di modificare lo Statuto. Per questo sostenne che la questione delle riforme istituzionali si collocava all’interno del processo di costruzione dell’identità nazionale inaugurato dal Risorgimento e proseguito dai suoi eredi migliori e cioè, secondo lui, dagli uomini della destra storica. Nei mesi in cui fu alla guida della Commissione – che il 31 gennaio 1925 fu trasformata in un organo di nomina governativa e allargata a diciotto membri –, il filosofo espresse più volte i suoi giudizi sul rapporto fra il fascismo e il Risorgimento, dichiarando apertamente che i fascisti erano gli eredi dello spirito e del progetto politico di Giuseppe Mazzini. Per questo erano superiori ai nazionalisti, sostenitori del primato della nazione come dato storico o espressione geografica, e non di un’idea di patria come realizzazione continua di un programma politico e di una tensione morale (Tarquini 2009, p. 47).
Convinto dunque che il fascismo avrebbe proseguito l’opera iniziata con il Risorgimento, a fine marzo 1925 Gentile partecipò a Bologna al Congresso delle istituzioni culturali fasciste: in quella sede elaborò il Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le nazioni, corretto di pugno di Mussolini, e fu nominato presidente dell’Istituto nazionale fascista di cultura, inaugurato il 19 dicembre (Turi 1995, p. 358; Tarquini 2009, p. 59). Da allora diresse molteplici istituzioni e iniziative culturali e gestì un potere che non era stato riconosciuto a nessun altro intellettuale fascista, non mancando di offrire il proprio contributo come ideologo del fascismo e grande ammiratore di Mussolini. Per es., inaugurando l’Istituto nel dicembre del 1925, Gentile ribadì la propria fede fascista e volle rimarcare l’ammirazione che provava per il capo del governo. In quella sede affermò che Mussolini rappresentava la personificazione dell’idea fascista, «un eroe, uno spirito privilegiato e provvidenziale, in cui il pensiero s’è incarnato, e vibra incessantemente col ritmo potente d’una vita giovanile e in pieno rigoglio», «una volontà e un’intelligenza superiore a ogni accorgimento e a ogni interesse particolare e soggettivo», un creatore e un artista della politica. Non lesinando espressioni altisonanti, che come quelle di molti avrebbero contribuito a creare il mito di Mussolini, concluse:
nessuno più di lui è compreso del religioso rispetto che è dovuto a un pensiero che si svolge così, scevro di passioni personali, attraverso una coscienza insonne, tutta compenetrata di un intuito di una grande realtà nazionale ed umana nel suo divenire divino. Nessuno più di lui superbo della sua missione; nessuno più di lui umile nella devozione di tutto il proprio essere alla missione di cui sente così profondamente la responsabilità (La riforma della scuola in Italia, cit., p. 258; Tarquini 2011, p. 112).
Al termine dei lavori della Commissione dei diciotto i fascisti intransigenti, che l’avevano criticato duramente durante il convegno di Bologna, tornarono ad attaccarlo e in ottobre i collaboratori del «Popolo d’Italia» annunciarono che Mussolini avrebbe ripudiato «una parte delle riforme soloniche non già perché troppo estremiste, ma perché troppo poco estremiste e troppo poco rivoluzionarie» (cit. in Tarquini 2009, p. 54). In effetti, Mussolini sconfessò l’attività dei ‘Soloni’ con il ‘patto di Palazzo Vidoni’, che regolava i rapporti fra i lavoratori e la Confindustria. Nei mesi successivi la trasformazione dell’ordinamento giuridico proposta dalla Commissione dei diciotto venne oltrepassata dall’attività di Alfredo Rocco, che dal 5 gennaio era ministro della Giustizia. Si trattò della prima sconfitta di Gentile, osteggiato da una parte del fascismo e non difeso da Mussolini, che scelse una strada diversa da quella indicata dalla Commissione.
L’insuccesso fu ancora più rilevante perché contemporaneamente il filosofo dovette affrontare due questioni importanti: la prima legata alla gestione dell’Enciclopedia Italiana, e la seconda alla riforma della scuola. Il 18 febbraio 1925 il senatore Giovanni Treccani fondava l’Istituto Giovanni Treccani con lo scopo di pubblicare l’Enciclopedia Italiana della quale era nominato direttore scientifico Giovanni Gentile, da realizzare per l’impegno economico dello stesso Treccani. Nell’atto costitutivo si auspicava che collaborassero alla redazione delle singole voci tutte le migliori competenze ed energie intellettuali disponibili a realizzare un’opera di alto livello scientifico e culturale. L’art. 4 specificava che l’Istituto della Enciclopedia Italiana era legato alla coscienza del popolo italiano e agli alti destini cui poteva aspirare, ma era «apolitico nel senso assoluto della parola». Proprio per questo, ancor prima dell’uscita del primo volume (1929), diversi personaggi del mondo politico fascista criticarono Gentile. La polemica più nota fu quella sollevata dal direttore del quotidiano fascista romano «Il Tevere», Telesio Interlandi, che scatenò un caso intorno ai collaboratori dell’Enciclopedia Italiana, accusandoli di non essere veri fascisti con l’articolo Considerazioni sopra un elenco di Enciclopedici (25 aprile 1926, p. 1):
Quale contributo porteranno questi novanta “intellettuali” all’Enciclopedia che noi sognavamo dovesse essere “fascista” cioè informata a quel nuovo spirito nazionale che appunto chiamiamo Fascismo? Se i fascisti vi porteranno questo spirito e gli antifascisti un altro, l’Enciclopedia che verrà fuori da questa orribile collaborazione sarà un glorioso pasticcio “imparziale”. Oh divina imparzialità come volentieri ti tireremmo il collo! […] Dovremo, dunque, respingere dall’età fascista questo monumentale lavoro che pur fu annunziato come lo specchio fedele dell’Italia rinnovata, cioè non più liberale. Parola d’onore che a conti fatti preferiremo l’Enciclopedia Melzi illustrata (cit. in Tarquini 2009, p. 66).
Come si è visto, Gentile si considerava un precursore del fascismo. L’aveva scritto più volte e lo ribadì il 28 aprile 1926, rispondendo a Interlandi sulle pagine del quotidiano romano «La Tribuna» (Tecnica e politica. Una lettera di Giovanni Gentile). Secondo il filosofo, trasformare l’Italia significava imporre una logica nazionale alla politica, e quindi rendere effettiva l’identificazione fra gli italiani e lo Stato fascista, facendo sentire tutti – i fascisti come gli antifascisti – espressioni dello Stato guidato da Mussolini. In questo senso riteneva che per la sua stessa natura di partito, cioè di parte di un ambito politico più ampio, il PNF esprimesse una logica faziosa ed era convinto che se il fascismo gli avesse delegato la trasformazione della società non si sarebbe differenziato dai regimi politici precedenti. Dunque, di fronte alle polemiche dei più intransigenti, Gentile ribadì pubblicamente la propria fede fascista, sicuro di avere il sostegno del capo del governo: nel maggio 1926 riferì a Luigi Russo che Mussolini aveva approvato esplicitamente le direttive dell’Enciclopedia, lasciando intendere che tutto il fascismo era grato ai collaboratori di un’opera così importante (cfr. Turi 1995, p. 364). In realtà, come si accennava, in quei mesi dovette gestire anche un altro conflitto.
Nell’estate del 1927 il capo di Stato maggiore, generale Pietro Badoglio, informò Mussolini che, alla leva militare, fra i diplomati vi era una percentuale molto alta di riformati (B. Mussolini, Opera omnia, 40° vol., 1979, pp. 405-06). Per questo gli chiese di potenziare l’insegnamento dell’educazione fisica nelle scuole e di proseguire nella direzione già individuata dal ministro Pietro Fedele – che il 5 gennaio aveva sostituito Casati –, riducendo cioè i programmi scolastici degli studenti delle scuole secondarie. Le richieste di Badoglio vennero accolte da Mussolini, che il 14 luglio scrisse a Fedele indicandogli l’orientamento della politica scolastica. A quasi cinque anni dall’approvazione della riforma Gentile, anche Mussolini riteneva che i programmi scolastici fossero troppo ampi e troppo pesanti e temeva che la scuola italiana fosse un mondo a parte, un luogo di saperi astratti nel quale la formazione degli studenti si risolveva in un mero percorso culturale. Per questo autorizzò Fedele a modificare la riforma: approvò l’introduzione dello studio del fascismo nei programmi e l’istituzione di una giornata dedicata ai giochi sportivi e alle gite turistiche, pensando che l’educazione politica e le attività extrascolastiche fossero decisive per la formazione di una generazione di giovani fascisti (cfr. Tarquini 2011, p. 72).
Osteggiato nella sua opera più importante, il 4 agosto 1927 Gentile si rivolse direttamente a Mussolini, scrivendogli una lettera in cui protestava contro
l’ingerenza [...] delle autorità del partito [...] nell’amministrazione [...] della scuola, col pretesto di una fascistizzazione che in realtà troppo spesso si risolve in modo da favorire i peggiori fascisti, sia per procurare ad essi promozione ed altri vantaggi non meritati, sia per sottrarli a sanzioni legittime e necessarie al regolare andamento di un così importante servizio. Di questa ingerenza si citano ogni giorno esempi, che gettano una ombra fosca sul regime fascista (AFG).
Queste sue rimostranze non furono sufficienti a difendere la riforma: nei mesi successivi, la necessità di trasformare la scuola italiana venne espressa dal Gran consiglio, che il 10 novembre 1927 dichiarò la necessità di stabilire un più diretto contatto della scuola «con la vita in tutte le sue manifestazioni di forza, di bellezza e di lavoro» (cit. in Tarquini 2009, p. 128). Per rispondere a queste direttive, il 18 marzo 1928 un decreto legge (nr. 780, Disposizioni relative ai libri di testo per le scuole elementari) stabilì che i libri di testo per le scuole elementari dovessero conformarsi alle esigenze emerse dall’ascesa al potere del movimento fascista. I libri già ordinati sarebbero rimasti in commercio fino al settembre del 1930, mentre in seguito sarebbero stati sostituiti da un libro di Stato unico per tutte le scuole elementari, pubbliche e private (Tarquini 2011, p. 73).
Per Gentile si trattò di una vera sconfitta che, tuttavia, ancora una volta, non fece venire meno l’ammirazione che provava per il capo del governo. Il 14 maggio 1927, nel discorso (Il programma) che apriva un ciclo di conferenze tenute nel Palazzo Giustiniani di Roma dall’Istituto nazionale fascista di cultura, il filosofo dichiarò che la rivoluzione fascista era una forza incessante «superiore alle volontà e alle stesse idee degli uomini singoli», una «necessità storica» che si era resa concreta «in un Uomo privilegiato di doti singolari di genialità realizzatrice, che vien creando ad ora ad ora come ispirato e mosso da un istinto misterioso questa nuova Italia, tra l’intenta ammirazione e la trepida ansia del mondo» (cit. in Tarquini 2011, p. 113). Proprio in quei mesi Mussolini conduceva i negoziati che l’11 febbraio 1929 avrebbero portato alla firma dei Patti lateranensi tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica.
Nell’estate del 1927, per rafforzare il proprio potere contrattuale, il capo del governo orchestrò una polemica sulla stampa intorno al problema generale dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa (De Felice 1968, p. 402). Gentile, sul «Corriere della sera» del 30 settembre 1927, espresse dure critiche contro l’ipotesi di un concordato, ribadendo la sua netta ostilità a ogni sorta di conciliazione e negando la possibilità di una separazione del potere spirituale dal temporale. Poco più di un anno dopo, i Patti lateranensi avrebbero segnato una sconfitta del filosofo, rimasto fra i pochissimi contrari a un evento salutato dall’opinione pubblica italiana e internazionale con un vero tripudio.
Secondo un’interpretazione a lungo prevalente, da allora il regime fascista evidenziò il proprio volto reazionario ed emarginò Gentile, offrendo spazi politici sempre maggiori ai suoi oppositori. Così, mentre la Chiesa abbandonava gli stimoli sorti con il modernismo all’inizio del secolo, il fascismo avrebbe scelto una legittimazione teorica diversa da quella che gli aveva fornito Gentile negli anni Venti, quando era stato il principale ideologo del regime (cfr. Garin 1985, p. 18). In effetti, in seguito al Concordato molti cattolici immaginarono che l’influenza del filosofo sul fascismo, basata su un equivoco perdurato fino al 1929, avrebbe avuto fine e che il regime avrebbe finalmente riconosciuto alla cultura cattolica il ruolo di centro propulsore dell’ideologia fascista. In realtà, le cose non andarono così: le sconfitte politiche di Gentile si consumarono ben prima del 1929, e non certo grazie ai cattolici, ma ai fascisti più intransigenti; d’altra parte, il Concordato rappresentò un grande successo di Mussolini, che negli anni Trenta accelerò il cammino verso la costruzione del regime totalitario, mostrando di avere una concezione del tutto strumentale della religione cattolica.
Il 30 gennaio 1929 Gentile incontrò Mussolini e gli chiese di presiedere il settimo Congresso nazionale di filosofia, che si sarebbe svolto a Roma tra il 26 e il 29 maggio allo scopo di promuovere la riscossa dello spirito nazionale e l’affermazione dei pensatori italiani nel mondo. Mussolini, dato il programma del congresso, accettò la decisione di porre all’ordine del giorno la discussione sul Concordato, la scelta di coinvolgere i filosofi dell’Università cattolica di Milano e il contenuto della relazione di Gentile, La filosofia e lo Stato. Nel decidere di presiedere il comitato d’onore e di prendere parte alla prima giornata dei lavori di un congresso organizzato da Gentile, sottolineò l’importanza della manifestazione e rafforzò la battaglia che il filosofo e i suoi allievi si apprestavano a combattere contro i cattolici. Con lo stesso spirito, il 13 maggio 1929, alla Camera dei deputati, concludendo un lungo intervento sui Patti lateranensi, utilizzò parole di chiara ispirazione gentiliana e affermò (Archivio centrale dello Stato, Presidenza consiglio dei ministri, d’ora in poi ACS, PCM, 1928-1930, f. 14-3, lettera di G. Gentile a B. Mussolini, 31 gennaio 1929, cit. in Tarquini 2009, p. 137):
Un altro regime che non sia il nostro, un regime demoliberale, un regime di quelli che noi disprezziamo, può ritenere utile rinunziare all’educazione delle giovani generazioni. Noi no. In questo campo siamo intrattabili. Nostro deve essere l’insegnamento. Che cosa sarebbe lo Stato se non avesse un suo spirito? […] Una cosa miserevole, davanti alla quale i cittadini avrebbero il diritto della rivolta o del disprezzo. Lo Stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità: è cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto esclusivamente, essenzialmente fascista (cit. in De Felice 1968, p. 430).
Come si può notare, oltre a chiarire che il regime non avrebbe rinunciato alla fascistizzazione della società e dello Stato, e che, quindi, anche dopo la firma dei Patti non avrebbe delegato ai cattolici l’organizzazione della cultura o la gestione della scuola, Mussolini scelse di utilizzare un lessico di matrice gentiliana e di parlare del carattere etico dello Stato fascista.
Negli anni Trenta i rapporti fra Gentile e Mussolini cambiarono, perché il capo del governo ebbe nei confronti del filosofo un atteggiamento decisamente oscillante: per es., nella seduta del Consiglio dei ministri del 18 marzo 1931 Mussolini definì la riforma del 1923 «un errore dovuto ai tempi e alla mentalità dell’allora ministro» (ACS, PCM, Gabinetto, Atti 1931-33, b. 678, f. 3-5/4023, cit. in De Felice 1974, p. 189), mentre il 31 agosto di quell’anno scrisse a Gentile una lettera in cui si complimentava per un suo libro appena pubblicato, La filosofia dell’arte, e non risparmiava parole di stima e apprezzamento per la sua opera (cfr. AFG).
Queste ambiguità di Mussolini, e più in generale i cattivi rapporti che Gentile aveva con molti esponenti del PNF, non misero comunque mai in dubbio la scelta politica compiuta dal filosofo. All’inizio di gennaio del 1929 propose a Mussolini di introdurre «una breve aggiunta» al giuramento dei professori, già previsto nel 1924, per «risolvere la questione delicata e ormai urgente della fascistizzazione delle università italiane». La proposta fu ripresa dal ministro Giuseppe Belluzzo per diventare decreto il 28 agosto 1931 (ACS, PCM, Gabinetto, 1929, fasc. 5/1 nr. 7031). In questo modo, i professori avrebbero dovuto prestare giuramento secondo la formula seguente:
Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio (R.D.L. 28/08/1931, nr. 1227, art. 18, cit. in J. Charnitzky, Die Schulpolitik des faschistischen in Italien, 1922-1943, 1994, p. 320).
Si trattò di un’iniziativa in cui credeva davvero: il 21 novembre 1931 – inaugurando a Roma, in Campidoglio, il secondo Congresso degli istituti fascisti di cultura – Gentile annunciò che «finalmente» nelle università italiane non c’era più posto «per gli intellettuali sbandati» (cit. in Turi 1995, p. 419). Nel 1932 Mussolini ripagò lo zelo di Gentile con la decisione di scrivere insieme la sezione Dottrina della voce collettiva Fascismo pubblicata sul 14° vol. dell’Enciclopedia Italiana. Tale sezione, vero e proprio manifesto dell’ideologia del regime, era composta da due parti: la prima scritta da Gentile e intitolata Le Idee fondamentali, la seconda redatta da Mussolini e intitolata La Dottrina politica e sociale. Qui, il filosofo sosteneva che l’ideologia del fascismo trova il suo punto focale nel concetto dello Stato.
Questo Stato non avrebbe conosciuto barriere, avrebbe espresso la propria potenza non limitandosi a semplici funzioni di tutela dell’ordine, come accadeva nei regimi liberali, sarebbe stato «forma e norma interiore», «disciplina di tutta la persona». Una presenza capace di arrivare «nel cuore dell’uomo». Si trattava del fulcro di una concezione della politica religiosa e assoluta:
Il fascismo è una concezione religiosa, in cui l’uomo è veduto nel suo immanente rapporto con una legge superiore, con una Volontà obiettiva che trascende l’individuo particolare e lo eleva a membro consapevole di una società spirituale. Chi nella politica religiosa del regime fascista si è fermato a considerazioni di mera opportunità, non ha inteso che il fascismo, oltre a essere un sistema di governo, è anche, e prima di tutto, un sistema di pensiero.
Come si è accennato, Gentile considerava il fascismo come una missione da compiere, un impegno costante che avrebbe trasformato le coscienze e fondato un nuovo Stato dando agli italiani il senso della loro identità. Cinque anni dopo lo ribadì in un testo che certo non era un manifesto ideologico. Nel 1937, nella 3a edizione dei Fondamenti della filosofia del diritto (1916) aggiunse due nuovi capitoli: uno sullo Stato e uno sulla politica. In quello sullo Stato si soffermò sul pensiero politico di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, cui riconobbe il merito di aver mostrato i limiti del contrattualismo e di aver compreso che lo Stato è «sostanza etica consapevole di sé», cioè è una realtà morale e non uno strumento degli individui per realizzare un fine. Da questa acquisizione, che a suo avviso costituiva «una delle maggiori conquiste della coscienza moderna, politica e filosofica» (p. 108), occorreva prendere le mosse per andare oltre lo stesso Hegel: occorreva cioè considerare lo Stato come una manifestazione della volontà dei singoli individui. Lo Stato, scriveva a questo proposito, non è inter homines, cioè non è il risultato di un accordo fra i cittadini, il prodotto di una scelta razionale, ma è dentro ciascuno di loro, è in interiore homine, essendo il frutto della volontà dell’individuo e quindi la realizzazione massima della sua libertà.
Come si ricordava, gli scontri con una parte del fascismo e le oscillazioni di Mussolini non determinarono alcun ripensamento in Gentile, che rimase fedele alla sua scelta del 1922. Soltanto nella seconda metà degli anni Trenta i contrasti con alcuni autorevoli esponenti del regime modificarono il ruolo che egli aveva svolto fino a quel momento. Il 15 aprile 1936 – poche settimane prima che si concludesse la conquista italiana dell’Etiopia –, in una conferenza (La tradizione italiana) presso il Lyceum di Firenze, Gentile accusò il ministro dell’Educazione nazionale Cesare Maria De Vecchi (pur non facendo esplicito riferimento alla sua persona) di aver inserito nella scuola italiana il culto della romanità con formule vuote e ripetitive, che non avrebbero consentito ai giovani fascisti di sviluppare la consapevolezza e il rispetto per la tradizione italiana.
L’11 giugno De Vecchi gli rispose con una lettera: «È bene che ella si occupi di filosofi e di filosofia e si astenga dall’occuparsi di me e della mia opera di ministro fascista. A ciò la dovrebbe consigliare, se non la disciplina, il rispetto» (AFG). Il giorno dopo lo destituì dall’incarico che aveva presso la Scuola Normale di Pisa, dal 1928 come regio commissario e dal 1932 come direttore. Gentile si rivolse a Mussolini, che ottenne il differimento della rimozione ma evidentemente non volle spingersi oltre obbligando De Vecchi a desistere dal proposito di allontanare il filosofo dalla direzione della Normale. In realtà, non si trattò di una lunga assenza, perché meno di un anno dopo, quando Giuseppe Bottai aveva già sostituito De Vecchi, Gentile tornò a dirigere la Normale. Ciò che invece cambiò fu l’atteggiamento di Mussolini, sempre meno disponibile a difendere il filosofo dagli attacchi dei fascisti.
Il 7 marzo 1937 il segretario del PNF, Achille Starace, provocò le dimissioni di Gentile dalla presidenza dell’Istituto nazionale fascista di cultura, dopo aver approvato un nuovo statuto che ne sanciva la più stretta dipendenza dal partito. La novità più rilevante riguardava la denominazione: contro ciò che Gentile aveva sempre sostenuto, l’Istituto venne trasformato in Istituto nazionale di cultura fascista, sancendo il passaggio ufficiale a una concezione strettamente politica dell’organo culturale fondato nel 1925. Terminò così l’incarico più importante fra i tanti che aveva avuto nel regime, quello che meglio di altri aveva rappresentato la sua posizione nel fascismo.
Al suo allievo palermitano Vito Fazio-Allmayer, in una lettera del 17 marzo 1937, Gentile raccontò cosa fosse successo nei mesi precedenti e come vivesse la sconfitta più grave che aveva subito da quando aveva aderito al fascismo.
Da qualche mese mi si faceva una lotta sorda dal Segretario del Partito, risoluto di fare dell’Istituto […] uno strumento del Partito stesso, spogliandolo di quel po’ d’autonomia che io ne avevo sempre difeso per conservare un qualche valore a quel tanto di apporto ideale che esso dà al Partito. So bene che la gente mormora della disgrazia di Gentile, ecc. Tanto meglio. Mi potrà dispiacere se questo Istituto da me creato divenisse uno strumento di tortura per gli italiani che leggono e scrivono. [...] E io per la parte mia so di aver fatto il mio dovere; ho lavorato gratuitamente per dodici anni in mezzo alle ostilità dei nemici e degli amici, e avevo diritto al collocamento a riposo (AFG).
La riflessione di Gentile nasceva dalla consapevolezza di aver perso la propria battaglia con il partito e cioè con il soggetto politico più importante del regime fascista. In questo senso sembrerebbe davvero, come molti hanno sostenuto, che Gentile si fosse accorto dell’equivoco in cui era caduto immaginando di realizzare un proprio fascismo e non comprendendo la natura di quello che dal 1922 al 1945 trasformò l’Italia in uno Stato totalitario. In realtà, Gentile comprese benissimo il fascismo e cercò di realizzare il proprio progetto culturale e politico per almeno due ragioni: perché fino al 1937 ebbe il sostegno di Mussolini, che, per quanto oscillante nei suoi confronti, aveva mantenuto con lui un rapporto di stima; e soprattutto perché, per molti e decisivi aspetti, il suo progetto coincideva con quello degli altri fascisti.
Gentile contribuì a creare un regime che celebrava il mito dello Stato e che aveva una concezione assoluta della politica: uno Stato in cui enti, istituzioni, organi, gruppi e individui avrebbero collaborato a realizzare un ordine nuovo in un’opera comune e condivisa; e una politica intesa come fede che avrebbe trasformato le coscienze e fondato una nuova realtà nazionale dando agli italiani il senso della loro identità. Come i fascisti, anche Gentile considerava il suo impegno una missione da svolgere, una lotta costante per cui in politica è ben possibile che le battaglie si vincano o si perdano, ma non per questo si abbandona la guerra: dal 1925 al 1937 aveva combattuto per imporre il proprio punto di vista e aveva perso, come altre volte gli era accaduto di vincere, senza mai mettere in discussione la scelta originaria.
Il PNF condivideva questa concezione del fascismo, con una differenza di non poca importanza: mentre Gentile pensava che il fascismo avrebbe costruito, giorno dopo giorno, lo Stato degli italiani perché il fascismo era l’Italia, era anzi la migliore espressione degli italiani, il partito, che custodiva il mito della rivoluzione fascista e rivendicava il proprio ruolo di artefice della conquista del potere, non accettava l’approccio ‘statalistico’ del filosofo. Se l’obiettivo della rivoluzione doveva essere quello di creare un nuovo Stato, allora il partito avrebbe indicato metodi e contenuti della rivoluzione imponendo la propria volontà, la propria ossessiva presenza e il proprio controllo sulla società, come fu evidente nella fascistizzazione delle giovani generazioni (cfr. Tarquini 2009, p. 331).
Gentile era – e non avrebbe potuto essere altrimenti – ben consapevole di tutto ciò. Non si allontanò dal fascismo perché non volle farlo, rimanendo coerente con la scelta compiuta nel 1923 quando aveva deciso di accettare la tessera del PNF e di non essere un semplice fiancheggiatore. Basti ricordare che nel 1938, di fronte alla promulgazione delle leggi razziali, non sentì l’esigenza di esprimere pubblicamente alcuna forma di dissenso. A differenza di quanto accadde nel 1927, quando non lesinò critiche durissime contro l’ipotesi di un concordato, arrivando a dichiarare la propria opinione sul principale quotidiano italiano e non avendo timore di assumere una posizione decisamente minoritaria, nel 1938 non ritenne opportuno dissociare pubblicamente la sua persona dalla legislazione razziale che trasformò la vita degli ebrei italiani.
Negli anni Quaranta, di fronte ai tragici avvenimenti che avrebbero segnato la vita del Paese, il rapporto fra Gentile e Mussolini poté giovarsi della forza delle antiche amicizie che diventano ancora più profonde perché si è consapevoli di aver condiviso da molto tempo momenti difficili e importanti. Il 30 marzo 1942 morì a Milano, per un attacco di setticemia, il figlio del filosofo, Giovanni, che insegnava fisica. Mussolini inviò un telegramma commosso e affettuoso al quale Gentile rispose: «Mi parlò di Voi sul letto di morte; e la parola era alta perché gli veniva dal cuore, e sonava certezza della vittoria e dell’avvenire del paese». Come è comprensibile, si trattò di un momento straziante per il filosofo costretto a sopravvivere al proprio figlio. È evidente però che se non avesse sentito una profonda vicinanza nei confronti di Mussolini, non gli avrebbe mai comunicato una confidenza tanto intima quanto può essere l’ultima parola di un fglio che muore. E, in effetti, il rapporto con il capo del fascismo orientò le scelte politiche che Gentile fece in quegli anni.
Nel giugno del 1940, quando l’Italia entrò nella Seconda guerra mondiale, Gentile non prese posizione. Lo fece negli anni successivi, in due occasioni: nel gennaio del 1942, poche settimane dopo l’entrata in guerra del Giappone, e, soprattutto, nel giugno del 1943, con una conferenza che avrebbe avuto grande risonanza. Nell’articolo Giappone guerriero («Civiltà, rivista trimestrale della Esposizione Universale di Roma», 21 gennaio 1942, poi in Politica e cultura, 2° vol., 1991, pp. 182-89), Gentile sostenne la presenza di un’affinità politica fra le potenze dell’Asse, che avevano tutte raggiunto un equilibrio importante fra tradizione e modernità e combattevano insieme «contro il doppio pericolo del comunismo e dell’imperialismo industriale dei falsi democratici senza patria, ebrei o no» (in Politica e cultura, 2° vol., cit., p. 188). Con il Discorso agli italiani – conferenza tenuta il 24 giugno 1943 a Roma, in Campidoglio – invitò tutti a non dividersi in una guerra fratricida. In un’Italia già in parte occupata dalle truppe alleate, in un mondo ormai segnato dal conflitto mondiale, Gentile ribadì il proprio essere fascista e il carattere rivoluzionario del movimento politico fondato da Mussolini.
Queste cose io le dico, ben inteso, non perché il Fascismo abbia da scusarsi di errori di cui oggi, nel momento della grande prova, gli si possa chiedere conto, ma perché desidero ora più che mai, poiché oso di rivolgere il mio discorso a tutti gli Italiani, apparire come sono: sgombro da ogni motivo di parzialità o partigianeria; desidero essere e presentarmi non gregario di un partito che divida, ma seguace di un concetto che possa stringere in una stessa fede e in un concorde proponimento quanti sono veramente Italiani. Gli errori del Fascismo sono gli errori inevitabili di ogni vasto movimento rivoluzionario. E non vedo che bisogno ci sia di negarli. Ma al di là dei particolari, io affermo, e confido che ognuno vorrà convenire, che c’è l’essenziale del Fascismo; di quel Fascismo al quale tutti gli Italiani applaudirono nel ’22 quando Mussolini levò i suoi gagliardetti e chiamò intorno a sé tutto il popolo, di tutti i partiti; quel Fascismo, al quale gli Italiani non sapranno mai rinunziare.
Due settimane dopo gli alleati sbarcavano in Sicilia. Il 25 luglio, durante una riunione del Gran consiglio, l’ordine del giorno presentato da Dino Grandi mise fine alla dittatura fascista. Il 17 novembre 1943 Gentile incontrò Mussolini a Gardone Riviera, sul lago di Garda, e accettò la presidenza dell’Accademia d’Italia, sostituendo Luigi Federzoni, che la guidava dal 1938 e che era stato costretto a lasciarla perché aveva aderito all’ordine del giorno Grandi. A sua figlia Teresa, in una lettera del 27 novembre 1943, il filosofo raccontò le ragioni che l’avevano spinto ad accettare l’incarico e dunque ad aderire alla neonata Repubblica sociale italiana:
Venne qui tempo fa un amico ministro a cercarmi, ed io dissi francamente i motivi personali e politici per cui desideravo restare in disparte. Ma egli mi assicurò che io potevo benissimo restare in disparte: ma dovevo fare una visita al mio vecchio amico che desiderava vedermi ed era addolorato di certe manifestazioni recenti, ostili alla mia persona. Negare questa visita non era possibile. Feci comodamente il viaggio con Fortunato [suo figlio]. Ebbi il giorno 17 un colloquio di quasi due ore, che fu commoventissimo. Dissi tutto il mio pensiero, feci molte osservazioni, di cui comincio a vedere qualche benefico aspetto. Credo di aver fatto molto bene al paese. Non mi chiese nulla, non mi fece offerta. Il colloquio fu a quattr’occhi. La nomina fu poi combinata col ministro amico e portata qui da me da un Direttore generale. Non accettarla sarebbe stata suprema vigliaccheria e demolizione di tutta la mia vita (AFG).
Il 28 dicembre di quell’anno, in un articolo sul «Corriere della sera» intitolato Ricostruire, Gentile spiegò le ragioni per cui aveva aderito alla Repubblica sociale. Con questo articolo lanciò un appello alla concordia degli animi e ancora una volta, come aveva sostenuto in tutta la sua carriera politica, mostrò la sua distanza dal fascismo intransigente e rivoluzionario che aveva esponenti importanti nella neonata Repubblica. L’articolo suscitò aspri commenti da parte di molti fascisti, ma fu anche percepito come un’ennesima prova di distanza dal mondo antifascista.
Il 15 aprile 1944 un piccolo gruppo di partigiani si appostò verso le 13,30 nei pressi della villa dove risiedeva a pochi chilometri da Firenze. L’auto su cui viaggiava il filosofo si fermò davanti al cancello, l’autista scese per aprirlo, i giovani si avvicinarono, Gentile abbassò il vetro e fu investito dai colpi in pieno torace. Morì così uno dei principali filosofi del Novecento e uno degli intellettuali più importanti d’Italia.
E. Garin, Cronache di filosofia italiana, 1900-1943, Bari 1955.
R. De Felice, Mussolini il fascista, 1° vol., La conquista del potere, 1921-1925, Torino 1966, p. 376.
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E. Garin, La filosofia italiana di fronte al fascismo, in Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, Atti del Convegno di studi, Livorno, novembre 1983, a cura di O. Pompeo Faracovi, Livorno 1985, pp. 17-40.
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Croce e Gentile un secolo dopo. Saggi, testi inediti e un’appendice bibliografica 1980-1993, «Giornale critico della filosofia italiana», 1994, 2-3, nr. monografico.
E. Gentile, Il culto del littorio. La sacralizzazione della politica nell’Italia fascista, Roma-Bari 1995.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995.
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A. Tarquini, Il Gentile dei fascisti: gentiliani e antigentiliani nel regime fascista, Bologna 2009.
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