Gentile e la ‘filosofia della libertà’
Nel dicembre del 1943 l’editore Vallecchi di Firenze commissionava al giovane Eugenio Garin una Storia della filosofia che potesse «giovare per una vera e più vasta cultura del popolo» (cit. in Ciliberto 2011, p. V). Scritta fra il gennaio e l’estate del 1944, posta in vendita all’inizio del 1945, pochi mesi dopo la liberazione della città, fu presto esaurita; ancora a cinquant’anni di distanza – in una lettera a Pierina Borrani Castiglione del 14 dicembre 1996 – Garin ne evocherà il carattere di «esposizione “elementare” (non scolastica) in due volumetti “popolari” […] che traducevano uno stato d’animo eccezionale, un’esperienza terribile, quella dell’occupazione tedesca di Firenze» (p. VII).
Garin scorgeva nello storicismo hegeliano e nello scientismo positivista i pericoli per le «possibilità dei valori, come frutto di una costruzione spirituale veramente libera», essendo la filosofia contemporanea animata dalla «profonda esigenza di giustificare i valori» (Storia della filosofia, 2° vol., 1945, p. 534). E riassumeva in particolare il pensiero francese nel «problema della libertà, come problema della concreta vita spirituale» (p. 545). Definiva dunque filosofia della libertà quella congerie di pensieri che dal Condillac tramite gli idéologues sarebbe approdata all’introspezione, al «senso intimo», di Maine de Biran che «ci avvicina alla struttura interiore dello spirito con una finezza che manca all’analitica kantiana troppo preoccupata di tutto sistematizzare» (p. 546). Da questi si sarebbe snodata quell’aurea catena che da Jules Lachelier, dalla libertà come rapporto della volontà all’atto che compie, dall’opposizione di Émile Boutroux tra la ricchezza della realtà e l’astrattezza degli schemi concettuali, dalla sintesi a priori di Octave Hamelin, doveva approdare a Henri Bergson e all’opera L’action (1893) di Maurice Blondel, «uno dei libri più forti e più commoventi che abbia la letteratura dell’800» (p. 551). E traducendo pensieri che andava allora svolgendo, Garin ne riassumeva così il testo:
L’azione umana nasce dallo squilibrio perenne fra l’ansia profonda che anima il nostro essere, e che non può appagarsi che in Dio, e le realizzazioni concrete che prendono posto intorno a noi e che ci rivelano la loro dolorosa insufficienza (p. 551).
Raccoglieva così sotto l’etichetta ‘filosofia della libertà’ una secolare stagione di pensieri su cui Gentile aveva riflettuto, spesso in pagine minori, sparse.
Se è facilmente documentabile una qualche informazione, in specie su quanto si dibatteva sulle colonne della «Revue de métaphysique et de morale» e nelle sedute della Société française de philosophie, le ‘avventure’ della filosofia d’Oltralpe paiono estranee a Gentile – con la parziale esclusione del primo decennio del secolo, di quanto in vario grado è riconducibile all’episodio modernista – e anche la semplice informazione, l’interesse, sembra, con l’inoltrarsi nel ‘secolo breve’, scemare, benché egli sollecitasse, ancora il 20 novembre 1933, scrivendo a Guido Calogero (G. Gentile, C. Calogero, Carteggio 1926-1942, a cura di C. Farnetti, 1998, p. 75), la restituzione dei due volumi delle Œuvres (1933) di Lachelier.
Non tragga quindi in inganno il fatto che già nel 1904 («La Critica», 2, pp. 153-54) Gentile recensiva Il Condillac in Italia (1903) di Benedetto Pergoli, accusando l’autore, pure in presenza di una larga messe documentaria – «perché grande fu la fortuna del Condillac, come accade di tutti i filosofi facili, tra i nostri scrittori» –, di ignorare fra l’altro il suo «Rosmini e Gioberti (1898), dove pure si discorre con frequenti citazioni del condillachismo italiano».
E vale la pena soffermarsi su una recensione («La Critica», 15, pp. 320-22) ai Saggi filosofici di Félix Ravaisson, usciti per i tipi di Tiber nel 1917: Gentile rimproverava al traduttore e curatore, Adriano Tilgher, i giudizi iperbolici che indicavano nella conclusiva intuizione ravaissoniana gli esiti stessi della filosofia europea dopo la svolta kantiana e affermavano addirittura che
su Fichte e su Hegel-Spaventa, Ravaisson ha il vantaggio inestimabile di avere illuminato di luce abbagliante, per mezzo della teoria dell’abitudine, il passaggio prima misterioso dallo spirito alla natura, e posto così le basi di ogni possibile filosofia della natura (p. 321).
Di contro Gentile riduceva codesta filosofia a un leibnizianesimo, giudicandola di fatto ancora estranea al kantismo.
Ma è l’ampia recensione del 1919 («La Critica», 4, pp. 360-64) a La philosophie contemporaine en France: essai de classification des doctrines (1919) di Dominique Parodi a offrire un quadro esaustivo della ‘filosofia della libertà’. Gentile giudica quest’opera non certo un compendio, né un libro che classifica alla maniera dei naturalisti, ma una ricostruzione critica personale che mostra analogie dottrinali e genesi logiche. Se una qualche condiscendenza Gentile rintraccia nell’esposizione della scuola sociologica, pur sempre «salda e perentoria è la critica con cui [Parodi] ribadisce l’accusa mossa al sociologismo di distruggere quei valori che presume di spiegare con cause sociali»; e questi si concentra poi su Bergson, muovendo dal contingentismo di Boutroux e dalla critica del meccanicismo (Henri Poincaré, Pierre Duhem, Édouard Le Roy), che da questi aveva preso le mosse. E illustra anche le opinioni di razionalisti e idealisti, in specie Lachelier e Hamelin, che si sarebbero opposti all’antintellettualismo bergsoniano. Parodi si volge poi a prospettare come «l’opera di Bergson vada continuata e integrata, superando il misticismo, l’irrazionalismo della sua intuizione immediata», e addita l’esempio di Hamelin, che indica «in un rinnovamento dell’idealismo, il mezzo di raccogliere le più preziose analisi o le più originali suggestioni del bergsonismo»; parimenti, Parodi parla di un atto sintetico suscettibile di superare l’«antitesi di necessità e libertà, di natura e spirito». Ma entrambi, Hamelin e Parodi, non percepirebbero secondo Gentile
la gran differenza che passa tra la dialettica di Platone (a cui quella di Hamelin si accosta) e quella di Hegel, o inaugurata da Hegel, che sola può veramente sorpassare il punto di vista della sterile ed astratta identità.
E invero già Lachelier aveva affermato che la stessa intuizione trova posto nell’idealismo, se la si intenda come coscienza della nostra particolare esistenza in quanto soggetto pensante, senziente e agente, come coscienza di attività, coscienza dinamica e non statica, e libertà. Gentile conclude invitando Parodi allo studio della filosofia della nuova Italia, in vista di quell’idealismo vagheggiato a conclusione del libro.
Nel 1920 («La Critica», 5, pp. 107-12), recensendo L’énergie spirituelle di Bergson, parla «della pena che si prova a vedere un grande talento al servizio di una causa disperata», poiché quello «del Bergson è [...] il procedere del naturalista, e particolarmente dello psicologo»; difatti la coscienza come memoria è quella dello psicologo che osserva i fatti, così come fa ogni naturalista.
Di Émile Durkheim, Gentile aveva già parlato a Croce in una lettera del 2 febbraio 1898, affermando di essere
pienamente d’accordo con lei, quando nel § III dice che il materialismo storico dev’essere semplicemente un canone d’interpretazione storica; e come canone, di origine affatto empirica, e tale perciò che non importi nessuna anticipazione di risultati (Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 1° vol., 1972, p. 67; allusione a Per l’interpretazione e la critica di alcuni concetti del Marxismo, «Atti dell’Accademia pontaniana», 1897, 27, pp. 1-46),
poiché Croce avrebbe convenuto
con quel che ne diceva contemporaneamente nella Revue philosophique il Durkheim, esponendo la dottrina del Labriola; sebbene questi desse al contenuto del canone una maggiore ampiezza e generalità che non sia del materialismo storico (Lettere a Benedetto Croce, 1° vol., cit., p. 67).
Mentre su L’évolution créatrice era Croce a intrattenerlo il 17 giugno 1907, affermando di stare
leggendo il Bergson, che mi è giunto ieri. Forse ne scriverò (non ti meravigliare) nella Revue de métaphysique, che mi ha chiesto degli articoli. Vorrei cogliere l’occasione per fare un po’ di propaganda ad Hegel, in Francia (Lettere a Giovanni Gentile, 1896-1924, a cura di A. Croce, 1981, p. 249).
E prontamente Gentile gli rispondeva, il 24 giugno, di avere appreso con piacere dell’invito della «Revue de métaphysique», da cui poteva derivare un gran vantaggio (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., 1976, p. 80). L’interesse con cui egli guardava a quella rivista d’Oltralpe non era certo peregrino, se il 26 gennaio 1903 scriveva a uno dei suoi fondatori, Xavier Léon, di avergli
inviato da alcuni giorni il 1° fascicolo di un periodico letterario e filosofico, pubblicato da me e diretto da B. Croce, intitolato La Critica. Io desidererei che Ella accettasse questa rivista in cambio della sua Revue de métaphysique et de morale (cit. in Quilici, Ragghianti 1989, p. 329).
E ancora a un ventennio di distanza, il 27 ottobre 1923, a proposito di Art et religion, nel rispedirgli le bozze lo ringraziava dell’ospitalità concessagli nella «Revue», che molto aveva contribuito alla rinascita degli studi filosofici (p. 329). Il 15 marzo 1925, a proposito del cambio di questa con la propria rivista, il «Giornale critico della filosofia italiana», scriveva di non aver «mai ricevuto la vostra Revue, che molto m’interessa e molto desidero» (p. 330), e lo pregava di procurargli il Numéro excéptionnel dell’aprile-giugno 1923, intitolato Pour le troisième centenaire de la naissance de Pascal.
Nel 1920, nella sua recensione («La Critica», 18, pp. 177-80) a La philosophie française (1919) di Victor Delbos – annotazioni di un corso tenuto alla Sorbona nel secondo anno di guerra (1915-16), raccolte e pubblicate da Blondel dopo la morte dell’amico –, Gentile fustigava le facili generalizzazioni e la confusione tra il lavoro storiografico e la militanza patriottica, poiché «nessuna idea è isolata, e ogni sistema è parte di un sistema che è tutta la storia. E appunto questa totalità della storia difetta nel libro di Delbos» (p. 179).
Così, il 18 aprile 1900 aveva scritto a Croce di molti francesi, delle
loro paure della filosofia! Sono ancora dominati dalle idee del Cousin, e non avendo più un Cousin che imponga una filosofia di stato, stan sempre sull’allarme, invocando lo spiritualismo (Lettere a Benedetto Croce, 1° vol., cit., p. 271).
Gentile tralascerà difatti di recensire il libro di Charles Waddington La philosophie ancienne et la critique historique (1904), che – scriverà a Croce l’8 settembre 1904 – è solo «una raccolta di mediocri scritti di storia della filosofia greca, di cui non mette conto occuparsi nella Critica» (Lettere a Benedetto Croce, 2° vol., 1974, p. 184). Ma, alle prese con le note per le Opere italiane di Giordano Bruno, in una lettera del 24 maggio 1907 non esiterà a sollecitare l’invio di una copia di La Kabbale ou La philosophie religieuse des Hébreux (1843) di Adolphe Franck, specificando che avrebbe preferito, se possibile, la seconda edizione, del 1889 (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., p. 84), e – verosimilmente nel novembre 1902 – già aveva richiesto La logique de Hegel (1897) di Georges Noël (Lettere a Benedetto Croce, 2° vol., cit., p. 71).
Maggiore attenzione fu rivolta a Boutroux, a cui Gentile aveva indirizzato da subito la sua opera L’insegnamento della filosofia nei licei e l’edizione da lui curata degli Scritti filosofici di Bertrando Spaventa, entrambe uscite nel 1900; e Croce il 2 agosto 1907 gli scriveva della discussione su Georg Wilhelm Friedrich Hegel alla Société française de philosophie:
si son dette molte cose giuste e acute. È stato messo anche in rilievo il rapporto della filosofia bergsoniana con l’hegelismo (attraverso, sembra, il Ravaisson). Tutta la discussione è pubblicata nel Bulletin. Si annunzia la necessità di un risveglio dello studio della filosofia hegeliana. Il Boutroux, che ha preso parte alla discussione, ha citato un paio di volte il mio libro il quale ora si traduce in francese (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 255).
L’anno seguente, il 7 settembre, lo stesso Croce ragguagliava Gentile circa la propria comunicazione al III Congresso internazionale di filosofia (Heidelberg, 31 agosto-5 settembre), come «la sola che sostenesse una tesi originale. Come ti scrissi, il Boutroux fece un prologo e un epilogo, assai lusinghieri, alla mia conferenza» (p. 318). Da quel resoconto crociano, Gentile, sempre il 7 settembre 1908, traeva «conferma nella convinzione che l’Italia è alla testa oggi, virtualmente, del movimento filosofico; e che potrebbe anche essere, col tempo, anche di fatto» (Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., pp. 267-68).
E ancora Gentile, nel redigere la prefazione alla traduzione italiana del libro di Boutroux De l’idée de loi naturelle dans la science et la philosophie contemporaines (1895), edita da Vallecchi nel 1925, avrebbe additato il filosofo francese come uno dei più autorevoli e stimati maestri del pensiero contemporaneo. Anche se nel prosieguo dichiarava che le sue idee «non costituiscono un corpo compatto di dottrina, né reggono più alla critica di un pensiero che sia all’altezza del tempo nostro» (in Frammenti di storia della filosofia, 1926, p. 252), poiché non ebbe né la mente dello storico, né del ricercatore e la sua fu, in maggior misura, l’attitudine di un artista. Ma, di contro al trionfante determinismo meccanicistico, De la contingence des lois de la nature (1874) aveva riaffermato che la vita del pensiero e la vita reale sono creazione, atto di libertà: il mondo non è identità uniforme, ma molteplicità infinita. Dinnanzi al dogmatismo geometricamente costruibile, di matrice positivistica, Boutroux difatti aveva rivendicato le differenze qualitative della concezione spiritualista. Da lui procederebbero la gnoseologia delle scienze di un Gaston Milhaud, di un Poincaré, di un Duhem, la filosofia intuizionistica di Bergson e di Le Roy, e persino il «nuovo dommatismo morale» di Blondel e di Lucien Laberthonnière, che era un immanentismo razionalista nel metodo e un misticismo nella dottrina. Dunque la filosofia della contingenza che appariva, ora, a Gentile «una nuova forma di empirismo (che, presupponendo la libertà, la rende impossibile), e quindi anch’essa come una concezione naturalistica» (p. 255) – ancora tributaria della metafisica leibniziana sotto l’impulso di Ravaisson e di Lachelier –, aveva di fatto issato la bandiera della filosofia idealistica rivelando, nella necessaria razionalità del finito, la presenza e la realtà dell’infinito.
È stato osservato che, mentre nel volgersi a Hegel Gentile rimane tributario di Spaventa e di autori tedeschi dell’Ottocento – invano si cercherebbero la memoria di Wilhelm Dilthey Die Jugendgeschichte Hegels (1905) o le Theologische Jugendschriften di Hegel curate nel 1907 da Herman Nohl –, è assai significativo constatare
la presenza fra il 1903 e il 1909 di figure come Laberthonnière e Blondel, come James, come Boutroux, quasi a sottolineare per un verso l’attenzione alla discussione religiosa, e per un altro la tensione “pratica”, all’“azione”. È il tempo in cui Gentile dichiarava che era interessato all’aspetto teorico, “spirituale”, della discussione religiosa, piuttosto che all’istanza riformatrice del modernismo: alla “filosofia dell’azione” (Garin 1991, p. 51).
Ma non deve sfuggire che egli sempre riaffermò la superiorità del pensiero razionale e sistematico, cioè della filosofia, di contro a quanti, i modernisti, pensavano di adottare il ‘metodo’ del pensiero moderno, rimanendo entro la ‘dottrina’ della Chiesa cattolica.
Sin dalla prolusione napoletana sulla Rinascita dell’idealismo prendeva le mosse dalla Renaissance de l’idéalisme (1896) di Ferdinand Brunetière, stigmatizzando quello «spirito bizzarro e bisbetico [che] è venuto fuori, a gridare in piazza quel che tutti andavano timidamente ripetendo sotto voce da un pezzo: a gridare al fallimento della scienza», cui si unirono «molti che per lungo silenzio pareano fiochi mistici [...] o d’altra tendenza» (La rinascita, cit., poi in Saggi critici, serie I, 1921, p. 9).
Ma è in special modo con l’articolo su Laberthonnière – una lunga recensione agli Essais de philosophie religieuse (1903; trad. it. 1907) e a Le réalisme chrétien et l’idéalisme grec (1904; trad. it. 1922; «La Critica», 1906, 4, pp. 331-45) – che la frequentazione di pensatori o filosofi francesi si intreccia con l’esigenza gentiliana di coniugare dimensione speculativa e messaggio morale. Articolo «chiarissimo e stringente in sommo grado. Credo che farà del rumore», gli scriveva Croce il 16 settembre1906 (Lettere a Giovanni Gentile, cit., p. 202). Ed è stato osservato da taluni come nel primo decennio del secolo Gentile fosse
lì ad arrovellarsi sulla “parola” e sulla “cosa”, e sempre più spesso insisteva sui termini “azione”, “agire”, “atto”: sul fare che è proprio dell’uomo, e del pensiero medesimo. Si direbbe, a volte, che non riuscisse a cavarsi di mente quella benedetta praxis di Marx, “questo benedetto filosofo” per cui “il primo teorema era che la realtà è praxis” (Garin 1991, p. 53).
Altre interpretazioni hanno negato la tesi che nello studio di Karl Marx, del concetto di prassi come attività, egli avrebbe rintracciato il principio conduttore del futuro idealismo attuale, poiché, se «concreto» e «astratto» torneranno poi centrali nella sua prospettiva teoretica, questo avverrà al di fuori di ogni derivazione dal marxismo teoretico.
Se certo Gentile mostrò di preferire Blondel – da lui definito il «più simpatico, [...], più valente, [...] più religioso dei modernisti» (Il modernismo e l’enciclica, «La Critica», 1908, 6, p. 214) – e Laberthonnière, cioè i ‘moderati’ – rispetto ad Alfred Loisy o a George Tyrrell, gli ‘oltranzisti’ –, nondimeno imputa loro la pervicacia nell’adesione al dogma. Solo nel saggio del 1908, sul Modernismo e l’enciclica Pascendi, si soffermerà esplicitamente sulle differenze interne che segnano il modernismo d’Oltralpe. Ma invero è stato rilevato come, dovendo redigere un consuntivo, ci si possa limitare a constatare una conoscenza assai mediocre delle tesi blondeliane da parte di Gentile e che, al di là delle analogie lessicali, le assonanze sono essenzialmente culturali e ideologiche e non certo filosofico-concettuali.
Nel saggio del 1908 Gentile saluta quindi, di contro all’intellettualismo neotomista, quella veemente forma di misticismo di Laberthonnière che muove da L’action di Blondel – per il quale, come scrive Gentile nella già citata recensione del 1906, «l’attività pratica diventa l’unico organo efficace della filosofia» (p. 432) – un misticismo cui riconosce perspicacia psicologica e vigore dialettico, ma che da subito riconnette alla filosofia della contingenza e a quella mistica spiritualistica della certezza morale di Léon Ollé-Laprune. A questi si rifaceva Laberthonnière sin dal saggio La philosophie est un art («L’enseignement chrétien», 1891, 10, pp. 321-25) – che precede di due anni L’action –, in cui si afferma (scriveva Gentile nel 1906) che «la filosofia non è un insieme di astrazioni campate in aria, non è cosa di pura ragione, ma è un prodotto a cui concorre anche la vita» (p. 432), e che precede di sette anni il lungo saggio Le dogmatisme moral («Annales de philosophie chrétienne», 1898, 136, pp. 531-62, e 137, pp. 27-45, 146-71), in cui esplicito è il richiamo a Blondel.
Già in nuce nel saggio del 1891 è la consapevolezza che la filosofia non consiste in mera speculazione, ma è anche azione. Nello scritto maggiore, distinguendo fra un dogmatismo empirico e un dogmatismo intelligibile, dove, per l’uno, il mondo è l’insieme delle cose oggetto di percezione, per l’altro, un insieme di idee – il dogmatismo ‘egoistico’ degli scettici e quello illusorio che confonde fenomeno e noumeno –, Laberthonnière oppone loro quel dogmatismo morale dell’individuo che (scriveva Gentile sempre nella recensione del 1906) «non afferma sé per un’intuizione, [...] ma per un atto» (p. 435). E merito di Immanuel Kant sarebbe l’aver sostituito questo dogmatismo a quello empirista e idealista, inaugurando la filosofia della volontà e della libertà, la facoltà di agire in base all’imperativo categorico. Suo errore invece è la contrapposizione artificiosa e scolastica tra fenomeno e noumeno. Ma questo «dommatismo morale» ha, in Laberthonnière, un valore teorico («la verità è in noi, la facciamo noi», sottolineava Gentile, p. 439), che poi sarebbe l’esito di ogni misticismo, della filosofia cristiana in quanto opposta radicalmente al razionalismo. In Le réalisme chrétien et l’idéalisme grec, Laberthonnière denuncia come assai pernicioso per il pensiero cristiano l’avere subito l’influenza di quello greco, che è poi l’errore di Tommaso d’Aquino: l’aver ‘aristotelizzato’ il cristianesimo. Laberthonnière avrebbe quindi sviluppato una concezione dell’atto di fede in cui la carità assurge a un ruolo decisivo, e Gentile gli rimprovera che «non si può combattere con la ragione contro la ragione» (p. 442); oltre la Scolastica non c’è il cattolicesimo romano, ma l’idealismo moderno, e difatti Laberthonnière oppone al realismo cristiano l’idealismo greco – «un idealismo statico, intellettualistico, governato dall’ideale di una verità assoluta, eterna, oggettiva, di cui l’uomo è spettatore» (p. 443) –, e sembrerebbe dunque ignorare quel nuovo idealismo, «l’idealismo postkantiano, che riconosce l’autonomia assoluta della ragione» (p. 444). Perché è stato Hegel
che ha combattuto e distrutto il concetto della verità bella e fatta, oggettiva, statica; il concetto della cognizione come intuizione del reale, anziché costruzione del medesimo; e che ha fin presentata la storia del mondo come una storia sacra. La sua idea non fu più un’idea chiusa, ferma, di sé beata; ma si mosse, e visse e fece il mondo, come vuole il Laberthonnière che lo faccia la volontà (p. 444).
Di contro, fra i cattolici integristi e i teologi neoscolastici l’imputazione di soggettivismo kantiano colpì congiuntamente Laberthonnière e Blondel, anche se il recensore di Le dogmatisme moral sulla «Revue de métaphysique et de morale» (settembre 1903, p. 9) addebitava all’ignoranza dei teologi il subodorare nei due pensatori un qualche soggettivismo kantiano.
In Il modernismo e l’enciclica Pascendi, dopo avere indicato come le questioni agitate dal movimento modernista possono essere ricondotte alla questione storica, alla filosofica e a quella pratica, Gentile opponeva a Loisy, alla storiografia modernista che rivendicava le prerogative della critica storica, l’urgenza del problema cristologico. E ricorda l’ammonimento di Blondel:
Facendo definitivamente astrazione dal problema cristologico, per limitarsi a studiare le ripercussioni, che ebbe nella coscienza umana e negli avvenimenti di questo mondo la scossa di cui il Cristo è stato l’occasione, si viene [...] a fissarlo nel suo passato, a suggellare la sua tomba sotto i sedimenti della storia, e non si considera più come reale e attivo se non l’aspetto naturale dell’opera sua (p. 217).
E passando alla questione filosofica: se principio dell’uomo, come d’ogni altra realtà, non è la ragione ma la volontà, la filosofia dell’azione blondeliana
può mettere in valore [...] questa memoria fatta d’amore, per cui, obbedendo al precetto servate mandata, si è perpetuata nella storia del cristianesimo la rivelazione del Cristo (p. 218).
Comune a Blondel e ai modernisti è l’opposizione al tomismo, alla possibilità cioè di applicare il metodo scientifico alla teologia, poiché «l’oggetto dello spirito, la verità, è lo spirito stesso: l’immanenza» (p. 221). Donde l’affermazione che quell’immanentismo fosse «metodo, non dottrina; attraverso il soggetto, noi perveniamo all’oggetto: noi non siamo perciò razionalisti né kantiani» (p. 221); affermazione cui Gentile oppone, come già a Laberthonnière, l’hegelismo, la filosofia del soggetto assoluto. E imputa a Ollé-Laprune, alla sua polemica antirazionalista, l’errore in cui cadono tutti i platonizzanti, cioè il «dualismo a cui si arrestano, e che rende inutile, perché infecondo, il germe di vero, a cui si appigliano» («La Critica», 1907, 5, p. 462-63).
Se Gentile parve trarre materia dai modernisti, ciò fu per ribadire la superiorità del pensiero razionale su quello intimistico e apologetico; il misticismo si colloca allora fra la «filosofia implicita», la mentalità di un’epoca, e la «filosofia esplicita» tradotta in sistemi. È stato osservato come il misticismo sia
figura ambigua contro la quale, nel primo decennio del secolo, Gentile espresse quasi sempre giudizi assai negativi, e che più di una volta riportò al “platonismo”, inteso emblematicamente come dualismo (Cesa 2006, pp. 92-93).
Infine, nella recensione («La Critica», 1909, 7, pp. 63-68) al libro di Boutroux Science et religion dans la philosophie contemporaine (1908), distingue la parte storica dalla parte critica e dottrinale. Nella prima riconosce i pregi del ricercatore, dell’interprete, scrupoloso e acuto, anche se ha attribuito un rilievo eccessivo a dottrine carenti scientificamente, come quelle di Ernest Haeckel, di Théodule Ribot, di Durkheim e persino di William James. La seconda, circa il problema storico del rapporto tra scienza e religione nella filosofia contemporanea, è oggetto da parte di Gentile di profonda critica, poiché, lungi dal definire preventivamente cosa sia scienza e cosa sia religione, Boutroux si è limitato alle interpretazioni naturalistiche di Ribot e di Durkheim. E invero queste disamine psicologiche e sociologiche non concernono la storia dei rapporti tra scienza e religione, difatti si propongono unicamente di spiegare l’origine empirica del fatto religioso, facendone materia pertinente alla psicologia e alla sociologia.
Di certo fu assai precoce l’interesse della cultura italiana nei confronti di Laberthonnière, se già al IV Congresso scientifico internazionale dei cattolici (Friburgo, 16-20 agosto 1897) Giovanni Genocchi, Salvatore Minocchi e Giovanni Semeria lo incontrarono, ma codesto interesse non è limitabile ai soli modernisti se anche Felice Tocco recensiva favorevolmente nel 1905 sulla «Rassegna nazionale» (nov. 1905, pp. 305-09) Le réalisme chrétien et l’idéalisme grec, pur mettendo in dubbio che si potesse ridurre la filosofia greca sotto la categoria dell’idealismo intellettualistico. Ma sarà poi determinante per la fortuna italiana di Laberthonnière l’interesse che gli dimostrò Gentile con le due recensioni sopra citate (1906 e 1908). E anche autori estranei alla cultura neoidealista, come Eustachio Paolo Lamanna o Adolfo Levi, ebbero a condividere in larga misura la censura gentiliana. Nel 1921 Ernesto Codignola, sodale di Gentile, traduceva la Théorie de l’éducation (1901) per le edizioni Vallecchi, «una delle cittadelle editoriali dell’idealismo gentiliano» (Garin 1991, p. 53), e nel 1922 patrocinò, sempre presso questo editore, la traduzione di Le réalisme condotta da Piero Gobetti, i cui pareri sul modernismo e sulla filosofia dell’azione erano in tutto gentiliani.
In rapida successione, uscivano L’action, Histoire et dogme e La filosofia dell’azione e il pragmatismo (1924) di Olga Arcuno, mentre sulla «Nostra scuola», la rivista di Codignola, nel 1920 era possibile leggere La patria di Blondel; sempre presso Vallecchi, Enrica Carpita, in Educazione e religione in M. Blondel (1920), conduceva un raffronto fra le teorie pedagogiche del filosofo d’Aix e quelle dell’attualismo.
Il nome di Blondel si rintraccia dunque assai di frequente nelle pagine di Gentile, ma ciò non implica che nel 1906 questi avesse letto L’action, pubblicata nel 1893, mai citata, e rinviava difatti per il contenuto «a un articolo di Th. Neal (pseudonimo di cui si serviva l’italianissimo Angelo Cecconi) che definisce “vivace, ma enfatico e incompleto”, comparso sul “Leonardo” del giugno-agosto 1905» (Visentin 2006, p. 141). È stato rilevato che l’unica opera che Gentile
mostra di aver letto e di conoscere, quindi, direttamente è Histoire et dogme [...], la cui citazione, nel contributo del 1908 relativo all’enciclica Pascendi di Pio X, è la sola, fra quelle di Blondel, ad avvalersi di un riferimento testuale. Per il resto, si direbbe che Gentile ignori del tutto sia la Lettera sull’apologetica, pubblicata da Blondel nel 1896 (non la cita neppure una volta), sia il Principe élémentaire d’une logique de la vie morale del 1900, pubblicato negli atti del Congresso Internazionale di Filosofia nel 1903 (pp. 142-43).
Già Armando Carlini aveva sostenuto che Gentile non conoscesse di prima mano l’opera di Blondel, ma ne parlasse basandosi soltanto sugli «Annales de philosophie chrétienne» diretti da Laberthonnière (cfr. Studi gentiliani, 1958, p. 77).
Dagli anni Venti l’estraneità di Gentile alla cultura d’Oltralpe si andrà ancor più accentuando. Certo, il 10 ottobre 1924 scriveva a Léon della sua «Teoria generale dello spirito che sarà, tra qualche settimana, pubblicata dall’editore Alcan» e di
un piccolo volume, espositivo e critico, sul moderno Idealismo italiano del mio amico Ugo Spirito. Credo che questo volumetto potrebbe riuscire di non poco interesse nel Vostro paese per le larghe informazioni e la chiara idea sintetica che esso fornisce del recente movimento speculativo italiano (cit. in Quilici, Ragghianti 1989, p. 329).
E invero il Supplément della «Revue» nel 1926 recensirà L’esprit, acte pur:
Questa traduzione francese della Teoria generale dello spirito come atto puro merita di attrarre l’attenzione degli amici della metafisica. Verosimilmente è la migliore introduzione all’idealismo “attualista” di Gentile. [...] Opera di lettura spesso difficile, l’Esprit, acte pur, merita d’essere studiato, per il suo contenuto dottrinale e in virtù dell’influenza che la filosofia di Gentile ha esercitato ed esercita sul pensiero italiano contemporaneo.
Ma non è certo casuale che, negli anni immediatamente successivi, l’interlocutore di Léon sia Croce, rinnovandosi la sua collaborazione con la «Revue de métaphysique, che ha accompagnato gran parte della mia vita speculativa» (Quilici, Ragghianti 1989, p. 305). E Croce, immerso com’era in un’atmosfera autunnale di solitudine per il dispiegarsi delle tirannidi, vide nella «Revue» una tribuna europea. Si ritenga in proposito la lettera di Léon a Élie Halévy del 12 settembre 1930 circa l’intervento di Croce al VII Congresso internazionale di filosofia di Oxford:
ho ricevuto una lettera da Parodi che mi dice: c’è stata una comunicazione di Croce molto coraggiosa, assai commovente, persino di un antifascismo palese. Ho preso l’iniziativa di chiedere a Croce se non avrebbe avuto niente in contrario al fatto che fosse tradotta e pubblicata su una rivista francese. Mi è sembrato entusiasta dell’idea. Se tu lo fossi altrettanto, mi incaricherei volentieri della traduzione (cit. in Ragghianti 1995, p. 75).
Ma non dovettero mancare giudizi anche difformi, che scontavano certo la riduzione crociana delle scienze sperimentali e deduttive sotto la categoria dell’economico, poiché riconducibili – e in ciò è il suo pragmatismo – a efficacia e successo. E una desolata valutazione del clima intellettuale italiano, in particolare in occasione del IV Congresso internazionale di filosofia (Napoli, 5-9 maggio 1924), era già stato argomento di una lettera di Étienne Gilson a Léon in data 21 maggio: è «a Pompei e non al congresso di filosofia di Napoli che devo l’oggetto delle mie riflessioni» (cit. in Ragghianti 2007, p. 69). E accomiatandosi gli augurava
un buon e fruttuoso riposo, perché vedo che nei paesi in cui non c’è Xavier Léon, ma c’è un Mussolini, va assai meno bene per la filosofia rispetto al paese in cui, anche senza un Mussolini, c’è un Xavier Léon (cit. in Ragghianti 2007, p. 71).
Le due culture filosofiche nazionali accentuavano in tal modo quella, ormai antica, sostanziale reciproca estraneità.
L. Quilici, R. Ragghianti, Il carteggio Xavier Léon: corrispondenti italiani, con un’appendice di lettere di Georges Sorel, «Giornale critico della filosofia italiana», 1989, 9, 3, pp. 295-368 (in partic. pp. 329-30).
E. Garin, introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, Milano 1991, pp. 7-79.
R. Ragghianti, Spigolature crociane: il centenario della «Revue de métaphysique». Con lettere di Croce ed altri e una pagina crociana dimenticata, «Giornale critico della filosofia italiana», 1995, 15, 1, pp. 65-98.
G. Losito, Cristianesimo e modernità. Studio sulla formazione del personalismo di Laberthonnière, 1880-1893, Napoli 1999.
C. Cesa, La “mistica” e il “problema filosofico”, in G. Gentile, Il concetto della storia della filosofia, a cura di P. Di Giovanni, Firenze 2006, pp. 81-96.
M. Visentin, Gentile e il modernismo di Blondel, in Logica della morale. Maurice Blondel e la sua recezione in Italia, Atti del I Convegno blondeliano italiano, Logica e vita morale, 14-15 febbraio 2003, a cura di S. D’Agostino, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2006, pp. 141-62.
R. Ragghianti, «Una qualunque Bulgaria»: la ‘bancarotta’ della filosofia italiana in Francia, in Francia/Italia: le filosofie dell’Ottocento, Atti del Convegno di studi, 14-15 ottobre 2005, a cura di R. Ragghianti, A. Savorelli, Pisa 2007, pp. 61-90.
M. Ciliberto, introduzione a E. Garin, Storia della filosofia, riproduz. facsimilare dell’ed. Firenze 1945, Roma 2011, pp. V-XVII.
«Giornale critico della filosofia italiana», 2014, 34, 3, nr. monografico: Giovanni Gentile. Tra filosofia e cultura, a cura di A. Garofano, A. Pinazzi, F. Pitillo (in partic. M. Mustè, Gentile e Marx, pp. 15-27; S. Pietroforte, Gentile e Laberthonnière: alcune osservazioni, pp. 39-52).