Gentile e il nichilismo
Se si scorrono le pagine sulla storia del nichilismo, come quelle di Franco Volpi (1996), o le diverse testimonianze filosofiche sul nulla, dall’antichità ai nostri giorni, indagate da Sergio Givone (1995), si noterà l’assenza di Giovanni Gentile. Certo, questa assenza sarà stata ancora in parte condizionata dai postumi della damnatio memoriae seguita alla sua morte tragica, che per diversi decenni ha impedito una serena valutazione del suo pensiero. In quei decenni la sua filosofia continuò a esercitare un’influenza notevole attraverso numerosi allievi, ramificati in varie scuole e indirizzi di pensiero, che ne hanno tanto più valorizzato l’opera quanto più si sono distaccati da una pedissequa ripetizione. Tuttavia, anche a causa di una storiografia sul fascismo che generalmente risentiva ancora, fra fine anni Quaranta e anni Settanta, dell’esperienza della dittatura e non aveva ancora delineato una prospettiva quanto più possibile obiettiva del fenomeno, la bibliografia su Gentile non risultava cospicua, tranne rare eccezioni, come quella molto rilevante di Augusto Del Noce (1990).
Invece, soprattutto in seguito alla brillante monografia di Salvatore Natoli (1989), che ne ha apprezzato la statura europea confrontandolo in modo peculiare con Martin Heidegger, e alla preziosa silloge delle opere, curata da uno dei suoi ‘allievi’ migliori, Eugenio Garin, che ne ha evidenziato il rapporto con Karl Marx, e an;cora con il convegno romano del 1991 su Croce e Gentile. Fra tradizione nazionale e filosofia europea, il pensatore siciliano ha fruito di una vera e propria Renaissance. In questo modo Gentile è stato emancipato dall’identificazione con la barbarie culturale del fascismo (Norberto Bobbio) e la sua filosofia è stata lumeggiata nel contesto del pensiero europeo, permettendo, quindi, di rivelarne le implicazioni nichilistiche.
Chi aveva anticipato questa rinascita di Gentile, associandolo al nichilismo, anzi assumendolo a uno dei suoi più vertiginosi interpreti, era stato Emanuele Severino, per il quale l’opera del filosofo era sempre stata familiare, a iniziare dall’influenza esercitata dal fratello maggiore, allievo del pensatore attualista, e grazie al magistero di Gustavo Bontadini. Dalla metà degli anni Settanta fino a oggi, Severino è rimasto fedele a una delle più stimolanti esegesi del pensiero gentiliano. Per Severino, Gentile insieme a Giacomo Leopardi e a Friedrich Wilhelm Nietzsche rappresenta il vertice della filosofia otto-novecentesca. Nell’attualismo si svolge la più consequenziale distruzione nichilistica di ogni Assoluto: «Nell’attualismo gentiliano la coerenza del nichilismo raggiunge un grado particolarmente avanzato e significativo» (Attualismo e “serietà” della storia, 1975, in Severino 2009, p. 152).
Severino, già a metà degli anni Settanta, rovesciava ogni corriva valutazione di un Gentile arretrato pensatore ottocentesco, che aveva inficiato il progresso degli studi scientifici e delle applicazioni tecniche, facendone, al contrario, il filosofo che aveva elaborato la più radicale legittimazione teoretica del trionfo esclusivo dell’apparato tecnico-scientifico: «Il rapporto fra tecnica e attualismo è il rapporto tra la tecnica e una delle forme più coerenti della sorveglianza delle condizioni trascendentali della tecnica» (p. 165). Dalla posizione di intransigente nichilismo deriva, nella filosofia gentiliana, l’essenzialità dell’accadere storico:
Se si ha fede che il divenire sia evidente, la coerenza di questa fede esclude l’esistenza di ogni immutabile. Ogni immutabile anticipa infatti il divenire e lo rende vano e apparente. La “serietà” della storia e del divenire, di cui parla l’attualismo, richiede appunto l’inesistenza di ogni immutabile (p. 158).
Chi recentemente ha contestato tale punto di vista è stato Biagio de Giovanni, secondo cui Gentile è sì «per eccellenza il filosofo del divenire», ma «il divenire si incardina nell’eternità dell’Atto» (de Giovanni 2013, p. 3). Proprio la persistenza dell’Atto rende possibile la «serietà» della storia sottolineata da Severino, che però per tale persistenza non è travolta dal nulla: «Primato del Pensiero, denominato Atto, in Gentile; primato dell’Essere, denominato Immutabile, in Severino. Originarietà dell’uno, originarietà dell’altro. Eternità dell’uno, eternità dell’altro» (p. 19). Ne consegue
la redenzione dell’intero territorio della storia implicito nella possibilità-necessità di riportare il pensato all’Atto che lo crea, ovvero all’assoluto eterno presente che costruisce il carattere eterno della storia (p. 35).
De Giovanni non arretra di fronte a una definizione dell’attualismo quale espressione della volontà di potenza, ma anche in questo caso capovolge la semantica severiniana: «Il nulla […] è trasferito nella dialettica della volontà. Solo la volontà di potenza dell’atto storico trattiene l’essere nella vita e impedisce la sua caduta nel nulla» (p. 63). È, appunto, la «volontà di potenza» dell’Atto, la sua continua tensione alla creazione e al fare, a consentire che il pensiero di Gentile non sia un’apoteosi del nulla, bensì «una battaglia contro il nihilismo» (p. 109). La potenza dell’Atto costituisce anche la sua eticità, non attribuibile a esiti nietzschiani:
In lui la potenza del fare risolve la crisi; essa è l’unica risposta capace di evitare la caduta nel caos oscuro del mondo, giacché il non-fare sarebbe al di là del bene e del male. La battaglia di Gentile contro il nihilismo si affida […] alla potenza che si chiama Atto [che] ha dentro di sé le radici più profonde dell’umanità (p. 111).
L’opposta interpretazione di Gentile, sprigionata dall’acciarino severiniano, dispiegata da de Giovanni si comprende alla luce di una concezione della storia dell’Europa e dell’Occidente, di cui il pensatore siciliano fu massima espressione, incentrata, attraverso una pluralità di percorsi, sul nesso potenza-conservazione della vita-creazione di forme e istituzioni storiche. Al contrario, nell’ottica di Severino, il nichilismo, per il quale ogni ente è soggetto al divenire e dunque è condannato al niente, è la cifra concettuale dell’Occidente a cominciare dalla Grecia fino al Novecento e a Gentile, che, dopo la lezione di Nietzsche, ha portato a compimento la ‘follia’ del pensiero e della storia dell’Europa.
Ed è, appunto, questa dialettica fra non essere ed essere a costituire l’asse attorno al quale ruotano le due maggiori opere di Gentile, la Teoria generale dello spirito come atto puro (1916) e il Sistema di logica come teoria del conoscere (2 voll., 1917 e 1923), che, nate da corsi universitari, avevano però avuto una lunga propedeutica, nelle sue specifiche guise, dai saggi palermitani fino alla polemica del 1913 con Benedetto Croce, alla Riforma della dialettica hegeliana (1913) e ai Fondamenti della filosofia del diritto (1916). Un impegno teorico notevolissimo, propiziato dalle monografie di fine Ottocento su Antonio Rosmini e Vincenzo Gioberti, su Marx e Bertrando Spaventa, e accompagnato da una cospicua riflessione storiografica sulla filosofia italiana dall’Umanesimo agli esiti contemporanei, compresa la critica al modernismo.
Tale ricca messe storiografica assumeva un rilievo centrale, non esaurendosi in un’acribia erudita e filologica, che pur Gentile possedeva, ma rivelando un diverso modo di fare filosofia attraverso puntuali indagini sui pensatori del passato e, d’altra parte, ricostruendo un’interpretazione originale della storia d’Italia. L’obiettivo presentava due fondamentali aspetti: da un lato, una riforma filosofica con l’attualismo; dall’altro, ma in stretta connessione al primo, una riforma morale e intellettuale della nazione, che da Francesco De Sanctis a Croce ad Antonio Gramsci costituiva lo scopo principale degli intellettuali italiani e che in Gentile si concretizzò nella riforma della scuola.
Ma tutto questo non avveniva in uno studio e in aule, che si trovavano aristofanescamente sulle nuvole. Anche nelle argomentazioni più apparentemente lontane dai rumori della strada, anche nei giri logici più serrati e conchiusi in sé stessi, sono sempre percepibili nella pagina gentiliana gli echi della storia. Soprattutto, la Prima guerra mondiale, nella quale Gentile scoprì la sua vocazione alla politica, che dapprima si palesò in una continua presenza giornalistica. Una vocazione, tuttavia, che era il destino della sua filosofia, refrattaria a ogni distinzione fittizia fra conoscere e volere, fra teoria e pratica.
Se le risonanze storiche potevano sembrare dissimulate nei suoi volumi teorici, emergevano in tutta la loro urgenza e perentorietà nei discorsi postbellici rivolti ai giovani. Nel primo, intitolato Il problema politico (1920), Gentile, sottolineando l’importanza della religione, o meglio della religiosità, per la res publica, esprimeva uno stato d’animo diffuso, in modo peculiare fra le giovani generazioni che provenivano dall’esperienza della guerra. Si avvertiva una certa ripugnanza contro una stanca e ripetitiva cultura tardo-positivistica, «come innanzi al vuoto, da cui istintivamente l’animo rifugge» (in La religione. Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia. Discorsi di religione, 1965, p. 287). E, beninteso, era una ‘ripugnanza’ non solo verso una cultura, ma nei confronti di una stagione politica contrassegnata dal giolittismo, che dimostrava ora tutta la sua insufficienza di fronte all’insorgere di nuove e pressanti questioni.
Il filosofo esortava le nuove generazioni a emanciparsi da questa Italia, ormai anacronistica, meschina e antieroica:
Gl’italiani che ne vennero furono quelli che conosciamo: quelli che noi ora non vogliamo essere; quelli che, quanti siamo ad avere fiducia nella virtù purificatrice, rinnovatrice e corroborante della grande prova cruenta affrontata dall’Italia e superata, dobbiamo bandire dalla vita italiana (p. 299).
In altre parole, per Gentile, non si poteva pensare e vivere più come prima. La guerra mondiale aveva visto accamparsi in Europa il nichilismo, «il più inquietante fra tutti gli ospiti» (come lo aveva definito Nietzsche). Era stata un’Apocalisse nel suo schietto senso etimologico. Una rivelazione dei mali, dell’ansia, della crisi dell’Europa, che Gentile già prima non aveva esitato ad affrontare con la sua ardua meditazione su essere e non essere e sul divenire, non più hegelianamente illustrati come dialettica del pensato, ma dello stesso Soggetto, vale a dire come dialettica del pensante come Atto puro. Tale gesto teorico, riformulato e approfondito nei due capolavori della Teoria e della Logica, implicava una conseguenza dirompente: l’introiezione del nichilismo nello stesso Io, nello stesso Atto puro.
L’Atto puro è «negatività originaria» (Sistema di logica come teoria del conoscere, 2° vol., 19875, p. 369), in quanto è, non essendo, e non è, essendo:
La “negatività originaria” è una forma di “non essere”: il pensiero è il non essere dell’essere […] in quanto sia inteso come esterno e indipendente rispetto al pensiero. Tale forma di non essere si distingue dalla forma di “non essere” […] che, unito all’essere, costituisce quel divenire del pensiero che è la suprema e originaria presenza dell’esperienza, la “pietra di paragone”. Ma anche la “negatività originaria” è divenire. Anzi ne è la fonte (Severino 2010, pp. 26-27).
L’Atto è «dualità concreta», «intima alterità», che nega la realtà, l’essere come altro da sé stesso e, nello stesso tempo, lo riconosce come sua autocreazione, autoctisi. E, ancora, l’Io nega il suo essere contingente, perché sempre proiettato in uno slancio continuo verso il non essere del futuro. È una «inquietudine» perenne, che è l’intrinseca eticità del suo conoscere-agire, della sua autocoscienza, che è autoprassi. A suo modo una filosofia della prassi, di cui Gentile aveva individuato le premesse nel pensiero marxiano, non rubricandolo, alla maniera crociana, quale semplice canone metodologico. Ma una dialettica e una prassi che non erano determinate dalla materia (tale l’errore e la contraddizione di Marx), bensì costituivano il Soggetto medesimo.
Gentile, in modo eminente nella Logica, intraprende un vero corpo a corpo, un duello con la logica dell’astratto, con l’essere inteso nella sua astrattezza, assolutezza, che quindi l’Atto deve negare, reintegrandolo nel divenire del Soggetto, unico e infinito ed eterno, che tutto contiene in sé, ogni molteplicità spazio-temporale e ogni particolarità. L’individuo, il particolare non deve essere annullato. Essere e non essere, universale e individuale devono conservarsi in un processo di universalizzazione del particolare e individualizzazione dell’universale.
Nessuna cancellazione dell’individuale. Esso, negato nel suo isolamento e nella sua immediatezza, viene inserito nell’universalità del Soggetto. In tal modo l’opposizione del particolare e dell’Unico è superata dalla mediazione nel divenire dell’Atto puro. Nella «mediazione», come spiega Severino,
consiste l’Io, che toglie il non-Io dal suo essere un semplice opposto dell’Io e, unendolo a sé, è quell’unità di soggetto e oggetto dove nessuno dei due termini può quindi essere senza l’altro […]. Ponendo il non-Io, l’Io pone un “limite” a se stesso (p. 34).
Un «limite» che Gentile ricorda spesso nei suoi testi, tesaurizzando la lezione di De Sanctis, per il quale aveva rappresentato la concretizzazione nel reale dell’ideale: la sua «verità effettuale», per dirla con Niccolò Machiavelli.
Ma questa verità non è mai un possesso definitivo, è sempre insidiata dal dubbio e si realizza continuamente nella «unità di essere e non-essere» (Sistema di logica come teoria del conoscere, 1° vol., 19554, p. 98). La filosofia gentiliana è attraversata da una filigrana eraclitea. Un filosofo, Eraclito, sul quale Gentile si era esercitato sin dal corso palermitano del 1907-1908 di storia della filosofia, traducendo i suoi frammenti e le sue testimonianze. Non a caso, nella sua opera forse più travagliata, la Logica, affermava che la felicità consisteva nell’eterno «giuoco eracliteo dell’essere e del non-essere» (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 324). E addirittura l’explicit della Logica era intitolato al pensatore di Efeso: «L’importante è pensare: “τò φρονεῖν ἀρετῂ μεγίστη”, diceva Eraclito» (p. 384).
Nella filosofia gentiliana si impone una vera e propria ‘necessità’ del nichilismo (ovviamente sempre da superare), del non essere, della sua mediazione nel divenire, perché tale è la realtà, la ‘vita’ (termine molto frequente nella scrittura gentiliana a evidenziarne il suo coinvolgimento nell’esistenza quotidiana di ognuno) dell’Atto puro. Anche nella storia della logica, che Gentile traccia nei due volumi del 1917 e del 1923, non si tratta tanto di decostruire la «logica dell’astratto» (filosofia greca, che ha maturato il concetto della realtà) e di riconoscere la novità rivoluzionaria della «logica del concreto» (filosofia moderna, ispirata dal cristianesimo), che ha conquistato il concetto dello spirito, o di scandire due momenti o due epoche dell’Atto puro, ma di riscoprire, invece, i due aspetti e le scansioni logiche del movimento incessante del Soggetto, che supera l’astrattezza di ogni ente nella spiritualità concreta del divenire.
Alla filosofia antica e alla sua logica Gentile imputava di avere ridotto a niente il pensiero. Infatti, considerare che l’Io non sia Atto puro, autoconcetto e autocoscienza, che risolve in sé tutta la realtà mediante il suo divenire, e dunque esperienza pura, significa farlo dipendere da una realtà presupposta e, quindi, annullarlo. La logica antica «non arriva a concepire un pensiero che sia veramente creatore della realtà, cioè, esso stesso realtà. Il pensiero antico aveva appunto questo difetto: di essere, rigorosamente concepito, niente» (Teoria generale dello spirito come atto puro, in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, 1991, p. 461). Ma la stessa filosofia moderna, che pure è conquista di un Soggetto libero, qualora concepisca una realtà trascendente o una realtà esterna, ha reso il pensiero «niente».
Compito gentiliano, dunque, è di salvare il Soggetto da qualsiasi forma di nichilismo. Ma, tutto ciò che si oppone all’Atto puro non viene affatto espulso dall’orizzonte dell’Io, come se quest’ultimo, mera sostanza, avesse conseguito una stasi paradisiaca. Al contrario, sono necessari al suo divenire. Come rispondeva sulla «Voce» alle obiezioni crociane, l’errore, il male, il non essere è «quell’eterno peccato originale, da cui tutta la nostra vita è eterna redenzione dello spirito inteso quale continuo divenire e “annichilarsi”» (Risposta a Croce, 1913, in Opere filosofiche, cit., p. 400).
Croce, sempre sulla «Voce», aveva obiettato a Gentile la cancellazione di tutti i distinti, di cadere proprio nel nichilismo, in un vago misticismo in cui si annullerebbe il pensiero. Gentile non esitò a rispondergli, chiarendo che il suo attualismo non poteva precipitare in alcun baratro nichilistico e rappresentava, invece, la miglior difesa contro ogni tentazione mistica. Misticismo, ovvero l’annichilimento del soggetto in una realtà trascendente, era proprio ciò che la sua filosofia combatteva (Teoria, cit., p. 674). Per di più, l’attualismo non trasformava il mondo in un deserto desolato nel quale fosse sparita ogni distinzione. Non era affatto il trionfo nichilistico di un Angelo sterminatore: «L’idealismo risolve tutte le distinzioni, ma non le cancella come il misticismo, e afferma il finito non meno risolutamente che l’infinito, la differenza non meno che l’identità» (p. 674).
La distinzione nell’unità e il processo inverso definiscono quella «unità distintiva», nella quale «si celebra la libertà dello spirito» (Sistema di logica, 1° vol., cit., pp. 107-08). Le distinzioni costituiscono il combustibile necessario al divenire dell’Io:
Lo svolgimento spirituale, in cui l’esperienza consiste, è questa progressiva autodeterminazione dell’Io: nella quale ogni momento è un’affermazione in nuova forma dell’Io stesso, e però una negazione, un reale annullamento dell’Io nella forma in cui era prima determinato: un passare dal non essere all’essere di un Io determinato (L’esperienza pura e la realtà storica, 1914, in Opere filosofiche, cit., pp. 426-27).
Il dovere etico dell’Io è appunto la necessità del nichilismo e il suo eterno superamento, vale a dire l’eterno superamento di ciò che gli è avverso nella sua stessa vita:
Il peccato, l’errore, il male, il dolore [tutto ciò che è non essere], io me lo sento nelle ossa, intimo a me più che io non sia a me medesimo; e intendo la vita come quella lotta nell’io me vivo, che si divincola in eterno da questo me morto, che gli è dentro, e che egli stesso quasi alimenta: quella lotta che non è il male, ma la negazione di esso, e quindi verità, bontà, gioia (explicit della risposta a Croce del 1913, in Opere filosofiche, cit., p. 402).
È molto significativo, per comprendere «il dramma in cui consiste la vita del pensiero» (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 317), che nella scrittura gentiliana ricorresse la medesima metafora: il pensiero «trae da un caos tenebroso un cosmo razionale» (L’esperienza pura, in Opere filosofiche, cit., p. 428). Il mondo è un caos tenebroso, un oscuro nulla, dal quale però l’uomo non si lascia sedurre e annichilire, ma trae grazie al suo spirito creatore un ordine, il suo cosmo. È una ‘divinizzazione’ dell’uomo, vissuta non ottimisticamente ma tragicamente, in quanto l’uomo presenta una ontologia continuamente esposta al nichilismo, che lo assedia e dal quale sempre deve emanciparsi con un atto creatore: «Il pensiero fa l’uomo Dio; e se non pensa, egli è la negazione di Dio, il nulla. Ogni atto di pensiero è la risoluzione di questo dilemma tra Dio e il nulla» (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 315).
Gentile trova il più potente simbolo del rapporto tra essere e non essere nella «necessità della Croce e della morte dell’uomo per la sua resurrezione nella vita eterna» (Genesi e struttura della società, 1946, 1994, p. 145). Senz’altro, secondo Gentile, è un mito religioso, che trascina dentro di sé l’equivoco di un’immortalità ultraterrena e l’oggettivarsi del pensiero non nel proprio essere infinito, ma in un essere trascendente. Tuttavia, con sempre maggiore decisione e convinzione, nonostante l’aspra critica alla politica del Concordato e nonostante le censure alla sua filosofia culminate con l’inserimento nell’Indice dei libri proibiti, il pensatore siciliano non esitava ad affermare, soprattutto negli ultimi anni, una peculiare professione di fede cristiana e cattolica.
Ne è testimonianza la terminologia attinta al lessico teologico cristiano, sempre presente nelle sue opere, massime per alludere al costante conflitto morte-vita, essere e non essere: «Lo spirito è il Messia […]. La negatività originaria dell’atto che nega la natura per realizzare sé stesso» (Sistema di logica, 2° vol., cit., p. 369).
Il filosofo non aveva mai avuto dubbi, nella scia hegeliana, ad ascrivere al cristianesimo il più alto contenuto speculativo, seppur avvolto in dogmi. Egli attribuiva al cristianesimo un’indiscutibile primazia, fra le radici della modernità spirituale dell’Europa. Certo, non alla maniera dell’Europa o cristianità di Novalis, ma nella individuazione nel messaggio evangelico e, si potrebbe aggiungere, nella sua interpretazione agostiniana del principio creatore e assoluto dello Spirito, che tutto vivifica e tutto libera dal nulla per portarlo a una vita, che è continua insoddisfazione e inquietudine pascaliana, mai pacificata in acquisti definitivi, ma sempre slanciata verso un nuovo non essere da compiere.
Di non irrilevante significato era, poi, la constatazione, contrariamente a una vulgata storiografica che aveva fatto del Rinascimento una età neopagana, di un nesso indissolubile fra cristianesimo e Umanesimo:
Nella filosofia cristiana sorgeva un punto di vista del tutto nuovo col concetto dello spirito come soggetto e come libertà, ignoto alla filosofia greca. […] nella Rinascenza lo spirito del cristianesimo, in varie forme talvolta apparentemente contraddittorie all’essenza della religione di Gesù, si riscosse finalmente dalla lunga schiavitù, in cui giacque nei secoli di mezzo sotto il dominio della logica greca (Il metodo dell’immanenza, 1912, in Opere filosofiche, cit., pp. 362-63).
Dalla specola gentiliana, «l’età moderna […] è la fondazione celebrata nei secoli, del regnum hominis, l’instaurazione dell’umanismo vero» (Il concetto della storia della filosofia, 1907, in Opere filosofiche, cit., pp. 280-81). In questa valorizzazione dell’Umanesimo italiano, che si era consolidata attraverso puntuali ricognizioni testuali e storiografiche, e illuminanti saggi sulla filosofia rinascimentale, raccolti rispettivamente in Studi sul Rinascimento (1923) e Giordano Bruno e il pensiero italiano del Rinascimento (1920; ripubblicato nella terza edizione del 1939 con il titolo Il pensiero italiano del Rinascimento), agivano il lascito spaventiano e la sua teoria della circolarità di una filosofia italiana, primizia rinascimentale del moderno che era stata soffocata dalla Controriforma per poi riprendere il suo corso nell’Ottocento posthegeliano. Alla stessa stregua, nella concezione di Gentile del Rinascimento non era inerte la lezione di un altro suo nume tutelare, De Sanctis, che aveva lumeggiato le ambivalenze della cultura italiana quattro-cinquecentesca, splendida per la sua letteratura e la sua arte, e per l’emergere di una coscienza libera e autonoma, ma gravemente inficiata dall’indifferentismo etico-civile.
Tuttavia, propria di Gentile è la frequente accentuazione della natura essenzialmente cristiana del Rinascimento, al di là delle apparenze, così come il ripudio, nell’illustrazione del progresso spirituale europeo, della consequenzialità fra Rinascimento e Riforma, che pur era stata accreditata da Georg Wilhelm Fried;rich Hegel. Non era affatto casuale e contingente che in una delle sue ultime conferenze, tenuta nell’aula magna dell’Università di Firenze l’8 febbraio del 1943, egli ribadisse e chiarisse il suo cristianesimo non disgiunto dal cattolicesimo:
Ripeto dunque la mia professione di fede, piaccia o dispiaccia a chi mi sta a sentire io sono cristiano. Sono cristiano perché credo nella religione dello spirito. Ma voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci: io sono cattolico (La religione, 1965, p. 406).
E queste erano le sue motivazioni:
La religione cristiana è la religione dello spirito, per la quale Dio è spirito; ma è spirito in quanto l’uomo è spirito; e Dio e uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno: sicché l’uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio […]. E Dio da parte sua è il vero Dio in quanto è tutt’uno con l’uomo, che lo compie nella sua essenza: Dio incarnato, fatto uomo e crocefisso. Perché cattolico? Perché religione è Chiesa; come ogni attività spirituale […] è universale, propria di un soggetto che si espande all’infinito: comunità illimitata, nella quale il mio Dio è Dio se è Dio di tutti. L’errore della Riforma, come videro bene i nostri pensatori del Rinascimento, fu quello di aver voluto fare della religione un affare privato di quel fantastico individuo, che non è uomo, spirito, ma un semplice fantoccio d’uomo collocato nella spazialità e temporalità della natura (p. 408).
In questo suo fondamentale discorso Gentile illuminava quelli che erano per lui i due principi basilari della sua fede cristiana: l’incarnazione, ossia il Dio-uomo, da lui letto come l’uomo-Dio che in sé stesso si universalizza e diventa eterno, e la morte e resurrezione di Gesù, vale a dire, la perenne lotta fra non essere ed essere, morte e vita, nulla ed eterno. Altrettanto singolare, ma non sorprendente anzi del tutto coerente con la sua filosofia, è il suo cattolicesimo. Non la Riforma, che conserva una duplice carenza: per un verso, è un soggettivismo irrelato e tutto interiorizzato che non riconosce alcuna autorità; per un altro verso, annichilisce completamente la libertà cristiana in un Dio distante, che può procurare solo angoscia, come insegnava la grande teologia protestante da Sören Kierkegaard a Karl Barth.
Il cattolicesimo di Gentile non implicava, d’altra parte, nessuna adesione a miti controriformistici, né nella rozza versione di Curzio Malaparte, che elogiava quella età come schietta espressione di un’Italia ‘barbara’ e genuina e fortemente avversa allo spirito del Nord Europa. Ma nemmeno nella raffinata versione di Giuseppe Toffanin, che pure Gentile fu uno dei pochi ad apprezzare in specie per il libro su Machiavelli e il tacitismo (1921), ma di cui recisamente ricusava la visione di un Umanesimo la cui eredità fosse stata continuata e sviluppata dallo spirito tridentino, che avrebbe preservato l’Italia dal romanticismo eslege e superomistico dell’Europa protestante.
Il cattolicesimo di Gentile implicava, invece, la necessità che una fede, come quella cristiana traslata in ambito attualistico, non fosse vissuta in un solipsismo autoannientante, ma si dispiegasse in istituzioni, radicate in tradizioni storiche ed etiche. Risulta consentaneo a tale concezione che l’eroe rinascimentale (e non della Controriforma, come era spesso ritratto) di Gentile fosse Tommaso Campanella (insieme a Giordano Bruno), al quale dedicò molti saggi, eruditi e teorici.
In effetti, come Gentile esplicitamente sosteneva in un discorso a Stilo del 1924, Campanella aveva concepito lo «Stato etico», nel quale il soggettivismo machiavelliano si era adempiuto in una comunità etica, in un popolo con una sua spiritualità, del quale lo Stato era forma e sostanza morale. Solo in questo modo, il soggetto individuale non rischiava di annichilirsi nella sua finitudine, ma si immedesimava nello Stato, e solo in questo modo, lo Stato non era mera autorità, che annientasse la libertà dei singoli, ma sua tutela e concretizzazione etica.
Con queste sue considerazioni (intimamente connesse alla meditazione su essere e non essere) su cristianesimo, Umanesimo e cattolicesimo, delle quali la valutazione di Campanella, celebrato quale apogeo del Rinascimento, era la sintesi, Gentile segnava la sua originalità ed estraneità non solo riguardo all’anti-römis;cher Affekt otto-novecentesco, ma anche verso quell’antiumanesimo, prevalente nella filosofia novecentesca, che in quegli anni trovava massima espressione in Heidegger, nel suo Brief über den Humanismus (1946). Per Heidegger, l’Umanesimo era forma del nichilismo e dell’oblio dell’Essere, mentre, al contrario, per Gentile, era àncora di salvezza contro il nichilismo.
Nell’ultimo libro di Gentile, Genesi e struttura della società (scritto nel 1943 e pubblicato postumo nel 1946), si raccolgono le fila di una vita nella quale esistenza e filosofia avevano coinciso e sin dai titoli dei capitoli e dei paragrafi appaiono i temi a lui cari e più volte ribaditi. Primo fra tutti, quello del rapporto fra essere e non essere, e anche il cristianesimo (è forse il libro con maggiori citazioni dal Vangelo), l’Umanesimo e il suo apice, Campanella.
Il pensatore calabrese, insieme ad altri autori, Bruno e Gioberti, rappresentanti di una radicale riforma etico-intellettuale del popolo italiano, era menzionato da Gentile quale severo censore del «giudizio privato» e dell’individualismo protestante, che era stato l’archetipo teologico dell’atomismo sociale e del meccanico aggregato di singoli, della separazione fra privato e pubblico e della inimicizia reciproca fra individuo e Stato, che erano i bersagli privilegiati di Genesi e struttura della società.
Lo Stato è in interiore homine, come già aveva asserito nei Fondamenti della filosofia del diritto, è la realizzazione compiuta dell’autocoscienza dello Spirito e, dunque, si immedesima con la filosofia, senza che però questo significhi acquiescenza a un’autorità dispotica. La filosofia deve sempre esercitare la sua critica, perché lo Stato è sempre in movimento, in divenire, in continua rivoluzione. Lo Stato, che è Atto puro, deve annichilirsi, è perenne negazione, dall’essere al non essere, e insieme è autoctisi, continua creazione, dal non essere all’essere.
Ciò giustifica l’eticità dello Stato, che, essendo Spirito, non tollera limiti, altrimenti non sarebbe libero. Quindi, contrariamente a quanto sostenuto da Hegel, non ammette limiti né dentro di sé, famiglia società civile economia, né oltre di sé, arte religione e filosofia. La stessa guerra è momento necessario della vita dello Stato e della sua perenne lotta con la morte, con il non essere.
Gli stessi sindacati non possono essere parti dello Stato e contro lo Stato, ma vi devono essere integrati nelle corporazioni. Il tema del lavoro diventa fondamentale nell’ultima opera di Gentile. Il filosofo, infatti, promuoveva un «umanesimo del lavoro»:
All’umanesimo della cultura, che fu pure una tappa gloriosa della liberazione dell’uomo, succede oggi o succederà domani l’umanesimo del lavoro. Perché la creazione della grande industria e l’avanzata del lavoratore nella scena della grande storia, ha modificato profondamente il concetto moderno della cultura. […] Da quando lavora, l’uomo è uomo, e s’è alzato al regno dello spirito, dove il mondo è quello che egli crea pensando: il suo mondo, sé stesso. Ogni lavoratore è faber fortunae suae, anzi faber sui ipsius. Bisognava perciò che quella cultura dell’uomo, che è propria dell’umanesimo letterario e filosofico, si slargasse per abbracciare ogni forma di attività onde l’uomo lavorando crea la sua umanità. Bisognava che si riconoscesse anche al lavoratore l’alta dignità che l’uomo pensando aveva scoperto nel pensiero. […] lo Stato non può essere lo Stato del cittadino (o dell’uomo e del cittadino) come quello della Rivoluzione francese, ma dev’essere, ed è, quello del lavoratore (Genesi e struttura della società, cit., pp. 111-12).
È una centralità del lavoratore, che, ovviamente con accezioni differenti, ricorda l’Arbeiter di Ernst Jünger (1895-1998). Ma nello scrittore tedesco questa figura era forma del predominio della tecnica, mentre per Gentile il lavoro diveniva espressione concreta dell’autoctisi dello Spirito, che in sé stesso nega l’oggetto riconoscendolo come sua propria creazione. Il che, se si accetta l’esegesi di Severino, significa appunto massima espressione della tecnica, del considerare nulla ogni ente a causa di un onnipotente nichilismo.
Tale esaltazione gentiliana del lavoro e del lavoratore era anche una critica della categoria moderna della rappresentanza, stigmatizzata per la sua artificialità. Necessaria invece era una rappresentanza organica attraverso l’organizzazione corporativa dello Stato, che consentiva un immedesimarsi reciproco di individuo, società civile e Stato. Il discorso gentiliano si diramava da un principio fondamentale: la società trascendentale.
In questo modo il filosofo riformulava dalle radici il concetto aristotelico di uomo-animale politico e, nello stesso tempo, si opponeva a Thomas Hobbes (1588-1679) e alla sua tesi del bellum omnium contra omnes. È la dialettica del pensiero pensante, della sintesi di essere e non essere, e di Io e non Io, a trovare consistenza e drammaticità in questa ultima prova di Gentile, nella quale ripetutamente si afferma che l’altro, che si trova dinanzi a noi nella società, deve essere riconosciuto come socius. L’altro è l’oggetto sociale che deve soggettivarsi per evitare il suo annientamento così come il soggetto, per non precipitare in una solitudine nichilistica, deve riconoscersi nell’alterità. Anzi, l’Io riflette sull’alterità a partire dall’alterità presente anzitutto in sé stesso:
A nessuno spero sia per sfuggire l’importanza di tal concetto, che è per noi la chiave di volta del grande edificio sociale […] Due cose sono da notare: 1) che l’alterità reale sussiste nello stesso atto dell’Io come sintesi [“identità di opposti”] di Io e non-Io, che non può non diventare sintesi di Io e Io, perché dentro l’Io uno è l’Io che parla e un altro è l’Io che ascolta; e la distinzione è netta e assoluta; 2) che questa alterità che nella sintesi deve essere superata con l’instaurazione della societas, non è, come si potrebbe credere, men difficile a vincersi dell’alterità empirica di Tizio e Caio […] Questa effettiva alterità è un momento necessario del passaggio dell’oggetto da cosa a spirito. Un momento che empiricamente può farsi avvertire più o meno, ma non manca mai. Ed è la materia che lo spirito smaterializza in eterno nel processo di formazione. Quanta distanza dal contra hostes aeterna auctoritas esto all’amore cristiano del prossimo! L’autorità non riconosce nel nemico l’uomo; e il prossimo invece è tutt’uno con noi. Ma l’hostis c’è sempre (Genesi e struttura della società, cit., pp. 39-40).
Solo attraverso questo processo faticoso, doloroso e necessario di immedesimazione nell’alterità (che, tuttavia, resta sempre anche un hostis) da parte del soggetto, egli si affranca
dall’angoscia del non essere. […] Ma la natura contraddittoria e possente dello spirito fa sì che l’angoscia stessa è vinta dall’angoscia: poiché anche l’angoscia è coscienza, ancorché torbida e grave, è atto che già affranca l’Io e il mondo dal non essere (p. 35).
Era la risposta gentiliana all’individualismo-atomismo sociale della Riforma, con il medesimo lessico del cristianesimo ‘filtrato’ dalla mediazione istituzionale del cattolicesimo. Gentile, come altri grandi pensatori europei fra le due guerre, era consapevole della crisi delle democrazie liberali, di filiazione ottocentesca, e cercava una risposta a quell’individualismo geloso dei suoi diritti (sviluppo politico della Riforma), che considerava lo Stato come nemico dal quale proteggersi. L’esito politico fu la sua assunzione a ideologo del fascismo, garantita dal suo lemma (nonostante la firma di Benito Mussolini) per l’Enciclopedia Italiana.
La drammatica vita dell’Atto unico nell’eterna lotta fra essere e non essere, fra il nulla e la vita, fra il bene e il male, poteva tradursi, in rebus politicis, in una Unicità, che si personificava nel mito del Duce, del quale Gentile fu partecipe e al quale fino all’ultimo restò fedele, come attestano Che cos’è il fascismo (1925), Fascismo e cultura (1928), Origini e dottrina del fascismo (1a ed. della prima parte, 1928; 19292; 19343) e la scelta di seguirlo nella Repubblica di Salò
In altre parole, nel vortice politico dell’Atto puro, che se era fiume eracliteo era tuttavia pure Unico, era polverizzato qualsiasi argine al potere. Ne conseguiva l’abrogazione del diritto naturale, che da grandi interpreti (Ernst Fraenkel) del fenomeno totalitario è stata considerata uno degli aspetti determinanti della sua affermazione. E non fu certo casuale la rinascita della teoria del diritto naturale dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
Il problema del coinvolgimento non solo politico, ma teorico di Gentile con il fascismo risulta tuttavia pressoché irrisolvibile. Anzi, è aggravato e moltiplicato da altre questioni, come, per es., la connessione fra regimi totalitari e nichilismo. Non è mancato chi, come Hermann Rauschning, avvalendosi di un’esperienza di frequentazioni quotidiane con Adolf Hitler, ha spiegato la sua dittatura totalitaria come Die Revolution des Nihilismus (1938). E, per di più e molto significativamente, la questione gentiliana non è un hapax della terribile realtà di quei decenni, ma è affine a quella di altri grandi pensatori, come Carl Schmitt e Heidegger, così legati anche loro alla storia novecentesca del nichilismo. È un’ulteriore conferma della veridicità della profezia nietzschiana su questo «ospite inquietante», tanto «più inquietante» nella vita e nella filosofia (ma è una endiadi) di Gentile.
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