Gentile e il Concordato
Quando nel giugno 1934 la Congregazione del Sant’Uffizio iscrive nell’Indice dei libri proibiti l’opera omnia di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, la Santa Sede torna a legare due vicende che da oltre un decennio si erano contrapposte in modo irreversibile nella cultura italiana e che solo agli occhi vaticani restavano una diade. A tutta prima quella condanna vuol sancire il conflitto irriducibile fra la neoscolastica gemelliana italiana e quell’entità indistinta costituita da idealismo e attualismo. Da questo conflitto, secondo una modalità sperimentata molte volte nella stagione delle condanne del ‘moderno’, la Chiesa non ha l’ambizione di uscire vincitrice, ma di uscire sola, mostrando l’autosufficienza della propria posizione. Forte di quella che Émile Poulat chiamava l’ecclesiosfera – lo spazio distinto nel quale si assumevano gli oggetti sociali di modernità, ma li si praticava in senso antimoderno e nel quale stavano banche, cooperative, sindacati, scuole e perfino la forma partito – l’intransigentismo italiano aveva dato battaglia: ma dietro questa serie di fronti stava la convinzione che il nodo ultimo, quello filosofico e antropologico, fosse quello decisivo e che su quello si giocasse il destino delle nuove generazioni.
In Italia, la condanna del 1934 afferma dunque l’ambizione della cultura neoscolastica di costruire un’ecclesiosfera filosofica della quale Agostino Gemelli (1878-1959) e l’Università cattolica costituiscono la guardiania, e taglia con una plateale genericità il nodo di un rapporto complesso con i due filosofi, le cui vie politiche e intellettuali si erano ormai separate da anni e che si erano riavvicinate, pochi anni prima di quella solenne riprovazione, in quell’attimo, supremo agli occhi vaticani, della ratifica dei Patti lateranensi e dell’accettazione definitiva dello strumento concordatario per regolare i rapporti Stato-Chiesa.
Nel quarto di secolo precedente la messa all’Indice, in realtà, la Chiesa di Roma aveva sviluppato nei confronti di Croce e di Gentile fascinazioni (specie verso Gentile), risentimenti (verso entrambi) e ricambiate chiusure (specie verso Croce). Alla soglia degli anni Dieci l’idealismo italiano non si era trattenuto dal criticare con qualche sprezzo le domande del mondo di Alfred Loisy (1857-1940) ed Ernesto Buonaiuti (1881-1946), specie dopo che l’enciclica Pascendi Dominici gregis aveva accorpato i diversi fermenti che percorrevano i seminari e la cultura europea in un’unica ‘eresia’, detta appunto modernismo. In quel frangente Pio X; e la sua ‘segreteriola’ avevano accolto con soddisfazione il soccorso portato da filosofi malvisti per le loro idee, ma utili quando spiegavano che il cattolicesimo era bene che fosse come era e che non poteva essere altro che quello, pena la perdita della sua funzione teologica e politica. Dopo la cesura della grande guerra, all’inizio degli anni Venti, la riforma scolastica portata a termine da Gentile come ministro della Pubblica Istruzione aveva introdotto principi e materie che parevano rientrare nel sogno di una nuova cristianizzazione della società: l’ora di religione nelle sole classi elementari posta «a coronamento» dell’educazione veniva letta non come una visione riduttiva della coscienza di fede, ma come un inizio, che perfino padre Gemelli, figura chiave anche in queste vicende, valutava positivamente. Tant’è che quando con il 1925 inizia il lavoro della Enciclopedia Italiana – a cui Croce si sottrae e di cui Gentile si appropria – l’establishment ecclesiastico si lascia coinvolgere in un’opera di grande complessità: e quasi non si avvede che nella parte storico-religiosa della ‘macchina’ enciclopedica le funzioni di rilievo e gli influssi più decisivi vengono dai discepoli della koinonìa di Buonaiuti e non dai prelati ottusi e reazionari che infastidiscono la redazione, ma non incidono sull’impianto (Melloni 2015, pp. 79-80).
Eppure proprio durante quell’esperienza, dalla quale Gentile esclude il gruppo dell’Università cattolica, aveva iniziato ad affiorare una trattenuta insoddisfazione per quel che aveva dato la riforma scolastica; si fa largo il sospetto che, sotto quelle che apparivano concessioni gentiliane, vi fosse in realtà il tentativo o almeno la tentazione di modificare la comprensione stessa della Chiesa, del cattolicesimo, della fede cristiana, in un’operazione culturale più ampia. L’emergere pubblico e vibrato dell’ostilità di Gentile alle ipotesi e poi alle soluzioni concordatarie fornisce all’occhio ecclesiastico la riprova di una pericolosità, che è distinta in sé, ma oggettivamente parallela a quella di Croce.
Lo spostamento di Gemelli da interlocutore a nemico della riforma scolastica, la convinzione degli ecclesiastici della Enciclopedia di aver dovuto accettare ‘errori’ in uno scambio ineguale con il direttore dell’Istituto che la promuove, le posizioni sulla regolazione pattizia dei rapporti Stato-Chiesa non sono la sola causa della condanna del 1934, ma certo ne fanno parte. Con proporzioni che la storiografia valuta in due modi assai divaricati.
Ad alcuni studiosi come Guido Verucci pare che il vero bersaglio della messa all’Indice sia Croce: l’insofferenza ecclesiastica per il suo impianto storicistico da un lato e, dall’altro, il non infondato timore dell’attrazione che egli esercita sul mondo colto dal quale una parte dell’afascismo cattolico potrebbe confluire nell’antifascismo spiegherebbero il gesto di condanna. Per Verucci, come per altri, dunque, la contestuale condanna dell’opera di Gentile sarebbe soltanto un contrappeso che unifica nella sanzione – irrilevante sul piano pratico, prepotente sul piano simbolico – tutto l’idealismo ed evita che il passo vaticano appaia come una presa di distanza troppo pubblica dal mondo che non si è piegato a Benito Mussolini. Altri studiosi come Gabriele Turi o Luisa Mangoni leggono la cosa in modo rovesciato. La condanna di Croce sarebbe infatti un contrappeso politico, necessario per poter colpire in Gentile la bestia nera della neoscolastica, con un’energia nella quale si riconosce la forza di Gemelli, che della neoscolastica italiana gestisce il marketing politico-accademico e non solo. Tuttavia, perché questa sanzione non appaia una condanna del fascismo, all’intellettuale che ha interpretato la politica mussoliniana come l’apice necessitato e necessitante di un percorso storico e filosofico della vicenda nazionale, si associa lo storico napoletano, contro il quale erano stati già presi provvedimenti che dicevano chiaramente le riserve ben note della Santa Sede (cfr. Sasso 1979).
Certo la pretesa crociana di traduzione/riduzione sul piano immanentistico del cattolicesimo, così da determinarne il ‘superamento’, era la cosa che poteva preoccupare di più l’entourage di papa Ratti: ma se quella condanna massiva aveva come scopo di alterare il fondo idealistico del sistema educativo italiano, quello scopo, come spiega ancora Verucci, fu mancato. Anzi esso rimase intatto grazie alla nettezza con cui il fascismo assecondò e ottenne l’autoconfinamento dalla Chiesa in un’opera «di conformità sociale e pubblica ai principi morali e religiosi cattolici» (Verucci 2006, p. 225).
Discutere quale delle due condanne sia ‘primaria’ e quale ‘compensativa’, non deve tuttavia far dimenticare che la loro simultaneità crea un atto unitario che accomuna una figura anticoncordataria estranea al regime come Croce, e un intellettuale come Gentile che, forte della sua residua credibilità nell’establishment fascista, agita contro il Concordato il proprio argumentum filosofico, senza percepire la forza del processo storico che solo Arturo Carlo Jemolo saprà spiegare nel 1948 con Chiesa e Stato in Italia negli ultimi cento anni.
Su Gentile la Chiesa cattolica aveva nutrito illusioni e speranze per almeno un quindicennio che va osservato più da vicino. Le posizioni critiche del filosofo contro il modernismo uscite fra il 1907 e il 1909 avevano raccolto l’interessato plauso ecclesiastico. Il ‘modernismo’ italiano non aveva attorno un ambiente intellettuale come quello che in Francia aveva accolto le implicazioni di L’Évangile et l’Église (1902) o Autour d’un petit livre (1903) di Loisy e non aveva conosciuto il febbricitare intellettuale per la ricerca di una ‘nuova apologetica’: aveva alle spalle Le cinque piaghe della Santa Chiesa (1848) di Antonio Rosmini-Serbati e La riforma cattolica della Chiesa (1856) di Vincenzo Gioberti e non le opere di Johann Adam Möhler, di John Henry Newman o di Maurice Blondel. Si muoveva dunque su fermenti più spirituali che Gentile stigmatizza sulla base del postulato tutto filosofico sulla posizione dialettica che la religione deve avere nel suo sistema.
Come scrive in una lettera del 2 dicembre 1907 ad Aiace Alfieri, il filosofo apprezza dei modernisti pochissime cose: fra le quali l’«aver esumato la Riforma cattolica di Gioberti» (cit. in Turi 1995, p. 192). Ma ciò non implica alcun apprezzamento per quella istanza di rinnovamento che, spiega l’articolo del 1908, Il modernismo e l’enciclica, uscito sulla «Critica» (6, pp. 208-29) a commento della condanna papale, Gentile bolla come figlio dell’‘intellettualismo’ di Loisy. Una posizione liquidatoria, non distante da quella di Croce, che si attira la dura replica di Buonaiuti dalle pagine di «Nova et vetera» dell’aprile 1908 (Turi 1995, pp. 194-95).
Ma il problema di interpretare il posizionamento filosofico del cattolicesimo non si esaurisce nel glossare con un oggettivo eccesso di zelo la condanna fulminata da Pio X contro i ‘modernisti’ e nell’incapacità di vedere le conseguenze della quasi desertificazione teologica del cattolicesimo italiano che avrebbe segnato tutto il resto del Novecento. Gentile riprende la questione in due saggi usciti a breve distanza, e cioè nel Modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909) e poi nei Problemi della scolastica e il pensiero italiano (1913). Emerge qui la convinzione che il gravame dell’esperienza religiosa sia stato quello di aver negato la divinità dell’uomo e averne così tarpato la spontaneità: contro tale negazione si muove la filosofia idealistica e da questo scontro si genera una dialettica storicamente necessaria (Turi 1995, p. 199). La controprova di questo antagonismo indispensabile Gentile la trova nel tentativo di Leone XIII di rilanciare un neotomismo astorico.
E proprio alla svolta leonina è dedicato un volume non di Gentile, ma del suo allievo Giuseppe Saitta, venuto agli studi lasciando il sacerdozio cattolico: Le origini del neo-tomismo nel secolo XIX (1912) esce con dedica a Benedetto Croce e prefazione di Gentile stesso; verrà aggredito da «Vita e pensiero» come un esempio di quella storiografia neohegeliana che costituisce l’antagonista dello sforzo gemelliano.
Sforzo che per parte di Gemelli non pare trovare un’attenuazione con Croce; mentre proprio con Gentile conosce un momento di ambigua convergenza quando questi serve come ministro del governo Mussolini nel breve lasso di tempo che va dalla marcia su Roma al delitto di Giacomo Matteotti. Già nei Discorsi di religione del 1920 (riediti nel 1924) Gentile aveva difeso infatti il principio che la «coscienza nazionale attiva» dello Stato dovesse essere la «coscienza cattolica» (Turi 1995, pp. 393-94).
Come è stato osservato (Verucci 2006, p. 56) non si trattava di un’adesione confessionale o teologica, ma dell’individuazione della via storicamente data per l’accesso a una diversa religiosità dello spirito e della ragione. Eppure, agli occhi di un cattolicesimo in cerca di riscatto, queste aperture appaiono come un’occasione insperata per riguadagnare una posizione di privilegio e saldare il mutato clima politico con un progetto culturale di riconquista della società.
Un’ipotesi nutrita politicamente nei mesi compresi fra la fine del 1922 e l’inizio del 1923, quando Mussolini ha come obiettivo quello di scavalcare il partito popolare e di aprire un canale di dialogo diretto con la Santa Sede, così da sbarazzarsi di quell’appoggio di cui ha avuto bisogno nel momento della presa del potere e di cui sente immediatamente il fastidioso incombere. Hanno questo fine le caute aperture che si scambiano il capo del fascismo e il cardinale Pietro Gasparri nel colloquio avvenuto a fine gennaio 1923, nel clima dell’inizio del papato di Achille Ratti. Dal punto di vista mussoliniano i contenuti lato sensu religiosi della ‘riforma Gentile’ debbono avere lo stesso scopo: guadagnare credito in Vaticano, qualunque sia l’intenzione e la misura che Gentile usa. Né Mussolini né il gesuita Pietro Tacchi Venturi – l’uomo di collegamento fra la Santa Sede e il nascente regime – capiscono o vogliono capire che quelle di Gentile in materia religiosa non sono ‘concessioni’ di tipo tattico, ma espressioni di principi che vengono fatti giocare sul tavolo della politica scolastica entro una cornice molto stretta.
L’ora di religione che il ministro concede alla fede cristiana nella sua «forma» cattolica è limitata alla scuola primaria: è, come si ripeterà mille volte, di «coronamento» sì; ma coronamento di una paideia infantile, propedeutica a un’educazione filosofica che risolve altrove e altrimenti il problema dello spirito. L’apertura all’autorità ecclesiastica nel giudicare dell’idoneità dei maestri a insegnare religione e dei libri di testo su cui fare scuola, fanno parte di un disegno dello stesso tipo.
Mosse non decifrabili a chi vede nel sostegno al fascismo la leva di una riconquista della società in senso confessionale, come accade nell’entusiastico scambio del 9 febbraio 1923 fra Mussolini e Tacchi Venturi (Margiotta Broglio 1966, pp. 107-11). Perciò, sbagliando, li ascrive al registro dei favori Tacchi Venturi: e che li creda favori lo dimostra l’attivismo con cui il gesuita si muove per accontentare il desiderio del filosofo di vedere gli atti del processo a Giordano Bruno (cfr. Turi 1995, p. 319), custodito al Sant’Uffizio. E li ascrive al registro della politica la Segreteria di Stato rattiana, tant’è che dopo l’allontanamento ad aprile 1923 degli ormai superflui ministri popolari, si attrezza alla riconquista catechistica della scuola: con motu proprio papale del 29 giugno 1923, Pio XI istituisce infatti nella Congregazione del concilio un ufficio per promuovere l’azione catechistica su scala globale, di cui l’Italia, che già profuma di conciliazione dovrà essere l’incubatore e l’esempio.
Qualche concessione di stampo squisitamente politico Gentile la fa: per es., quando a settembre del 1923 rinnova il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, presieduto da Alessandro Casati e che ha come membri l’industriale massone Giuseppe Volpi o Giorgio Pasquali, firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti, vi nomina anche un cattolico fascista come Filippo Crispolti. Qualcuno ne resta sconcertato: Sebastiano Timpanaro dice, sfogandosi con Croce, che Gentile è ormai «il discepolo dei suoi peggiori discepoli» (Sasso 1989, p. 67); altri, come Pietro Pancrazi, vi leggono una provvidenziale progressione (Turi 1995, p. 325).
Eppure non mancano i segnali di ostilità. Giovanni Busnelli, dalle colonne della «Civiltà cattolica», fra il gennaio 1924 e il novembre 1925 mostra con un’impressionante serie di saggi tutte le riserve di quella neoscolastica che non può accettare – né in Gentile, né in Croce – la lettura di Hegel che approda alla negazione dell’esistenza di una natura indipendente dallo spirito: un attacco che si fa più serrato contro l’opera gentiliana e che ricorre a toni aspri. Nel mezzo di questa campagna condotta dai gesuiti, a ottobre del 1924, arriva il riconoscimento dell’Università cattolica (Turi 1995, p. 326) che potrebbe segnare un momento di allentamento tattico della tensione, almeno con Gemelli. Il padre non ha ancora fatto esplodere pubblicamente l’antagonismo peraltro evidente con Gentile: per non compromettere il destino della sua creatura accademica, ma non solo. Per un certo periodo, infatti, Gemelli pare quasi giocare con Gentile, attentissimo al circolare di voci su una sua possibile condanna al Sant’Uffizio: negli stessi mesi del famoso e atroce necrologio contro Felice Momigliano, spia di un sentimento di antisemitismo incosciente della sua stessa violenza, il frate si interroga su una possibile ‘evoluzione’ della posizione gentiliana, senza che si possa dire con certezza quanto ci sia di astuzia o di illusione megalomane nel sogno di ‘riconquistare’ Gentile al cattolicesimo militante.
Di certo non c’è astuzia da parte di Gentile: che anzi scarta ogni possibile sinergia con Gemelli nel nuovo impegno che ha assunto nel nuovo Istituto della Enciclopedia Italiana – impresa fondata il 18 febbraio 1925. Effettivamente nelle settimane successive Gentile dovrà definire la propria linea davanti a un mondo ecclesiastico di cui alternativamente teme l’ingerenza e la distanza. Non è solo la questione di una posizione teorica sulle relazioni fra idealismo e religione, come la pone nel marzo 1926 al 6° Congresso italiano di filosofia organizzato da Piero Martinetti (quello interrotto per ordine del prefetto di Milano): è anche un problema pratico, amplificato da una macchina produttiva nella quale molti attori hanno linee di politica ecclesiastica divergenti. Da un lato, Giovanni Treccani, che ha investito un patrimonio nell’Enciclopedia e che ha una sua visione su come e con chi addivenire a ‘composizione’ con il papa; dall’altro, Gentile che ha una sua idea su come coinvolgere e sterilizzare la partecipazione di ecclesiastici; dall’altro ancora, i chierici di diversa statura intellettuale e politica – da Angelo Mercati a Tacchi Venturi – che guardano alla nascente Enciclopedia anch’essi temendone la prossimità o la distanza o entrambe le cose.
Negli ultimi decenni del Novecento Gabriele Turi ha letto in questo groviglio la riprova di un’egemonia clericale e fascista nell’Enciclopedia, dominata dal mecenate, dal filosofo e da quel gesuita chiave nella relazione fra papato e regime che fu Tacchi Venturi; tesi che, poi, serviva da premessa alla denuncia di un immobilismo dell’Enciclopedia, colpevole di aver portato nell’Italia democristiana una concezione autoritaria del ‘saper certo’ di stampo fascista. La ricerca più recente ha mostrato i limiti di quella visione: soprattutto valorizzando le fonti da cui emerge come il regime non apprezzi per nulla l’autonomia che Gentile si prende nell’impostazione e nel reclutamento del personale di un’opera pensata come parte di un processo di compimento fascista del destino nazionale, che non richiede epurazioni, ma al contrario inclusioni. Tale distinzione gentiliana rispetto al modus operandi del regime e la sua fondazione filosofica, suscita polemiche giornalistiche contro l’Enciclopedia e spiega la presenza di antifascisti, di intellettuali ebrei e di quella lunga filiera di discepoli di Buonaiuti – ospite del 6° Congresso nazionale di filosofia del 1926, disertato per questo da Gemelli (Verucci 2006, p. 72) – che lavorano all’impianto e alla realizzazione dell’opera, fino alle soglie delle leggi razziali e della guerra. Ancora più di recente, però, un esame ravvicinato delle fonti ha mostrato un quadro più complesso (Melloni 2015, pp. 82-85): infatti, alle origini di quell’impresa tutte le parti in causa vogliono intestarsi i buoni rapporti con il papa. Al consiglio di amministrazione dell’Enciclopedia è il conte Treccani in persona che dice di aver raggiunto un accordo con Pio XI; alla «Civiltà cattolica» Enrico Rosa dice di essere stato lui a ‘strappare’ al papa il permesso ai cattolici di collaborare; Tacchi Venturi, a detta di Gentile, dovrebbe essere stato suggerito dal preposito generale della Compagnia di Gesù; mentre mons. Ernesto Ruffini, allora prelato nella Segreteria di Stato, consegna un via libera ufficiale alla collaborazione che genererà non pochi conflitti sulle voci più diverse. Gentile – tenendo sempre Gemelli alla larga – agisce non solo sulla scorta del principio di stima intellettuale che lo porta a fidarsi delle doti intellettuali di Alberto Pincherle e di Mario Niccoli, ancorché impregnati di quel modernismo che lui aveva sprezzato vent’anni prima; ma anche del punto teorico che lo porterà alla sua posizione contro il Concordato.
Gentile è infatti convinto che prendere atto del naturale e indispensabile antagonismo fra ‘Stato e Chiesa’ sia la chiave per affrontare il problema della cultura e della storia italiana. E dunque anche per leggere la possibilità stessa della conciliazione in un senso opposto sia allo strumentalismo fascista, che vuole catturare il consenso cattolico, sia alla neutralizzazione tecnica dei Patti, che sarebbe diventata usuale nell’età della Costituente.
Con una visione vertiginosamente vicina alla lettura gobettiana della crisi del regime liberale, infatti, una corrente di pensiero cattolico considerava decisiva la frattura fra l’Italia unita e la Chiesa: non per una nostalgia temporalista, ma perché essa teneva lontane dalle istituzioni liberali le masse popolari cattoliche, estranee quanto quelle socialiste al nuovo Stato. Questa visione consentiva di guardare alla conciliazione (e alla sua conservazione: su questo convergono Palmiro Togliatti e Giuseppe Dossetti nel 1946-47) come a un bene, usato sì dal fascismo, ma che comunque resta un bene in vista della ‘pace religiosa’ del Paese. Gentile si muove lungo la direzione opposta: la ‘questione romana’ è per lui la mera conferma empirica di una frattura fatale e necessaria nella crescita di un’idea di Stato: una frattura che può essere compensata, ma che non va e non deve essere ‘conciliata’, né sul piano dell’azione di governo, né tanto meno sul piano delle relazioni fra istituzioni, né nella materiale produzione normativa.
Un provvedimento come quello di Pietro Fedele, lo storico cattolico che succede a lui e a Casati alla guida del ministero di piazza della Minerva ai primi del 1925, che con decreto dell’11 gennaio autorizza le autorità ecclesiastiche a partecipare alle ispezioni delle scuole, Gentile non lo avrebbe mai potuto firmare: non per una questione ideologica, ma per questa convinzione. Così come i nuovi programmi dell’istruzione emanati il 31 dicembre 1925, stesi per scambiarsi segnali fra regime e Santa Sede lungo l’asse Mussolini-Tacchi Venturi e di cui fa fede l’inserimento di don Giovanni Bosco nei temi di istruzione (Turi 1995, p. 385). Sono anche questi atti di Fedele a convincere Gentile, che il 15 febbraio 1926 – cinque giorni prima del decreto che fa scendere Buonaiuti dalla cattedra e ne confina l’insegnamento a un ‘incarico extra-accademico’ – ritorna come vicepresidente nel Consiglio superiore della Pubblica Istruzione, a prendere posizione pubblica con Il problema religioso in Italia: per sventare il rischio di una conciliazione fra Stato e Chiesa.
In quel saggio, che pronuncia come prolusione all’inizio dell’anno accademico a Bologna nell’ottobre 1926 (ora in Id., Politica e cultura, 1° vol., a cura di H.A. Cavallera, 1990, pp. 342-48), Gentile lamenta che l’Italia davanti alla Santa Sede abbia «porto lealmente la mano; ed ecco si vorrebbe prenderci tutto il braccio». Una presa che va rifiutata per non dissipare la naturale competizione fra quelli che egli chiama «istituti» e che i giuristi cattolici della Costituente chiameranno, con esiti diversi dai suoi, «ordini» e «ordinamenti»: tale competizione secondo Gentile è perfettamente garantita dalla situazione vigente e non va alterata.
L’accoglienza ecclesiastica verso un tale «tradizionalismo delle guarentigie» – che in altri tempi avrebbe forse trovato un insperato consenso intransigente – è freddissima o irritata. Al punto che viene il sospetto che essa non sia estranea alle disposizioni che ispirano le critiche che «La civiltà cattolica» fa metodicamente trasparire contro l’‘assolutismo idealistico’ del filosofo. Per es., quando questi esprime il suo dissenso filosofico da Fedele, che estende i corsi di religione a tutte le medie il 25 novembre 1926 (Turi 1995, p. 386). Se il Gentile dell’Enciclopedia si accontenta di risolvere pragmaticamente i complicati problemi di convivenza fra modernisti, ebrei positivisti e clericali reazionari (Melloni 2015, pp. 82-84), se l’esigenza di non superare una certa soglia di fastidio clericale lo porta ad accettare perfino la rinuncia di collaboratori di grande valore come Adolfo Omodeo, sul piano pubblico Gentile difende la sua posizione teorica sui rapporti Stato-Chiesa. E lo fa senza giri di parole: come quando nel 1926, nel saggio Gli allarmi della «Civiltà Cattolica» e i pericoli della scuola italiana uscito sul «Giornale critico della filosofia italiana» (7, pp. 394-95), attacca gli «zelatori di una impossibile trasformazione religiosa della scuola italiana», che per lui è impossibile perché s’illude di attutire un conflitto ineluttabile.
Quando nel 1927 lo stallo delle trattative tra Francesco Pacelli e Domenico Barone fa pensare che l’accordo fra Italia e Santa Sede, che per l’ennesima volta sembrava a portata di mano, fosse invece ancora destinato a sfuggire, Gentile esce di nuovo allo scoperto. Lo fa sul «Corriere della sera» di Ugo Ojetti, subito dopo l’estate, con un pezzo dal titolo La questione romana il 30 settembre 1927, e prende posizione nella diatriba fra «L’Osservatore romano» e Arnaldo Mussolini. È la nota tesi sull’esistenza di una ‘conciliazione di fatto’, che rende inutili altri accordi.
La presa di posizione gentiliana crea allarmi, ma fa tornare alla ribalta la questione dei rapporti con Croce. L’ospitalità che Domenico Petrini offre a Gentile sulla crociana «Conscientia» a fine ottobre 1927 sembra un gesto di apertura: ma Croce, sempre duro contro «l’odierna filosofia universitaria» e il «cosiddetto idealismo attuale» (Verucci 2006, p. 71; Turi 1995, p. 396), fa uscire a gennaio del 1928 la Storia d’Italia dal 1871 al 1915, opera con la quale prende di petto sia Gioacchino Volpe sia Gentile, mostrando come i progressi civili maturati nell’Italia liberale siano stati dissipati dalla rivoluzione fascista. La Storia d’Italia, per il suo rigore liberale, non collima con la posizione di Gentile nemmeno in materia di rapporti Stato-Chiesa. E Gentile rimane fermo alla sua posizione, anche nelle polemiche sulla «brunofobia» dei primi del 1928 (Turi 1995, p. 389), quando per assurdo trova proprio in Gemelli colui che, da un punto di vista diametralmente opposto, gli riconosce che in materia di conciliazione il punto del contendere non è la religione, ma lo Stato. Il rettore francescano lo dice in modo non certo dialogante: incassato il riconoscimento della sua Università cattolica, nella prolusione ai corsi del 1928 accusa Gentile di quella statolatria hegeliana che aveva già denunciato anni addietro. E dal canto suo Gentile polemizza con Pio XI che vede lo Stato come forma amorale che annulla l’uomo e saluta il 9 dicembre 1928 la ‘costituzionalizzazione’ del Gran consiglio del fascismo come la riprova di ciò che sostiene.
Quando l’11 febbraio 1929 il cocchio dei vincitori schizza fango sui vinti – come annota Alcide De Gasperi raccontando la partenza per il Laterano della carrozza del segretario di Stato che va alla firma dei Patti – Gentile scopre di essere certamente più marginale rispetto alla politica fascista di quanto non potesse pensare solo pochi anni prima. Alcuni articoli del Concordato in modo particolare sono sorprendenti per lui. L’art. 36 sulle scuole usa la sua formula sulla «dottrina cristiana» e sulla «forma ricevuta dalla tradizione cattolica»: ma estendendola a tutta la formazione 6-18 anni, la priva di quel limite d’età che, facendo della religione un’esperienza circoscritta e propedeutica alla filosofia, costituiva un cardine del suo sistema. Anche l’art. 38, che subordina l’Università cattolica alla Santa Sede, crea un’anomalia strutturale inconcepibile nella sua idea di Stato. E l’art. 40 sui titoli di studio ecclesiastici abbandona la linea di Gentile che aveva espressamente negato ogni loro validità e segna il rovesciamento di una posizione che era stata costante dall’Unità d’Italia in qua. Altri articoli allarmano gli allievi del filosofo: in modo particolare l’art. 5 sugli ecclesiastici ridotti allo stato laicale, di cui sia Antonino Giannone sia Saitta temono un’applicazione retroattiva (Turi 1995, p. 398) che non sfiorerà né loro né poi Bruno Nardi, ma che colpisce Buonaiuti, per il quale era stata pensata.
Lo scoccare «dell’ora di Dio», come dirà enfaticamente padre Enrico Rosa sulla «Civiltà cattolica», sancito dalla convergenza cattolica nel voto per la lista unica del marzo 1929, precede di poco l’ora dell’incasso politico da parte ecclesiastica. Dalle colonne della stessa rivista si afferma subito l’esigenza di rivedere alla luce del Concordato tutta la scuola – «programmi, insegnanti, libri e l’insegnamento stesso» – per liberarla da quell’idealismo di cui è «caposcuola il prof. Gentile». La famosa “Avvertenza” del ministro Fedele che nel 1926 vietava ai professori di toccare i temi religiosi nelle loro materie (Verucci 2006, pp. 81-82) sembrava così indicare una meta di cui al fondo il Concordato era soltanto lo strumento.
Com’è noto, la discussione di ratifica mostrò tutte le incongruenze di quei Patti e fece immediatamente affiorare le tensioni tra i suoi firmatari. Le provocazioni del duce sul cristianesimo che sarebbe rimasto una «setta» ebraica se non fosse stato reso grande dall’incontro con Roma, la puntigliosa rivendicazione di Pio XI contro l’«assoluta libertà di coscienza» segnano di polemiche il percorso di ratifica, nel corso del quale emergono in modo diverso le posizioni ostili alla soluzione pattizia espresse sia da Croce sia da Gentile. Mentre rispetto all’ira papale che ha saputo suscitare Mussolini è abile ed evasivo, nei confronti dei filosofi il suo atteggiamento è di aperta sfida. A Gentile il duce non riserva il minaccioso epiteto di «imboscato della storia», come dirà di Croce il 24 maggio del 1929; ma è chiaro che l’irritazione del dittatore non è riservata al solo filosofo napoletano. La prova e contrario la fornisce proprio l’arresto degli intellettuali che solidarizzano con le posizioni anticoncordatarie di Croce – Massimo Mila, Franco Antonicelli, Paolo Treves, Ludovico Geymonat, Umberto Cosmo e Umberto Segre – per la cui scarcerazione Gaetano De Sanctis si rivolge proprio a Gentile (Turi 1995, p. 399).
La reazione vaticana è anche più rapida: il 3 aprile 1929 viene rifiutata l’udienza per la consegna del tomo dell’Enciclopedia Italiana (Simoncelli 1997, pp. 21-25), a marcare una distanza con un’opera e una redazione nella quale si elidono istanze conflittuali del cattolicesimo (cfr. Melloni 2015).
Il conflitto di idee soggiacente a questa discussione si palesa, però, al 7° Congresso nazionale di filosofia, dove le posizioni antidealiste si manifestano con inedita verve, quasi che il passaggio concordatario rendesse superflue le tentate e talora insincere mediazioni del passato. Nel violento intervento del 29 maggio Gemelli afferma perentoriamente che «nulla vi è di meno religioso, di meno cristiano del pensiero del Gentile e degli idealisti»; d’altro canto, quando il filosofo nel suo discorso di apertura afferma solennemente che lo Stato «non abdicherà mai» alla sua missione educatrice, non si rende conto – se è vera la tesi di Verucci sull’inefficacia sostanziale della riconquista cattolica dell’educazione in età fascista e sulla permanenza di un’eredità idealistica nella scuola che dura per tutto il secondo Novecento – che si gioca la sua posterità intellettuale. Croce, assente questa volta dal Congresso, rimprovera gli organizzatori di aver messo sullo stesso piano uomini di pensiero e uomini che negano il pensiero (Verucci 2006, pp. 90-92): e al sempre più disgregato fronte degli attualisti (Garin 1985, p. 455) rimprovera di essere «l’ultimo conato di una filosofia teologizzante».
Cosa che agli occhiuti prelati del Sant’Uffizio non pare un pregio. È infatti vero, come osserva Gemelli, che qualche allievo di Gentile tornato all’ortodossia confessionale c’è, mentre fra gli allievi di Croce nessuno (Verucci 2006, pp. 93-94 e 97): ma chi ‘torna’, come Giuseppe Maggiore, lo fa distaccandosi da un Gentile preoccupato dalle ‘dicerie’ che gli giungono su un esame non certo benevolo della sua opera da parte del Sant’Uffizio. Si tratta di dicerie accompagnate da segnali ambivalenti: la lettera papale del 28 agosto 1929, che plaude al secondo volume della grande Enciclopedia, non è fatta per consolare Gentile, tant’è che irrita il papa il fatto che essa venga utilizzata come una réclame commerciale (Simoncelli 1997, p. 22, nota 13). E l’elogio della stessa Enciclopedia che appare sulla «Civiltà cattolica» del 21 dicembre 1929 non implica nessuna indulgenza per la posizione del filosofo contro il Concordato, che nel frattempo si era fatta più netta, proprio grazie all’irreversibilità della questione.
Il 4 settembre del 1929 sul «Corriere della sera» era infatti uscito un famoso articolo, Fuori dell’equivoco, in cui Gentile ripete la sua tesi sull’impossibilità per lo Stato di abdicare alla propria pretesa fondamentale senza cessare di essere se stesso; alla risposta dell’«Osservatore romano», egli replica il 6 settembre con Nell’equivoco sempre dalle colonne del quotidiano di via Solferino: ribadendo punto per punto la sua convinzione sull’inutilità del Concordato e dunque sul danno che esso produrrà eludendo il nodo della competizione fra i due sistemi.
Tra la fine del 1929 e l’inizio del 1930 la situazione si cristallizza con l’intervento in prima persona del papa: la Divini illius Magistri di Pio XI rivendica il diritto educativo della Chiesa sulla coscienza che si presta a varie interpretazioni; Gentile, con il discorso su Stato e cultura a Bologna in marzo suscita una vibratissima e significativa reazione. Infatti, gli scrive Saitta, nel giugno del 1930, che «quel maiale di Gemelli» ha denunciato la rivista «Vita nova» al Sant’Uffizio, e ancora, l’anno successivo, si dichiara convinto che autorità ecclesiastiche (e quindi lo stesso Gemelli) e civili sono responsabili della sua mancata chiamata a Bologna. In cambio ottiene da Gentile una confidenza tranquillizzante (Verucci 2006, p. 119) sulle voci di una condanna delle sue opere cui nulla aveva fatto seguito.
In realtà un seguito ci sarebbe stato. Ed è quello della messa all’Indice dell’opera omnia sia di Croce sia di Gentile. Con involontaria ironia un’informativa della polizia fascista del 3 aprile 1935 annotava che la concentrazione di poteri finanziari, editoriali e accademici in Gentile era tale che era «molto difficile far uscire un libro di cultura politica e filosofica in Italia senza il visto di questo nuovo Sant’Ufficio di nuovo tipo» (Verucci 2006, p. 209). In realtà il Sant’Uffizio in senso proprio aveva colpito Croce e Gentile per affermare la pretesa di fare della neoscolastica la sola lingua ammessa in un cattolicesimo resistente al mutismo che l’autorità considerava segno di docilità e per rivendicare il diritto al sospetto verso ogni storicismo, foss’anche quello scevro da ogni istanza filosofica di un uomo pio e colto come Pio Paschini (Simoncelli 1997, p. 17).
Per quanto paradossale possa apparire, Gentile, come tutte le altre vittime del Sant’Uffizio di quegli anni, assai più inermi di lui, patisce della condanna: che voleva umiliare non solo l’idealista, ma anche il nemico del Concordato. Il filosofo rivendica la propria buona fede, man mano che i suoi innumerevoli errori politici lo portano a un ripiegamento spirituale cui dà voce riproducendo nell’Avvertenza per chi ne avesse bisogno la sua adesione al cattolicesimo romano: «questo scrivevo nel 1907; questo penso e professo oggi» (Turi 1995, p. 407), ed è questa coerenza ‘religiosa’ che Gentile rivendicherà all’udienza con Pio XII cui partecipa insieme all’Istituto italiano per Medio ed Estremo Oriente il 14 aprile 1943 (Simoncelli 1997).
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