Gentile e Bruno
In un saggio del 1977 sugli studi bruniani di Giovanni Gentile, Antonio Corsano sottolinea, in modo particolare, la riflessione sulla religione di Giordano Bruno (1548-1600) e la sua contemporaneità con gli studi sul modernismo: sarebbe proprio «l’affinità elettiva di fondamento prevalentemente religioso» che conduce Gentile a occuparsi del Nolano (Corsano 1977, p. 267). Corsano limita la portata e il significato dell’attività ecdotica del filosofo siciliano, i cui studi bruniani rappresentano l’incontro, descritto con toni quasi mitologici, fra la categoria dell’atto «sovraccarica di un impulso inafferrabilmente proteso verso il profondo-ignoto» e l’inquietudine abissale di Bruno (p. 268).
Eppure, fra i lavori di Gentile dedicati a Bruno, l’imponente attività ecdotica che sfocia nell’edizione laterziana dei due volumi dei dialoghi italiani (Dialoghi metafisici, 1907, 19252; Dialoghi morali, 1908, 19272) merita la medesima attenzione delle analisi ricostruttive consegnate, oltre che ad alcune recensioni, ai tre saggi Giordano Bruno nella storia della cultura (1907), Lo svolgimento della filosofia bruniana e Veritas filia temporis (entrambi 1912). Vale dunque la pena ripercorrere alcune delle tappe che hanno portato alla loro realizzazione.
Dalle lettere a Benedetto Croce sappiamo che i primi interessi per Bruno si accendono mentre Gentile sta approntando la bibliografia che correderà l’edizione degli Scritti filosofici di Bertrando Spaventa, uscita a Napoli nel 1900. Del filosofo di Nola non c’è poi traccia fino al 1905, quando Gentile annuncia di voler intervenire sul volume di James Lewis McIntyre Giordano Bruno.
La recensione, uscita su «La Critica» (1905), si concentra in particolare sugli anni trascorsi dal filosofo in Inghilterra e valorizza tutti quei riferimenti volti a mettere in luce sia le connessioni con l’ambiente culturale elisabettiano sia l’influenza esercitata dalla filosofia bruniana nei secoli successivi. Questo interesse per il periodo inglese è strettamente collegato alla preparazione della nuova edizione delle opere volgari (che il Nolano pubblicò a Londra fra il 1584 e il 1585): il 22 luglio di quello stesso anno Fortunato Pintor scrive a Gentile che alla Biblioteca nazionale di Roma non vi sono quelle edizioni originali necessarie per il riscontro sulla grafia (G. Gentile, F. Pintor, Carteggio, a cura di E. Campochiaro, 1993, pp. 165-66); ai primi di agosto Gentile comunica a Croce di aver «raccolto tutti gli appunti per le note ai Dialoghi di G. Bruno» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 2° vol., 1974, p. 221) e il 2 ottobre il manoscritto risulta pronto. Nel 1905, dunque, Gentile è concentrato sia nella delucidazione del testo, sia nella messa a punto di riferimenti storici precisi: ricerca informazioni nei saggi della critica e, soprattutto per le questioni lessicali, presso Alessandro D’Ancona e Giuseppe Pitrè. Un metodo di lavoro che verrà mantenuto: ancora nella prefazione alla seconda edizione dei dialoghi, informa di aver usato gli scritti di John Florio «veramente preziosi per la lingua bruniana» (G. Gentile, prefazione a G. Bruno, Opere italiane, 1° vol., Dialoghi metafisici, 2a ed. riveduta e accresciuta, 1925, d’ora in poi Prefazione 1925, per la quale si cita dalla 3a ed., a cura di G. Aquilecchia, 1958, p. XLVII), oltre che le opere di Felice Tocco e di Vincenzo Spampanato, gli studi del quale, se nel 1907 vengono definiti «modesti, ma fruttuosi» (G. Gentile, prefazione a G. Bruno, Opere italiane, 1° vol., 1907, d’ora in poi Prefazione 1907, p. XX), nel 1925 sono giudicati «positivi, metodici, fruttuosi» (Prefazione 1925, p. XLVII). Sul finire del 1905 Gentile si impegna a correggere a ritmo serrato le bozze: il 1° dicembre 1906 annuncia a Croce di avere sulla scrivania i volumi «riusciti veramente splendidi» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, 2° vol., cit., p. 326).
Gli sforzi di Gentile nell’approntare questa nuova edizione non si concentrano solo nel commento – che pure è ricco di informazioni importanti –, ma vanno soprattutto nella direzione di fornire un testo leggibile, chiaro e corretto. Nella prefazione, abbozzando con rapidi cenni la storia della circolazione dei testi, Gentile osserva che se dopo la condanna del Nolano le sue opere vengono disperse e diventano estremamente rare, ritrovano nuova diffusione nel 18° sec. grazie soprattutto a John Toland e a Friedrich Heinrich Jacobi. Ma è stata l’edizione di Adolf Wagner a soddisfare «il desiderio delle opere originali» (Prefazione 1907, p. XIII), con la pubblicazione a Lipsia nel 1830 del volume che raccoglie tutta la produzione volgare: i dialoghi londinesi e la commedia Candelaio.
Nel 1875 Vittorio Imbriani nel Natanar II aveva messo alla berlina l’edizione wagneriana per le sue numerose scorrettezze e aperto la strada all’edizione «accuratissima» (Prefazione 1907, p. XIV) di Paul-Anton de Lagarde, uscita a Gottinga nel 1889. Questa pubblicazione viene giudicata da Gentile «d’importanza capitale» in quanto «riproduce letteralmente, e quasi diplomaticamente, gli archetipi, solo correggendone gli errori tipografici manifesti» (p. XV). Gli scrupoli di Lagarde vengono ritenuti però eccessivi: la scelta di aderire ai criteri di Imbriani – curatore sia delle edizioni del De umbris idearum e del Cantus Circaeus pubblicate nella prima parte del secondo volume degli Opera latine conscripta sia della ristampa del Candelaio (1886) – lo porta a riprodurre fedelmente le antiche stampe, pur emendando gli errori meccanici che invece Imbriani aveva mantenuto.
È vero che l’edizione di Lagarde, concentrandosi su grammatica, interpunzione e grafia, offre al lettore un Bruno del tutto nuovo, più arcaico e napoletano, «il vecchio Bruno del Cinquecento» (Prefazione 1907, p. XVI); eppure, Gentile ha in mente un progetto originale, rivolto a un pubblico diverso: non tanto agli studiosi della lingua o dell’ars punctandi, quanto ai filosofi e a tutti coloro che amano «intrattenersi con lui intorno alla nolana filosofia; che vogliono sì sentirlo impetuosamente discorrere nel suo linguaggio vivace e immaginoso» e «vogliono insomma riaverlo innanzi, come l’ebbero innanzi a Londra amici e discepoli», ma che desiderano nello stesso tempo la comunione spirituale con lui, entrando nel suo pensiero tumultuoso senza l’impedimento di grafie antiche e di forme ormai desuete. Distinguendo programmaticamente grafia e fonetica, Gentile allestisce così un’edizione che ripropone i testi bruniani graficamente in forma moderna, pur riproducendo l’antico suono: «una forma […] che coi mezzi a noi usuali, ci faccia riascoltare la parola viva e schietta di Bruno». L’edizione Gentile vuole prendere le distanze da quella aderenza grafica ‘lagardiana’ che avvince «gli eruditi incuriosi del pensiero di un vecchio testo» (p. XVII). Il dissenso verso un certo modo di ripubblicare le opere cinquecentesche è dunque netto, e ulteriormente ribadito nella prefazione alla seconda edizione, dove in una nota Gentile rimanda all’esperienza di Cesare Guasti che nell’edizione delle Poesie di Girolamo Savonarola non ha voluto seguire l’autore nell’uso di alcune grafie latineggianti, pur riproducendo in tutto il resto l’autografo, convinto che alcuni segni servissero a denunciare solo l’ascendenza delle parole e non un’espressione della voce (Prefazione 1925, p. XLV). Neppure Giosue Carducci – insiste Gentile – nel volume Intorno ad alcune rime dei secoli 13° e 14° ha riprodotto quelle forme che non rappresentano un suono o una specialità di pronuncia. Alla luce dunque di precise prospettive ecdotiche Gentile elenca con precisione i criteri: mantenere l’incostanza morfologica di Bruno; mutare l’interpunzione che risulta «quasi rifatta secondo l’uso di oggi» abbondando nei segni, perché «una virgola, si sa, talvolta giova più di una nota» (Prefazione 1907, p. XX); illustrare il testo con note storiche e filologiche, volte a mettere in evidenza il curioso patrimonio di citazioni, reminiscenze, fonti di cui l’autore si è servito.
Ma l’elemento originale e significativo dell’edizione è la famosa variante dell’inizio del primo dialogo della Cena de le Ceneri di cui in verità si accorge per primo Croce, che avverte l’amico che la copia del dialogo appena acquistata dalla Biblioteca di Napoli «ha alcune pagine in doppia redazione», anche se ammette di non aver proceduto al controllo «per vedere se ci sieno varianti» (B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile, a cura di A. Croce, introduzione di G. Sasso, 1981, p. 247). La lettera risale al giugno 1907, ma Gentile si ricorda del suo contenuto solo il 27 novembre; nei primi giorni del nuovo anno, dopo la collazione del materiale, annuncia: «ho trovato le pagg. ristampate della Cena, che m’erano sfuggite fino a pochi giorni fa: e sono interessantissime. Saranno un vero ornamento della nostra edizione» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, a cura di S. Giannantoni, 3° vol., 1976, p. 167). Il «cimelio della prima redazione di alcune pagine della Cena» (B. Croce, Lettere, cit., p. 280) verrà reso noto solo nella prefazione al secondo volume delle Opere italiane (1908, p. XV), dove Gentile osserva che la redazione anteriore mette in luce per contrasto la briosità della seriore, più consona all’impianto generale recato così a maggiore perfezione. Abbozzando l’analisi delle varianti alla luce della prospettiva complessiva del testo attraverso criteri stilistici (il brio della seriore rispetto alla primitiva) e storici (la caduta in seconda redazione di alcuni riferimenti a personaggi), Gentile ha di fatto aperto quella nuova stagione filologica negli studi bruniani che ha dato i suoi frutti lungo tutto il Novecento: non più dunque adesione all’archetipo astrattamente inteso, ma controllo sistematico degli esemplari superstiti; attenzione al contesto culturale e politico di composizione dei dialoghi; individuazione precisa di interlocutori e pubblici di riferimento.
Gentile fonda dunque con il suo lavoro ecdotico un nuovo canone, pienamente condiviso da Croce («ottimo è tutto ciò che dite circa l’ammodernamento della grafia», B. Croce, Lettere, cit., p. 205) e della cui originalità si rende perfettamente conto Felice Tocco, che l’8 dicembre 1906 scrive all’antico allievo ringraziandolo dell’invio del primo volume e promettendogli una recensione. Aggiunge inoltre di apprezzare il suo metodo eccellente:
parmi che Ella abbia fatto molto bene a tenere una via di mezzo fra l’edizione del Wagner, ove le correzioni, non sempre giustificate anzi talvolta false, abbondano, e l’edizione del Lagarde dove anche le correzioni più evidenti non sono accolte per falso scrupolo e la punteggiatura e la grafia dell’edizione principe si conserva per la disperazione del lettore moderno. Ella dunque ha fatto benissimo a darci una edizione leggibile (lettera conservata presso la Fondazione Giovanni Gentile),
anche se gli contesta qualche correzione, anticipando quanto andrà scrivendo nella recensione apparsa su «Il Marzocco» il 3 marzo 1907. Sia in questo intervento sia nel successivo («Il Marzocco», 5 luglio 1908) Tocco tratteggia perfettamente le linee del canone gentiliano che, pur avvalendosi del lavoro di Lagarde, quando le correzioni di Wagner sono giuste le accoglie «senza scrupolo», come d’altra parte corregge l’archetipo, sebbene qualche rara volta «con soverchia libertà»: a giudizio di Tocco, infatti, «noi dobbiamo correggere gli errori di stampa non le false letture o le imperfette reminiscenze del Bruno medesimo».
Per meglio definire quali siano le strategie editoriali di Gentile, vale la pena osservare come i criteri vengano definiti attraverso un processo lungo, che si estende fino agli anni Venti, quando esce la seconda edizione dei dialoghi. Emergono infatti diversi aspetti che contribuiscono a distinguere, seppure parzialmente, la prima edizione dalla seconda: per es., le sollecitazioni e i debiti che l’editore contrae nei confronti di quello che all’inizio è un suo ‘collaboratore’, Vincenzo Spampanato, che nel 1909 aveva pubblicato il Candelaio – terzo volume delle Opere italiane di Bruno per Laterza – adottando i criteri gentiliani, ma riscontrando sistematicamente il testo con l’editio princeps aveva preso le distanze in modo netto dall’edizione Lagarde, giudicata una riproduzione non fedele degli archetipi. Il controllo sulle prime stampe viene adottato nella seconda edizione (Spaccio de la bestia trionfante, De gli eroici furori, Cabala del cavallo pegaseo sono collazionati da Spampanato, De la causa, principio et uno da Luigi Russo e Angelo Bruschi, Cena e De l’infinito, universo e mondi da Gentile): quelle perplessità che già avevano indotto l’editore a non aderire nel 1907 totalmente alle soluzioni lagardiane lo portano negli anni Venti ad abbandonare la mediazione del testo paradiplomatico per risalire direttamente all’archetipo a stampa.
Bisogna però chiarire un punto: per quanto la seconda edizione dei dialoghi bruniani si avvalga dei lavori minuziosi ed eruditi di Spampanato e della sua perizia filologica, e per quanto questi dichiari di rifarsi ai criteri gentiliani, un impianto diverso anima l’approccio di Gentile al testo del Nolano. Alcune scelte, che portano a preferire la medesima soluzione, vengono infatti assunte per motivazioni strutturalmente diverse. Così per la punteggiatura: Spampanato ritiene accettabile la modificazione dei segni di punteggiatura del Candelaio, usandoli come strumenti di interpretazione del testo; Gentile, invece, interviene «pel principio, che è a base della mia edizione» (Prefazione 1907, p. XX), soprattutto per agevolare ai moderni la lettura delle opere. Per quanto riguarda la grafia arcaizzante, Bruno secondo Spampanato «è ostile a’ cambiamenti, è conservatore»; come Lucrezio, è linguisticamente inattuale e diffida delle novità anche perché sono suggerite da coloro che egli disprezza (V. Spampanato, introduzione a G. Bruno, Candelaio, 1909, p. LV). Per Gentile, invece, il Nolano ha voluto esplicitamente discostarsi dalle indicazioni dei grammatici dell’epoca i quali volevano rendere conformi grafia e pronuncia: andare contro l’uso, osserva Gentile, sembrava al filosofo pedanteria. Quello che Spampanato alla fine considera come un fatto, un impeto naturale che porta Bruno a seguire «una grammatica schiettamente arcaica e popolare» (p. LVI) sia nella commedia sia nei dialoghi, per Gentile si presenta come una sfida per ripensare il criterio della fedeltà all’autore, inteso come aderenza totale alle ‘intenzioni’ del filosofo, non al supporto materiale che riproduce – con inevitabili incrostazioni storicamente determinate – il suo pensiero: la fedeltà, insomma, si applica allo spirito, non al documento. L’edizione dei dialoghi italiani non è dunque il risultato dell’applicazione meccanica di un metodo, ma il punto d’arrivo di un ragionamento filosoficamente fondato sul modo di pubblicare i testi.
Pur consapevole del livello interpretativo di Spampanato e della sua spiccata indole erudita, Gentile insiste con Croce affinché l’edizione del Candelaio – in cui il curatore «ha fatto un lavoro d’illustrazione immenso» – venga pubblicata da Laterza perché, come spiega, «mi piacerebbe che tutte le opere italiane di B. fossero ristampate col metodo mio» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., p. 154). Ma credo si possa aggiungere altro: Gentile riconosce nella fitta trama di notizie tessuta da Spampanato quel materiale necessario per la corretta interpretazione della figura del Nolano. Già Francesco Fiorentino ebbe a scrivere che «il Bruno non è stato ancora studiato in relazione alla coltura del suo tempo, segnatamente alla coltura napoletana» in cui si formò e crebbe. Eppure è solo dalla conoscenza di quell’ambiente che il filosofo si portò sempre impresso nell’animo che può derivare la comprensione della sua figura «in tutta la pienezza de’ particolari» (F. Fiorentino, Studi e ritratti della rinascenza, a cura della figlia Luisa, 1911, p. 347). Gentile non si è mai dimenticato della lezione di Fiorentino (autore di un saggio sulla fanciullezza di Bruno e di ricerche storiche sui personaggi dello Spaccio) e a sua volta, quando si trova a recensire alcuni scritti dedicati al Nolano, predilige quelli biografici, da McIntyre a Spampanato; inoltre, anche quando si sofferma su ricostruzioni come quelle svolte da Erminio Troilo o Jean-Roger Charbonnel è verso la rilettura della vita di Bruno che dirige prevalentemente la sua attenzione.
Questa importanza attribuita al dato biografico è riscontrabile in modo evidente nel primo e più importante saggio sulla filosofia bruniana, pubblicato nel 1907 con il titolo Giordano Bruno nella storia della cultura: in quelle pagine agisce chiaramente l’intreccio strutturale fra biografia e momento speculativo. Lo scritto nasce come «correttivo delle falsificazioni bruniane alle recenti dimostrazioni politiche» (G. Gentile, Lettere a Benedetto Croce, 3° vol., cit., p. 49) e si lega simbolicamente all’ultimo intervento sul filosofo risalente al 1928 (Brunofobia, ipocrisia e altre cose), quando Gentile si scaglia contro quei fascisti che, in nome di un ipocrita sentimento religioso e politico, distruggono le statue e le lapidi dedicate al Nolano per far posto a quelle dei santi: si può non essere anticlericali, osserva Gentile, senza essere clericali. Quello del 1907 è il testo di una conferenza per gli insegnanti delle scuole medie tenuta a Palermo il 20 marzo, con cui l’autore intende esplicitamente riparare alla grave assenza di celebrazioni nelle scuole per il terzo anniversario della morte di Bruno. Il motivo è di grande attualità: Gentile avverte che è giunto il momento di sottrarre il filosofo all’immagine consunta di vittima dell’intolleranza religiosa e vessillo degli anticlericali, per riconsiderare su rinnovate basi storiche il filosofo martire del Rinascimento. Nell’“Avvertenza” chiarisce però che il libro «non vuol essere né una biografia, né un’esposizione del pensiero di Giordano Bruno» (in G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, 4a ed. accresciuta e riordinata, 1968, p. XI), ma una riflessione sul rapporto esistente fra la concezione religiosa del filosofo e le vicende che lo hanno condotto alla morte.
In otto capitoletti, nell’edizione originale provvisti di titolo, Gentile rivendica l’autonomia della posizione filosofica del Nolano, valorizzandone da una parte l’unità spirituale, dall’altra considerandolo come il pensatore che porta a compimento il pensiero rinascimentale. Attraverso una riflessione storiografica fortemente intrecciata alla prospettiva neoidealistica che sta sviluppando in questi stessi anni – da un lato la teoria del circolo della filosofia e della storia della filosofia, dall’altro le riflessioni sul modernismo – Gentile sottolinea l’importanza attribuita da Bruno alla religione, intesa non nel suo aspetto pratico, ma in quello teoretico e speculativo. Il Nolano infatti intende la sua filosofia come amore dell’eterno e del divino, cui si approssima con un processo rigorosamente razionale. Insistendo sul peculiare carattere della filosofia del Nolano, che non sfocia nell’estasi immediata, Gentile ribadisce che il suo obiettivo finale consiste in quell’unione con Dio ottenuta attraverso il discorso intellettuale descritto nei Furori: lungi dal prospettare una deriva atea, il razionalismo bruniano coinvolge dunque l’ambito religioso, collocandosi però a un livello che non è quello storico e contingente, ma che mira a «un segno che è fuori di tutti gli umani consorzi» (p. 261).
Svolgendo il suo ragionamento, Gentile si oppone pertanto sia a coloro che giudicano Bruno un filosofo ateo e libero pensatore, sia a coloro che fraintendono la genuflessione davanti agli inquisitori di Venezia: ai fautori cioè della ‘brunomania’ e a quegli studiosi che, come Fiorentino, sono rimasti sbigottiti alla lettura degli atti processuali veneti. Bruno ha inteso la verità della filosofia «solo per la filosofia», per quei pochi sapienti in grado di accoglierla, mentre le religioni storicamente determinate si indirizzano al mantenimento del consorzio civile. «Faurire le religioni» rappresenta un principio cardine del pensiero del Nolano, «pel quale non c’è legge, ossia non c’è Stato, senza religione» (p. 266). Lungi dal negare il divino, Bruno ne ha negato la trascendenza e ha negato, in ambito civile, la separazione della legge statale dalla religione.
Ma va fatta una distinzione: l’immanenza divina comporta per il filosofo l’identità di libertà e necessità, cioè la legge in sé, mentre il governo del popolo richiede la legge positiva. Il razionalismo bruniano impone dunque la distinzione fra la religione dei contemplativi – la filosofia – e la religione delle genti, fra il governo del filosofo e quello del popolo. Se il progresso della cultura e della filosofia erode la distanza fra le due prospettive, esso è infinito e, come scrive Gentile, «non ha mai termine» (p. 268): per questo, le religioni non cederanno mai del tutto il terreno alla filosofia, che rappresenta un momento ideale dello spirito. Insistendo sul lentissimo realizzarsi dell’umanità attraverso il progresso verso la filosofia, Gentile inserisce la riflessione bruniana all’interno di una prospettiva in cui essa diviene una tappa significativa di questo progresso come espressione della conclusione del Rinascimento: quella nolana è una filosofia dell’immanenza, ma non priva di residui di trascendenza; la religione rimane sacra e inviolabile nel suo terreno, che è quello dei fini sociali. Bruno non può negare la religione, che da una parte risponde a una domanda pratica che nessuna filosofia naturalistica può soddisfare, dall’altra rappresenta quel limite che la filosofia non può non riconoscere di fronte a sé, rivestendo – postilla Gentile – lo stesso ruolo di concetto limite del noumeno kantiano.
Da questa consapevolezza teorica deriverebbero sia l’adesione al calvinismo a Ginevra e l’elogio di Lutero a Wittenberg sia la genuflessione a Venezia. Cogliendo, come poi Tommaso Campanella, l’aspetto di verità delle religioni e la loro equivalenza storica, Bruno ne valorizza e asseconda l’interesse pratico: egli aveva affermato, «con le sue dottrine filosofiche», che «nel terreno religioso (e perciò sociale, pratico) i dommi dovevano prevalere sulle dottrine» (p. 280). A Venezia i giudici, non mettendo in discussione i principi della sua filosofia, non obbligano Bruno a difenderla contro i dogmi e il filosofo si comporta in laguna come Socrate ad Atene, il quale pur potendo fuggire preferisce rispettare le leggi della sua città. Di fronte alle accuse di Giovanni Mocenigo (1558-1623), tratte da conversazioni private, la genuflessione veneziana diventa dunque l’espressione più elevata della coerenza pratica del Bruno filosofo, non un momento di cedimento; mentre l’ostinazione romana si spiega con le censure attirate dai libri, ormai giunti nelle mani degli inquisitori. Bruno anche a Roma mantiene la sua posizione, ricordando ai giudici di non aver proferito proposizioni eretiche, ciò che si legge nelle sue opere essendo scritto per i filosofi, non per i teologi. Il rifiuto netto opposto dal filosofo a ogni ritrattazione non significa disobbedienza alla legge, ma denuncia dell’indebita intromissione operata dai giudici che pretendono di unire quello che Bruno aveva inteso separato: da una parte le dottrine razionali, dall’altra gli insegnamenti soprannaturali. Per questi motivi, Gentile ritiene falso e insensato il contrasto intorno alla figura del Nolano accesosi al cadere dell’Ottocento fra clericali e liberi pensatori: Bruno, infatti, si colloca su altro terreno rispetto a quello dei «partiti pratici», perché non è ateo, in quanto non nega il divino – semmai la sua trascendenza – e perché nello stesso tempo non è ‘clericale’ – semmai convinto che non ci sia legge se non assoluta «e che non sia quindi religione» (p. 267).
Gentile interpreta attraverso una dinamica teoretica il rapporto fra Dio e natura, la distinzione bruniana tra sfera della fede e sfera della filosofia. In un primo momento, per illustrare la diversa valenza ‘civile’ dei due ambiti, richiama un passo del De l’infinito in cui Bruno afferma di lodare i teologi che si oppongono, perché perniciosa per il popolo, alla divulgazione del sillogismo in base al quale dall’infinita potenza di Dio deriva la negazione della libertà del volere; successivamente fa ricorso al De la causa, dove viene spiegato che c’è una contemplazione superiore a quella della filosofia perché esiste una divinità fuori del mondo (mens super omnia), mentre l’oggetto della filosofia è la natura (mens insita omnibus). La prima contemplazione, pur essendo superiore, per chi non crede è impossibile e inefficace: è un atto di fede, non un atto dell’uomo e per la sua realizzazione si rende necessario un lume soprannaturale di cui sono privi tutti quelli che – come Bruno – non cercano la divinità fuori della natura, ma dentro a questa. Il Nolano – argomenta Gentile –, riconoscendo la distinzione fra le due mentes e sostenendo che la prima non è l’oggetto della sua ricerca filosofica, vuole dimostrare da una parte che la dimensione naturale non è contraddittoria rispetto a quella divina, dall’altra che la sua conoscenza si può ottenere solo attraverso la ricerca filosofica, non attraverso la fede. Il mondo soprannaturale dunque esiste, si può conoscere attraverso un’apertura divina; ma il Nolano rifiuta questa verità rivelata per volgersi a quella attingibile attraverso l’immanenza con la luce della ragione. Per questo, scrive Gentile, Bruno dice «non credo ut intelligam» (p. 293), modulando una delle tante versioni dell’averroismo, cioè della dottrina della doppia verità, di quella duplicità che per Bruno non implica affatto una negazione della sfera della fede, ma una concezione della filosofia come contemplazione della realtà della natura non contrapposta a un’esperienza di fede.
Prendendo le distanze dalla posizione di Fiorentino, che negava in Bruno due coscienze, una religiosa e una filosofica, Gentile distingue nettamente il piano pratico della riflessione bruniana (da cui deriva l’accettazione della dimensione civile della religione istituita in rapporto allo Stato) dal piano teoretico (da cui discende la netta divaricazione fra esperienza filosofica ed esperienza di fede): all’una e all’altra posizione il Nolano rimarrà sempre fedele e da tale duplice fedeltà sono determinati i comportamenti del filosofo. Per Gentile, insomma, la complessa e articolata radice filosofica bruniana unifica e rende conto di tutte le pieghe biografiche, anche delle più scabrose.
In questa prospettiva viene infatti illustrato anche il significato della morte del Nolano, che pur distruggendo il modo antico di considerare il mondo naturale non ha la forza di negare un Dio fuori da esso: in questo residuo di trascendenza Gentile individua, come già Spaventa, il caput mortuum della filosofia bruniana e il limite stesso del Rinascimento. In quell’epoca – ragiona Gentile – non si giunge pienamente alla concezione immanentistica, all’identificazione della storia dell’umanità con le vicende dello spirito. Il martirio di Bruno rappresenta la correzione liberatrice della sua filosofia: il filosofo è fermo nel sostenere la libertà della scienza e nel protestare che la filosofia non può essere eretica né essere giudicata dalla Chiesa, ma questa nuova concezione filosofica non può sussistere senza il venir meno della vecchia intuizione della presenza di una trascendenza che impedisce lo sviluppo stesso del processo della filosofia e che il Nolano non è in grado di negare. In questo nodo problematico si concentrano i risultati del suo filosofare e si configura tutta la sua grandezza storica: la morte tragica di Bruno mette in luce in modo drammatico questa contraddizione insita nella sua filosofia, per cui se ci deve essere una legge il cui vigore si realizzi con la punizione di chi la infrange, se una legge non può esserci senza la garanzia di una religione, se questa religione è combattuta da una filosofia che ne fa comparire assurdi i dogmi, non è possibile evitare la condanna dell’autore di tale filosofia, che infrange la legge minandone i fondamenti. Bruno, perennemente in bilico fra rivendicazione dell’autonomia della filosofia e accettazione della religione come valore assoluto, non riesce, secondo Gentile, a comprendere le ragioni di chi lo condanna: per questo è il martire della scienza, non il martire della Chiesa. Rimanendo ostinatamente fermo nelle sue posizioni, rivendica con forza l’autonomia del pensiero e senza quell’ostinazione «la figura di Bruno non avrebbe tutto il significato che ha nella storia della cultura» (p. 308).
L’originalità che subito caratterizza l’impostazione di Gentile consiste nel collegare la riflessione sulla religione alle scelte personali di Bruno, distanziandosi sia da Spaventa, che aveva declinato il tema in una prospettiva specificamente gnoseologica, sia da Fiorentino che, per difendere l’immagine di Bruno martire, si era spinto in una lettura avventurosa degli atti processuali veneti, negando loro fede e negando pertanto valore anche alla ritrattazione compiuta dal filosofo davanti al collegio giudicante. Per Gentile i comportamenti di Bruno non sono comprensibili facendo riferimento solo a un dato caratteriale, come intese Fiorentino: è il nucleo teorico della sua filosofia che lo conduce ad assumere atteggiamenti diversi a Venezia e a Roma. Gentile ha svolto le sue indagini con lo scopo di mettere in evidenza il momento unitario della filosofia – e della vita – bruniana: anche per questo si discosta da Spaventa, il quale con acutezza ha colto quello che chiama «il segreto di Bruno», cioè la negazione del Dio astratto puramente estramondano dei teologi, ma non è stato capace di considerare quanto quel caput mortuum, ritenuto ormai inutilizzabile, continui invece ad agire nella filosofia del Nolano (cfr. B. Spaventa, Scritti sul Rinascimento (1852-1872), a cura di G. Landolfi Petrone, 2011, pp. 189-90). Per Gentile, infatti, la mens super omnia, il Dio soprannaturale ha un’importanza grandissima rispetto al rapporto che egli intende tra filosofia e religione e su questo insiste ogni volta che gli si presenta l’occasione: la filosofia dell’immanenza bruniana – scrive, per es., nel 1910 in una recensione – non è priva di residui di trascendenza, di quel limite insormontabile al di là del quale vi è anche «la ragione d’essere della vita umana, che è pure la sorgente della fede religiosa» (in G. Gentile, Studi sul Rinascimento, 3a ed. riv. e accresciuta, 1968, p. 155). L’abile e ammirata ricostruzione spaventiana, seppure capace di «sbozzare con pochi tratti da maestro il carattere morale» del filosofo, rimane forse ancora troppo succinta, troppo legata alla storia dello spirito filosofico e poco incline a considerare «i filosofi diversi con le loro rispettive biografie connesse con le cangianti condizioni della civiltà, in mezzo a cui essi si formarono» (G. Gentile, prefazione a B. Spaventa, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, a cura di G. Gentile, 19263, pp. XVIII-XIX). La biografia di Bruno e il suo segreto rivestono invece per Gentile un ruolo importante come origine del più profondo motivo della sua filosofia.
Ma Gentile si allontana anche dall’esito della riflessione di Tocco che, in una monografia dedicata al Nolano del 1886, si era confrontato con le due fasi processuali, veneta e romana, individuando le due verità da cui derivano la contemplazione e la filosofia e aveva distinto i comportamenti tenuti a Venezia e a Roma, senza riuscire però a cogliere quell’unità di pensiero e vita cui invece mira Gentile. Il limite della ricerca di Tocco viene ribadito nel saggio dedicato a Le fasi della filosofia bruniana (1912), nato come recensione di La filosofia di Giordano Bruno e la interpretazione di Felice Tocco (1911) di Rodolfo Mondolfo, dove Gentile insiste sulla mancanza di comprensione dell’unità concettuale della nolana filosofia da parte sia di Tocco, sia di Mondolfo. In modo particolare, a proposito del metodo del suo maestro, di cui tratteggia un ritratto commosso, Gentile denuncia il vizio ‘meccanicistico’ che lo mina: il censimento delle fonti, per es., per individuare ‘fasi’ nella filosofia bruniana (neoplatonica, monistica, atomistica) non può cogliere il ritmo del suo svolgimento; al contrario, ha come esito «una giustapposizione, resa possibile dal concetto generale della possibilità di risolvere tutta quanta la filosofia bruniana nella somma degli elementi che vi confluirono» (G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., p. 321). Il metodo ‘filologico’ di Tocco lo induce a lavorare sulle parti costitutive di un sistema, ma non gli permette di vederne l’organicità: sminuzzando e sezionando il testo e il documento, rimangono frammenti di cui non si riesce a ricostruire l’unità perché «gli alberi non […] lascian vedere la foresta» (p. 315). Eppure a Tocco, come a Fiorentino, Gentile è sempre rimasto apertamente debitore: la loro eredità si innesta in modo proficuo con quella spaventiana, che Gentile ancora una volta ripensa originalmente, come in occasione della redazione del saggio Veritas filia temporis, dove indaga con sottile acutezza la circolazione di un’idea espressa per la prima volta da Bruno nel primo dialogo della Cena, dove Teofilo magnificando la novità del pensiero del Nolano afferma, contro le osservazioni del pedante Prudenzio, che noi siamo gli antichi rispetto ai nostri predecessori, i quali rappresentano la gioventù del mondo e non sono la fonte della sapienza. Siamo di fronte, per Gentile, alla scoperta dell’attività progressiva dello spirito nella storia, al nesso che lega lo sviluppo della scienza e della mente che la realizza. Si tratta dell’«attualità dello spirito nel suo svolgimento», della concretezza dello spirito che crea la sua vita e se stesso nei singoli uomini, perché esso «non è la mente, quale si trova […] in tutti gli uomini, né la mente in sé, fuori delle sue condizioni determinate nel mondo» (p. 338). Gentile, incentrando l’interpretazione sul passo della Cena, crede di poter leggere tutto il pensiero bruniano come espressione di questa progressività spirituale e per meglio metterne in luce l’eccezionale formulazione indaga minutamente luoghi apparentemente analoghi di altri autori, da Campanella a Francis Bacon, da Nicolas Malebranche a Blaise Pascal. In questo breve ma denso schizzo di storia della querelle degli antichi e dei moderni costruisce una bella pagina di quella che chiama storia della cultura, distinta dalla storia speculativa di Spaventa. Questi, infatti, riconoscendo nei filosofi rinascimentali gli incunaboli dei concetti che si trovano poi in René Descartes, Baruch Spinoza, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, ha lasciato da parte ogni ricerca non riguardante quei temi che, nati prima in Italia, si diffusero e trovarono poi forma sistematica fuori di essa. Il lavoro spaventiano non si concentra sugli influssi che l’atteggiamento concettuale da cui quei problemi germinavano ha determinato in tutte le manifestazioni spirituali, anche in quelle meno originali, ma pur sempre esprimenti le tendenze del loro tempo. Che è quanto compie invece Gentile nel saggio sulla Veritas filia temporis raffrontando le pagine bruniane con quelle di altri autori in cui, pur ravvisando idee simili, non trova una traccia lineare di sviluppo. Preferisce così mettere in luce torsioni e variazioni di un tema che fra 16° e 17° sec. ha avuto grande diffusione nella cultura europea, sottolineandone la prevalente declinazione antistorica incardinata nella convinzione della sostanziale immutabilità della natura umana e ribadendo, per contrasto, la solitudine di Bruno che «in tutto il Rinascimento, per la sua intuizione della storicità dello spirito, è una voce isolata» (p. 354).
N. Badaloni, La filosofia di Giordano Bruno, Firenze 1955.
E. Garin, nota introduttiva a G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, in Id., Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, 1° vol., Firenze 1969, pp. 219-22.
U. Spirito, Giovanni Gentile e la concezione dell’Umanesimo, «Giornale critico della filosofia italiana», 1976, 65, pp. 1-11.
A. Corsano, Giovanni Gentile e gli studi bruniani, in Il pensiero di Giovanni Gentile, Atti del Convegno, Roma 1975, a cura di S. Betti, F. Rovigatti, 1° vol., Roma 1977, pp. 267-70.
S. Romano, Giovanni Gentile, Milano 1990 (in partic. il cap. “Bruno: la morte come ‘atto puro’”, pp. 112-18).
E. Garin, introduzione a G. Gentile, Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, Firenze 1991, pp. VII-XXV.
C. Vasoli, Gentile e la filosofia del Rinascimento, in Croce e Gentile fra tradizione nazionale e filosofia europea, a cura di M. Ciliberto, Roma 1993, pp. 287-307.
G. Sasso, La questione del Rinascimento, in Id., Le due Italie di Giovanni Gentile, Bologna 1998, pp. 95-146.
M. Ciliberto, N. Tirinnanzi, Il dialogo recitato. Per una nuova edizione del Bruno volgare, Firenze 2002 (in partic. il cap. “Il canone Gentile”, pp. 15-29).
A. Scazzola, Giovanni Gentile e il Rinascimento, Napoli 2002.
D. Spanio, Gentile, Roma 2011.
A. Musci, Gentile Giovanni, in Giordano Bruno. Parole concetti immagini, a cura di M. Ciliberto, 1° vol., Pisa 2014, ad vocem.