Gentile dal Discorso agli italiani alla morte
Quale punto di riferimento costituisse Giovanni Gentile per la cultura italiana ‒ in primo luogo per la cultura italiana che si poneva in posizione critica nei confronti del fascismo ‒ può ricavarsi, in modo semplice e immediato, dalla parola stessa dei giovani e meno giovani intellettuali e accademici. Essa giunge assidua, ancora pochi mesi prima del discorso in Campidoglio (24 giugno 1943) e della caduta di Benito Mussolini (25 luglio), all’infaticabile filosofo sotto forma di un consistente flusso di lettere: in un’epoca in cui l’epistolografia è, per la gioia dello storico, un genere fiorente. Farò solo qualche esempio, tra i tanti possibili.
Eccellenza,
La sezione lombarda dell’Istituto di Studi filosofici terrà nell’anno venturo un ciclo di conferenze sull’argomento speciale ‘Problemi del pensiero contemporaneo’. Io Vi vorrei pregare, anche a nome di tutti i componenti il comitato direttivo, di inaugurare Voi un tale ciclo, con una conferenza sul ‘Problema della filosofia’ o su qualunque altro tema Voi troviate più conveniente. L’inaugurazione dovrebbe aver luogo o nella seconda quindicina di novembre o nella prima di dicembre.
So di quanti pensieri e di quanto lavoro Voi siate gravato, so di chiedervi un sacrificio, piccolo però rispetto al grande piacere che fareste a noi. E vorrei anche che Voi pensaste quanto opportuno è che in un ciclo che comprenderà studiosi di varie discipline, in una città come la nostra, la voce schietta, libera, autorevole di un filosofo, che crede e combatte per i diritti della ragione e della cultura, si faccia sentire come ammonimento e come guida. Mettete anche sulla bilancia, per quel tanto che vale, la mia preghiera personale, la preghiera di una persona che Voi sapete quanto indipendente e schietta e perciò appunto quanto cordialmente devota.
E credetemi Vostro affezionatissimo Antonio Banfi (lettera a Gentile, 7 giugno 1942, Fondazione Gentile, serie 1: Corrispondenza, 1882-1945, fascicolo Banfi Antonio).
Carissimo Professore,
degli amici mi avvertono che quella stupida frottola su Croce e su me, di cui mi riferiva Fortunato, è stata messa in giro da quel criminale di Muscetta. Interroghi in proposito Luigi Volpicelli.
Scrivo anche a Croce a Arcore. Egli nella sua inguaribile ingenuità mi accennava in una sua cartolina che voleva parlarmi di Muscetta, naturalmente per impietosirmi! Mi abbia Suo L. Russo
Io Le avevo scritto dal Forte per quelle fanfaluche che il Muscetta va diffondendo sul mio conto. Ripensandoci a mente calma e nella rinforzata serenità familiare ho sentito, criminalità a parte, il ridicolo di quelle dicerie. Federico poi mi ha detto il resto, che anche Adolfo [Omodeo] è nella lista: addirittura come capo (Luigi Russo a Gentile, 2 e 9 ott. 1942, Fondazione Gentile, serie 1: Corrispondenza, 1882-1945, fascicolo Russo Luigi).
Se non ci legasse tale dovere [il legato di Sabbadini alla facoltà di Lettere di Padova] ci sarebbe gradito accogliere il Suo invito, non solo per l’Autorità da cui proviene, ma anche per codesto Suo fermissimo amore verso quella scuola pisana per opera Sua fiorente come non fu mai. Voglia gradire i migliori saluti del Suo devotissimo Concetto Marchesi (lettera a Gentile, 11 genn. 1939, a proposito della richiesta di Gentile di ottenere la Biblioteca di Remigio Sabbadini per la Scuola Normale di Pisa, Fondazione Gentile, serie 1: Corrispondenza, 1882-1945).
Come perviene Gentile alla scelta di impegnarsi daccapo direttamente nell’attività politica? Da anni egli era concentrato sul ‘lavoro culturale’: per un verso, ovviamente, l’insegnamento all’Università di Roma, dove aveva grande successo come docente e grandi meriti nel potenziamento dell’Istituto di filosofia; per l’altro, la direzione dell’Enciclopedia Italiana, l’attività editoriale della Sansoni, e, fiore all’occhiello, la direzione della Scuola Normale di Pisa. Dal Concordato in avanti la sua posizione rispetto ai vertici del regime ha sempre più una sua propria fisionomia, che in alcuni casi si manifesta in modi che inquietano i ‘cani da guardia’ del regime: gestione dell’Enciclopedia (Gaetano De Sanctis, Giorgio Levi Della Vida, Rodolfo Mondolfo non sono certo collaboratori ben visti dal regime; Marchesi si era tirato indietro, ma era stato invitato), gestione della Scuola Normale (caso clamoroso Guido Calogero).
Quando la guerra, all’inizio del 1943, comincia ad andare di male in peggio e l’eventualità di uno sbarco anglo-americano in Sicilia si fa concreta, il regime comincia a franare. L’8 maggio cadono Tunisi e Biserta, i bombardamenti su Palermo fiaccano il morale già in crisi dell’opinione pubblica. Si tenta una ripresa di cui dovrebbe essere segnale il cambio del segretario del partito. Carlo Scorza ne prende le redini e Gentile, che ne ha parlato con Mussolini, rassicura Ranuccio Bianchi Bandinelli: il nuovo segretario «rimetterà le cose a posto» (Turi 1995, 2006, p. 542). Si tenta di mobilitare gli intellettuali con un ciclo di conferenze da tenere a Napoli, Roma, Milano dal titolo Ragioni storiche, morali e giuridiche della nostra guerra. Si vorrebbe anche la partecipazione di personalità non fasciste come Benedetto Croce, che però respinge la richiesta (cfr. De Felice 1990, p. 1039 e nota 1). Il proposito era quello di superare la divisione sempre più profonda del Paese in nome della salvezza nazionale da considerarsi obiettivo comune e tale da trascendere le divisioni politiche. Ancora una volta Mussolini (per il tramite del nuovo segretario Scorza) imita l’esperienza sovietica (appello di Stalin, nel giugno 1941, che coinvolse anche la Chiesa allentando la campagna antireligiosa) senza riuscire però a capire le differenze: non solo strutturali tra i due regimi, ma anche tra le due guerre, quella difensiva dell’Unione Sovietica contro un attacco proditorio e quella del fascismo incominciata come aggressione alla Francia, alla Grecia, all’Egitto e ridotta ora in una inevitabilmente soccombente difensiva.
Croce aveva lentamente maturato la non facile decisione di dover auspicare la sconfitta del proprio Paese onde determinare il crollo del regime. Qualche mese più tardi, al congresso dei Comitati di liberazione nazionale (CLN) tenutosi a Bari il 28 gennaio 1944, Croce disse, riferendosi proprio a tale scelta, di aver man mano compreso «che la presente guerra non era una guerra tra popoli ma una guerra civile; e più esattamente ancora che non era una semplice guerra di interessi politici ed economici, ma una guerra di religione», e proseguì osservando che dunque «la nostra religione, che aveva il diritto di comandarci», lo aveva indotto al «distacco dalla brama di una vittoria italiana, di una vittoria che sarebbe stata non solo la rovina del restante mondo ma quella dell’Italia stessa, resa schiava dalla Germania», di una Germania – precisava – resa a sua volta schiava di una «frazione di prepotenti». Il problema di auspicare la sconfitta dell’Italia si era presentato al suo animo in modo tormentoso. Perciò – rievoca ancora nello stesso discorso – ai combattenti italiani che gli chiedevano come comportarsi egli aveva sempre raccomandato «di fare unicamente il loro dovere militare per la propria dignità, per imporre il rispetto agli avversari» mentre, nello stesso tempo, riconosceva di aver «ricercato ansioso» il progresso delle armi «non già del cosiddetto asse», ma degli alleati e della Russia.
In un tale stato d’animo confuso e a rigore contraddittorio, non era certo stato possibile, per Croce, accettare l’invito di Scorza.
Alla fine ad accogliere l’invito del nuovo segretario del Partito nazionale fascista (PNF) fu soltanto Gentile. Ed è così che, superato anche un periodo di disagio fisico, Gentile preparò e pronunziò il 24 giugno 1943 il Discorso agli italiani, detto anche, per il luogo in cui fu pronunciato, Discorso del Campidoglio.
Rievoca il figlio Benedetto nell’importante volume biografico: «mio Padre uscì dal silenzio in cui si era chiuso da mesi, anzi da anni, e fu il solo, tra i tanti ai quali lo stesso invito pervenne, a non trarsi indietro» (Gentile 1951, p. 16). E segnala anche il clima: «Questo suo discorso fu pronunziato malgrado le molte e gravi minacce di morte che gli pervennero nei giorni precedenti e che allarmarono seriamente anche le autorità di polizia» (p. 17).
Vediamo dunque quali furono i temi centrali del Discorso agli italiani. Si può dire che il discorso ha due ‘centri’: la situazione bellica e la situazione politica. Già questo merita attenzione. Il compito affidato all’oratore era quello di risollevare il morale del Paese profondamente scosso dai bombardamenti anglo-americani sulle città italiane e dall’imminente crollo della Sicilia, primo obiettivo dell’avanzata alleata. Gentile invece volle toccare, in profondità, la questione politica. E lo fece prendendo di petto la «pseudolibertà» del regime parlamentare (p. 69) e offrendo invece una larga apertura ai comunisti, definiti «corporativisti impazienti» (pp. 71-72). Bersaglio polemico è anche chi va dicendo «questa non è la mia guerra» (p. 76). La polemica contro il vecchio regime liberale-parlamentare è molto netta e in certo senso scontata: «[Mussolini ha pronunziato il de profundis] di quella bastarda tirannica libertà che era la libertà del regime parlamentare [...] una pseudolibertà che veniva sotterrata per sempre» (p. 69); «Il parlamentarismo è morto in Italia» e anche i comunisti – soggiunge – «bisogna che ne sappiano grado a Mussolini» (p. 71); «Noi, che non siamo di ieri, abbiamo viva nella memoria la cronaca della corruttela parlamentare che venne inchiodando il nostro paese dal ’76 in poi alla croce di un sistema dissolvitore di ogni schietto spirito politico», giudizio cui segue l’invito a leggere Un viaggio elettorale (1876) di Francesco De Sanctis come «documento della morta gora del politicantismo elettoralistico»; «quel liberalismo non è morto soltanto in Italia»;
Gli Stati che si dicono democratici [...] hanno trovato il modo di rintuzzare ogni velleità liberalesca individualistica con la forza stritolatrice dei raggruppamenti economici. La libertà in cotesti Paesi è a terra (p. 71).
L’alternativa è la via corporativa; e qui dilata l’osservazione su di un orizzonte internazionale: «Tutti i popoli, si può dire, si orientano ormai verso questo ideale dello Stato corporativo, che è in cammino [e] che oggi è appena al suo inizio» (p. 71). E qui l’apertura ai «comunisti», già evocati nei capoversi precedenti, si fa più profonda e incalzante:
tornare indietro non è possibile. Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente delle more necessarie di sviluppo di una idea che è la correzione tempestiva dell’utopia comunista e l’affermazione più logica e perciò più vera di quello che si può attendere dal comunismo (p. 72).
Lo svolgimento dedicato al corporativismo come alternativa al capitalismo è molto ampio ed è il presupposto su cui si basa la formulazione, a suo modo felice, sui comunisti come «corporativisti impazienti». Seguono ovviamente considerazioni più contingenti come, per es., l’aspra critica alla guerra aerea (p. 75: «sport aviatorio») degli anglo-americani contro la popolazione civile. Né l’oratore esclude che la guerra possa concludersi con la sconfitta che comunque – ritiene Gentile – si convertirebbe in vittoria politica (p. 79).
Sorgono alcune domande. Come si spiegano alcune scelte di linea politica che stanno alla base di questo discorso? Proprio mentre il nuovo segretario del PNF mette la sordina alla polemica «anti-borghese» e dà la direttiva di smorzare i toni «rivoluzionari» del fascismo (De Felice 1990, p. 1038), Gentile martella duramente sul parlamentarismo, sul sistema liberale e la sua «pseudolibertà», e accentua il carattere anticapitalistico del corporativismo indicato come terreno comune di una possibile intesa con i comunisti. Aggiungiamo anche una singolarità per lo più sfuggita agli interpreti: là dove tratta della situazione militare, lascia intendere abbastanza chiaramente che ci sono divisioni non solo nello schieramento nemico (la «Carta atlantica» finirà «in fondo allo stesso Atlantico»), ma anche nell’Asse: «Ognuna delle due parti in contrasto – così si esprime – è complessa e risulta da una convergenza transitoria di interessi» (p. 79). Come non connettere questa ben singolare ‘rivelazione’ con gli sforzi della diplomazia segreta italiana, in giugno-luglio 1943, volti, magari convincendo i tedeschi, a una pace separata con l’Unione Sovietica? (cfr. De Felice 1970, p. 173). E anche l’apertura verso i comunisti appare, a quel punto, ancor più significativa.
Non si vuole qui fare della fantapolitica; si vuole soltanto osservare che Gentile difficilmente si sarebbe avventurato, in modo solitario e senza un qualche avallo autorevole (aveva incontrato Mussolini qualche tempo prima del 24 giugno), su di un terreno così delicato. È ovvio che proprio il rilievo enorme dato al Discorso e la circostanza in cui fu tenuto fanno ben comprendere che le parole dell’oratore non erano dette con leggerezza autoreferenziale, e che – sapendosi controllato passo passo dai servizi tedeschi – Mussolini può ben aver scelto di far dire alcune significative formulazioni al filosofo (chiamato a rincuorare il Paese stremato e allarmato e perciò autorizzato a una peculiare libertà di linguaggio).
Della genesi e degli obiettivi del Discorso si possono tentare molte interpretazioni, il che in assenza di documenti espliciti può apparire azzardato. Sta di fatto che il centro concettuale di esso, al di là dell’ovvio obiettivo di preparare gli animi degli ascoltatori anche all’eventualità di una sconfitta militare, è l’appello ai comunisti. Si impone perciò, a questo punto, anche il raffronto con la posizione scelta da Croce pochi mesi prima – e a Gentile certamente nota – con l’attacco ai comunisti che appare inizialmente sulla «Critica» il 20 marzo 1943, Per la storia del comunismo in quanto realtà politica (41, pp. 100-08), poi ripreso come opuscolo nelle settimane successive, corredato dall’appendice indirizzata a combattere anche il progetto (sia azionista sia corporativo) di ‘terza via’ tra capitalismo e collettivismo.
Gentile ha di certo presenti quegli scritti di Croce giacché vi allude non soltanto assumendo un diverso atteggiamento nei confronti dei «comunisti» (la cui esistenza Croce ritiene di vanificare dimostrando, alla don Ferrante, che essi non hanno «subbietto» né come storia né come filosofia!), ma anche là dove identifica, in contrasto con la distinzione crociana ribadita nello scrittarello La terza via, «liberismo» economico e «liberalismo» (p. 110).
Entrambi dunque fanno politica, nello stesso delicato momento dell’incubazione della crisi di regime che sfocerà nel 25 luglio: Gentile aprendo una ormai tardiva prospettiva, in sé interessante per chi avesse nozione dell’appello comunista ai «fratelli in camicia nera» (agosto-settembre 1936); Croce per parte sua illudendosi di preparare il terreno a un dopo fascismo a egemonia liberale. Egemonia che egli pensava di ristabilire brandendo la liquidazione sul piano filosofico di forze destinate invece per diverse ragioni a risultare decisive nel corso della guerra di liberazione (e poi negli anni della Costituente). Si comprende dunque perché, quando, appena un anno più tardi, Croce si troverà al governo insieme con i comunisti, la propaganda della Repubblica sociale italiana (RSI) ristamperà, nelle Edizioni Erre che si allestivano a Venezia, un altro scritto anticomunista di Croce già apparso sulla «Critica» nel 1937 (35, pp. 238-40), e ristampato proprio nel 1943 nel 3° volume delle Pagine sparse, intitolato Comunismo e libertà.
Un’ultima considerazione, riguardante Gentile. Non è senza ragione che Gentile offre, come terreno comune, rivolgendosi ai comunisti, l’ipotesi corporativa. Non poteva certo conoscere le pagine di Antonio Gramsci (Quaderno 8, § 236, e Quaderno 10, § 9) che propongono il corporativismo come «rivoluzione passiva» del 20° sec. così come il liberalismo lo era stato nel 19°; ma conosce certamente il fervore sorto intorno a Ugo Spirito (la «corporazione proprietaria») nel cui milieu erano presenti giovani ormai in bilico tra ‘fascismo di sinistra’ e comunismo.
E in questo si può ben dire che egli aveva visto ben più lontano e con maggiore acume che non il suo antagonista filosofico arroccato in una difesa donferrantesca del liberalismo ‘puro’.
Al ministero della Cultura popolare (Minculpop) non si fu molto soddisfatti dei risultati del discorso in termini di riconquista del consenso. Un’inchiesta fatta realizzare dal ministero produsse un risultato non incoraggiante: secondo tale inchiesta, il discorso aveva sortito un effetto «deprimente», aveva diffuso la persuasione della «inevitabilità della sconfitta», aveva suggerito, in modo autolesionistico, il ripiegamento sulla «vittoria morale» che una probabile sconfitta avrebbe comunque comportato ecc. (De Felice 1990, p. 1039). Indubbiamente l’oratoria di Gentile non era oratoria da comizio. Oltre tutto, il discorso è molto lungo e densamente ragionato, è l’esatto contrario dell’oratoria emotiva che si ritiene adatta alla mobilitazione. Il discorso venne trasmesso anche per radio e Gentile per giunta leggeva un testo preparato per iscritto. Insomma, quasi un fallimento. Ma qui diremo delle conseguenze negative per Gentile.
Contro Gentile c’era sempre stata una fronda che partiva dall’interno del fascismo: c’era stata ai tempi ‘d’oro’ della sua grande presenza editoriale e culturale, c’era stata ininterrottamente contro la sua gestione dell’Enciclopedia Italiana, ci fu contro questa sua impegnativa uscita pubblica e ci sarà, poco dopo, a Salò per la cosiddetta – in realtà presunta – apertura di Gentile verso il governo di Pietro Badoglio. Ha scritto Benedetto Gentile che il 24 giugno 1943 – cioè il giorno del Discorso agli italiani – «segna il primo di una successione di eventi legati direttamente l’uno all’altro e che si concludono con l’assassinio perpetrato il 15 aprile 1944» (Gentile 1951, p. 17). La concatenazione è ben visibile. Quando Gentile, nei giorni badogliani, interviene presso il nuovo ministro, Leonardo Severi (già suo segretario), per caldeggiare provvedimenti necessari alla Scuola Normale di Pisa, Severi gli risponde scoprendosi inopinatamente antifascista e gli rinfaccia per l’appunto il Discorso agli italiani; dopo di che pubblica il breve carteggio intercorso con Gentile sul «Giornale d’Italia» e su «La Nazione» il 9 agosto, suscitando irritazione anche presso antifascisti come Omodeo. Tale pubblicazione – mirante a umiliare Gentile – a sua volta esporrà il filosofo agli attacchi della stampa repubblichina (da Roberto Farinacci a Ezio Maria Gray) che lo dipingerà come traditore da sempre: per aver protetto degli antifascisti nell’Enciclopedia, e per aver cercato ora i ‘favori’ di Badoglio. Dopo di che, la volontà di cancellare gli effetti di tali attacchi sarà uno dei fattori che indurranno Gentile ad accettare la nomina, propostagli personalmente da Mussolini, a presidente della Accademia d’Italia, risorta in Firenze ormai capitale culturale della RSI. Di qui il nuovo, maldestro, attivismo politico di Gentile e, infine, la sua uccisione.
Dopo l’8 settembre, contro Gentile – ritiratosi alla periferia di Firenze, a villa Montalto, sulla via del Salviatino – si era levata, sempre più insistente, la polemica della neonata Repubblica fascista. Gentile resta in disparte, reagendo raramente e comunque sempre in privato. Al principio di ottobre rifiuta una convocazione del ministero, invocando la difficoltà del viaggio, ma scrivendo a Carlo Alberto Biggini per manifestargli la propria amarezza per gli attacchi. In questa prima fase della campagna anti-Gentile a Salò un ruolo centrale spetta al «Fascio», il «settimanale del fascismo milanese».
Chi potrà mai valutare tutto il male che ha fatto al fascismo quel Gentile che doveva varare nella scuola quella stessa riforma già preparata dal suo ex degno amico Benedetto Croce? E quale fu il danno portato al fascismo da quel Gentile impegnatosi nell’impresa ebraica dell’Enciclopedia [...]? (Saper essere giovani, «Il Fascio», 15 ott. 1943).
Gentile scrive al ministro chiedendo che lo si lasci in disparte, ma un mese più tardi, mentre si sta realizzando la scelta, caldeggiata da Biggini, di ridare a Gentile un ruolo di rilievo, «Il Fascio» rincara la dose. Sembra una forma di pressione contro la scelta che non senza difficoltà Biggini sta caldeggiando.
Dopo l’incontro tra Gentile e Mussolini il 18 novembre a Gardone, incontro pazientemente preparato da Biggini, i quotidiani del 22 novembre annunciano che «il Duce, Capo dello Stato, con decreto in corso di registrazione, ha nominato Accademico d’Italia il prof. Giovanni Gentile. Con altro provvedimento il Duce ha nominato l’Eccellenza il Prof. Giovanni Gentile Presidente dell’Accademia d’Italia». Molti quotidiani pubblicano biografie di Gentile, con frequenti riferimenti al Discorso agli italiani, a riprova della sua fedeltà al fascismo. Alcuni quotidiani però ‒ come il «Regime fascista» di Farinacci e la stessa «Nazione» di Firenze ‒ si limitano a dare il puro e semplice comunicato dell’agenzia Stefani. Gentile comincia a rilasciare interviste e intanto scrive a Mussolini investendosi subito del ruolo di consigliere del principe.
Quando il 27 novembre il «Corriere della sera» annuncia che «L’Accademia d’Italia verrà trasferita a Firenze», il «Fascio» esce con un fondo redazionale intitolato cubitalmente: «GENTILE: NO». Il giornale riversa sul neopresidente gli argomenti ricorrenti nei mesi precedenti. L’imbarazzo ufficiale non è lieve, dato che ora anche da Radio Londra partono immediati e sistematici attacchi a Gentile, come quelli di Paolo Treves e di Candidus.
In risposta all’imbarazzante campagna, la stampa neofascista fabbrica una sdegnosa «lettera di Gentile a Severi», che appare in vari giornali con un identico commento. È un procedimento che irrita lo stesso Gentile, che ora sollecita un intervento di Fernando Mezzasoma, ministro della Propaganda, sui direttori dei giornali.
Intanto, intorno a Gentile si fa il vuoto. Egli ha assunto anche la direzione della «Nuova Antologia», chiedendo a Mezzasoma l’autorizzazione a servirsi «anche di collaboratori non fascisti, purché sinceramente e lealmente italiani», ma ancora a febbraio non si trova un redattore capo dopo la défaillance di Antonio Baldini, Emilio Cecchi, Fortunato Pintor e Roberto Ridolfi. E quanto ad accademici, Gentile riuscirà a racimolarne pochissimi.
A dicembre cominciano i primi attentati. Di grande impatto propagandistico ed emotivo l’uccisione, il 18 dicembre 1943, durante lo sciopero delle fabbriche milanesi, del federale di Milano Aldo Resega. La reazione contro quello che viene subito definito banditismo è una repressione spesso feroce. Il 24 dicembre i giornali annunziano la costituzione dei «Tribunali provinciali straordinari», alla cui testa si tenta di porre delle ‘personalità’, come l’archeologo Pericle Ducati a Firenze, il direttore della «Gazzetta del Popolo» nonché presidente dell’EIAR (Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche) Gray a Milano.
Gentile pensa allora di intervenire sul grande quotidiano di Milano, per affermare pubblicamente quella linea («avviare la Repubblica verso la pacificazione degli animi») che aveva manifestato subito a Mussolini, nella lettera di accettazione della presidenza dell’Accademia. In un suo scritto che condensa appunto questa visione, Ricostruire, apparso sul «Corriere della sera» il 28 dicembre, Gentile fa appello alla «concordia degli animi», alla «cessazione delle lotte». L’imperativo del momento – come è chiaro dal titolo – è, appunto, «ricostruire».
Le reazioni di parte fascista sono molto critiche. Il 31 dicembre, su «La sera», Ugo Manunta redarguisce il filosofo con un articolo dal titolo: Ricostruire (ma senza compromessi). Il 2 gennaio scende in campo «Il Regime fascista», il giornale di Farinacci, con un articolo del noto giornalista oltranzista, Corrado Zoli, In tema di ricostruzioni, che fa dell’ironia sullo scritto di Gentile. Poi il tono si inasprisce, e Gentile viene ammonito. Al coro di denunzie contro l’ingenuo pacifismo di Gentile si uniscono vari fogli locali e, a Firenze, l’organo del fascio, «Repubblica» (8 gennaio), dove si scatena Silvano Tosi. Anche questa volta Gentile non si rende conto dell’entità e delle conseguenze di tali reazioni, e manda a Ermanno Amicucci un altro articolo, La macchina bolscevica, che viene respinto.
Lo stesso 11 gennaio Gentile riscrive ad Amicucci una lettera in cui si difende dall’accusa di disfattismo, che viene pubblicata il 16 gennaio senza una parola di commento da parte del giornale. Dopo questa lettera nessun quotidiano pubblicherà più interventi di Gentile, e tanto meno il «Corriere della sera», così aperto invece alla collaborazione di Ugo Ojetti, vicepresidente dell’Accademia d’Italia.
Gli attacchi ora arrivano a Gentile anche dal vertice neofascista più profondamente legato ai tedeschi: in particolare da Giovanni Preziosi, che non ama Gentile (il quale a suo tempo si era tenuto del tutto fuori dalla campagna razziale) ed è ormai molto influente presso Adolf Hitler, Alfred Rosenberg e il generale Carl Wolff (il potente comandante supremo della polizia tedesca in Italia).
Preziosi, nel memoriale che indirizza il 31 gennaio a Hitler e a Mussolini, rivolge un attacco a Gentile tanto più perfido in quanto inquadrato in un contesto che mira a ribadire la necessità di liquidare fisicamente sia gli ebrei, sia «quanti hanno appartenuto alla massoneria»: in una tale lotta «va respinta la cosiddetta concordia nazionale, della quale» ‒ assieme a Gentile ‒ «vanno blaterando altri» (per ulteriori approfondimenti, si rinvia a Canfora 1985, pp. 96-106).
Ridotto al silenzio, Gentile non cessa perciò di essere bersaglio della campagna fascista oltranzista contro le sue iniziative. Essa è alimentata, probabilmente, dalla sua condotta mirante a contrastare, con ripetuti interventi, i comportamenti criminosi del fascismo fiorentino. La città vive sotto l’incubo dei crimini di Mario Carità e dei suoi aguzzini. È contro tali crimini che Gentile interviene frequentemente esprimendo la sua protesta presso il capo della provincia, il famigerato Raffaele Manganiello. Egli non rende però mai pubblica la sua protesta, poiché non intende rompere con il fascismo, al più minaccia questa eventualità in colloqui privati.
Da parte antifascista Gentile è considerato, comunque, persona a cui chiedere di intervenire per salvare militanti catturati da Carità. È noto il caso di Aldo Braibanti, allora animatore del Fronte della gioventù, organizzazione fortemente ispirata dalla gioventù comunista. Sulla propria vicenda Braibanti ha reso testimonianza in un volume edito a Firenze dall’Istituto Gramsci, intitolato I compagni di Firenze. Memorie della Resistenza (1943-1944) (1984).
Nel caso particolare di Gentile ‒ scrive Braibanti ‒, non fu secondario per me il fatto che inizialmente aveva rifiutato ogni intervento in mio favore, perché mi considerava comunista: aveva deciso di intervenire in qualche modo solo il giorno stesso della sua morte [dunque il 15 aprile 1944] (p. 95).
Ma poco prima, nella stessa testimonianza, Braibanti afferma di essere stato scarcerato già nel mese di marzo.
Se ne deduce che l’intervento di Gentile non può essere avvenuto il 15 aprile, ma alquanto prima. Di un progettato intervento personale di Gentile presso Mussolini, impedito dalla morte violenta del filosofo, parlano sia Iris Origo nel suo diario (Guerra in Val d’Orcia, 1968, p. 181) sia Benedetto Gentile nella cronaca degli ultimi mesi di vita del padre (Gentile 1951, p. 58). Nonostante Gentile riceva sempre più spesso lettere minatorie addebitabili con tutta probabilità a esagitati ultras fascisti, continua a non disporre di una scorta.
Su Gentile viene esercitato però un altro genere di vigilanza: egli è tenuto d’occhio in quanto troppo accomodante con gli accademici passati ormai all’antifascismo. A capo di questa campagna, Gray, da poco divenuto direttore della «Gazzetta del Popolo» di Torino, che apre le ostilità contro Gentile verso la fine di febbraio, in concomitanza con l’acuirsi degli attacchi di Radio Londra. In un articolo apparso pochi giorni prima dell’attentato, il 9 aprile, Gray giustifica quella che egli stesso definisce una vera e propria «caccia all’uomo». E incalza con chiaro riferimento alla propria personale campagna del genere di quella inflitta a Gentile:
Altra obbiezione elevataci dai nostri critici: Denunziando Caio e Tizio avete avuto un po’ l’aria di fare la caccia all’uomo. Nossignori: niente caccia all’uomo per libidine venatoria. [...] Non ci pentiamo dunque affatto dell’opera di identificazione e di condanna, che abbiamo compiuta. Naturalmente ad un certo punto bisogna chiudere [...] Questo non vuol dire però abbandonare il problema ‘uomini’! Che anzi alla condanna degli uomini del passato deve subentrare una severa vigilanza delle nuove formazioni per evitare che dottrina e Istituti siano nuovamente traditi e isteriliti da uomini pari a quelli che ci hanno portati al limite dell’abisso.
Nonostante Gray durante il periodo repubblichino abbia assunto la maschera dell’ultraestremista, attaccando molte personalità – come Giorgio Pini, direttore del «Resto del Carlino», lo stesso «Giramondo», che dalle pagine del «Corriere della sera» intreccia uno strano dialogo con una parte del CLN, Edmondo Cione – il bersaglio costante rimane Gentile, la cui attività di presidente dell’Accademia viene attaccata con la maggiore assiduità. Ciò non impedirà peraltro che Gray sia oggetto, alla fine del 1944, di un oscuro attentato da parte del gruppo fascista estremista operante nel novarese, detto dei Tupin. Già al principio di maggio Gray era sfuggito a un altro attentato, questa volta di provenienza partigiana (cfr. Canfora 1985, pp. 166 e 183-84).
All’indomani il fascista Gray si fa precedere da una macchina staffetta.
‘Eliot’ [il comandante partigiano] e compagni cadono nell’inganno e uccidono l’intera scorta [...] Un quarto d’ora dopo il Gray arriva incolume nella sua villa di Gignese (Guerriglia nell’Ossola, a cura di M. Fini et al., prefazione di A. Aniasi, 1975, p. 34).
Intanto ‒ piuttosto singolarmente ‒ gli attacchi di Radio Londra contro Gray, che nei primi anni di guerra erano frequenti e sferzanti, ora si diradano, sebbene ora Gray abbia il posto di maggior rilievo, al vertice dell’EIAR, come artefice della propaganda radiofonica. Propaganda che non consiste solo nelle trasmissioni della radio repubblichina, ma anche in una serie di iniziative ‘dietro le linee’ (come, per es., la cosiddetta Radio Tevere o Radio Roma libera che si rivolge «agli Italiani delle terre invase»).
L’attentato mortale contro Gentile (15 aprile 1944, circa le ore 13.30) ha avuto, come scrisse il figlio di lui Benedetto, molti padri (Gentile 1951, p. 56). Vedremo quali. Ma si può aggiungere che le recenti ricerche hanno confermato che tra questi ‘padri’ vanno annoverati anche ambienti della stessa parte politica di Gentile che qualcosa seppero, e lasciarono fare (tra l’altro ignorando le più elementari misure di sicurezza, come deplorò Giovanni Spadolini, all’epoca giovanissimo intellettuale ‘repubblichino’): in questo senso può anche parlarsi di «omicidio per omissione» nonché, sul piano dei propositi politici, di strategia della tensione.
Daremo un quadro sommario degli elementi convergenti verso l’attentato. Il 20 marzo 1944, la consueta trasmissione di Paolo Treves (“Sul fronte e dietro il fronte italiano”), dopo un cenno allo stallo militare a Cassino, si concentra su Gentile. Il giorno prima (19 marzo) si era svolta a Firenze, nella sede ‘repubblichina’ dell’Accademia d’Italia, la celebrazione di Giambattista Vico nel bicentenario della morte, e Gentile aveva inneggiato all’alleanza con la Germania (al «condottiero della grande Germania che questa Italia aspettava al suo fianco»). L’attacco di Treves è pesantissimo, circostanziato, e alla fine minaccioso. Secondo Treves, Gentile «piatisce nuove palinodie per farsi perdonare le sue lettere della fine di luglio». Lo chiama «ex filosofo»; contrappone la sua oratoria vuota alle fucilazioni di partigiani e conclude che, dinanzi a tali notizie provenienti dall’Italia, «non si ha più il cuore a ridere dell’arlecchino filosofico drappeggiato di croci uncinate, che si chiama Giovanni Gentile». Dopo di che, Treves non accantona il tema Gentile ma, al contrario, appesantisce i toni:
davanti al martirio della patria [...] non è il tempo degli esercizi pseudo-dialettici della pseudo-filosofia gentiliana [...]. Anche la commemorazione vichiana acquista in quelle bocche sapore di bestemmia [...]. In questa cornice il sarcasmo si raggela sulle labbra e si muta in una smorfia di disgusto, e non può che sorgere la santa rabbia che animava il popolo italiano nelle rosse albe del Risorgimento [...]. Tutto il resto è silenzio (Sul fronte e dietro il fronte italiano, 1945, pp. 151-52).
Questi potevano apparire (e in sostanza erano) ordini appena velati, aventi come obiettivo di additare un bersaglio. Allo stesso modo, ai primi di marzo, Radio Londra aveva trasmesso, presentandolo due volte come «tremendo atto d’accusa» (Umberto Calosso, 11 marzo), il testo dell’attacco di Marchesi a Gentile, già apparso in Ticino («Libera stampa» del 24 febbraio: Rinascita fascista e concordia di animi), scritto in tardiva replica all’articolo del 28 dicembre, Ricostruire, e lanciato contemporaneamente dalla stampa clandestina sia comunista sia azionista. Per il Partito comunista italiano (PCI) si tratta del periodico «La nostra lotta» (15 febbraio 1944, 4) dove l’articolo appare con il finale modificato: «Per i manutengoli del tedesco invasore e dei suoi scherani fascisti, senatore Gentile, la giustizia del popolo ha emesso la sentenza: MORTE!». Per il Partito d’azione si tratta di «Fratelli d’Italia» (8-9 del 15 marzo 1944), dove l’articolo appare nella stessa forma in cui era apparso su «Libera stampa». Anche nella «National-Zeitung» di Basilea viene dato spazio a questo «atto d’accusa».
Ora però sappiamo anche, grazie a Luciano Mecacci, che l’ordine partito da Radio Londra di far fuori Gentile «fu intercettato dalle autorità della prefettura di Firenze» e che Gentile stesso ne fu informato (Mecacci 2014, p. 335). Nell’Archivio di Stato di Firenze Mecacci ha rintracciato un documento autografo di Guido Leto, capo della Divisione Polizia politica e ‘regista’ dell’OVRA (Opera Vigilanza Repressione Antifascista), in cui Leto dà notizia dell’informativa dell’ispettore capo dell’OVRA di Firenze, Alfredo Ingrassia, secondo cui l’uccisione di Gentile andava «attribuita ad elementi fascisti» (p. 104).
Questi due dati paiono a prima vista divergenti, ma, a ben vedere, possono non esserlo, se si considera che lasciar fare un attentato della cui preparazione si è venuti a conoscenza costituisce di per sé piena corresponsabilità e che tutto porta a pensare che nel gruppo di fuoco GAP (Gruppo di Azione Patriottica) che s’incaricò dell’attentato, un infiltrato fascista ci dovette essere, com’è provato dal resoconto analitico dei retroscena dell’intera vicenda pubblicato dal periodico neofascista «Il Brancaleone» il 30 gennaio 1947 sulla base della testimonianza di un gappista ‘pentito’ (Canfora 1985, pp. 285-87).
Quando dunque, nel 1961, Carlo Francovich rese nota la testimonianza dell’ex brigatista nero Loris Biagini che vantava come di matrice fascista l’attentato contro Gentile (Un caso ancora controverso: chi uccise Giovanni Gentile?, «Atti e studi dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana», 3, dicembre 1961, pp. 20-45), non era totalmente fuori strada. Né lo era Carlo Ludovico Ragghianti, che ha sempre riaffermato tale tesi (Disegno della liberazione italiana, 1954, 19622, pp. 154-55). Dopo decenni di «strategia della tensione» nella storia dell’Italia repubblicana (che aveva un remoto antecedente nella fitta serie di attentati veri e finti contro Mussolini, presupposto per il passaggio al regime nel novembre 1926), possiamo ben comprendere la dinamica che le testimonianze sin qui ricordate fanno intravedere: a) Gentile, personaggio scomodo per il fascismo repubblichino oltranzista e furiosamente antisemita; b) Gentile bersaglio simbolo per l’antifascismo (anche dei gruppi intellettuali, legati in parte al PCI clandestino e in parte ai servizi inglesi); c) ostilità inglese verso la dura polemica antibritannica di Gentile (ben presente tra l’altro nel discorso in Campidoglio); d) ‘ordine’ da Radio Londra di colpire Gentile, intercettato dai servizi italiani e recepito, come anche in altre occasioni, dalle formazioni combattenti; e) infiltrazione repubblichina nel GAP di Bruno Fanciullacci e dunque piena consapevolezza da parte dell’autorità di Polizia fascista di Firenze dell’imminente attentato; f) scelta di non proteggere Gentile, agevolata dalla sua ‘coraggiosa’ (‘socratica’), ma in realtà incosciente scelta di non chiedere la scorta; g) uccisione, da parte tedesca, del segretario di Gentile, Brunetto Fanelli, pochi giorni prima dell’attentato a Gentile; h) rivendicazione immediata dell’attentato a Gentile sia con il «volantino provocatorio» firmato CLN (sempre che sia da considerarsi autentico) sia con il durissimo articolo di Palmiro Togliatti (firmato «xy») su «l’Unità» di Napoli del 22 aprile 1944; i) deplorazione dell’attentato da parte del CTLN (CLN toscano) con l’astensione del rappresentante del PCI: «i comunisti, pur NON avendo il loro partito deciso l’uccisione di Gentile non possono disapprovare quell’atto vindice e giustiziere compiuto da giovani col rischio della propria vita» (Barbieri 1958, p. 162). Se il movimento di guerriglia rivendica soprattutto per dimostrare la propria potenza di fuoco, per parte sua il potere ha tutto l’interesse a offrire alla pubblica esecrazione la ‘ferocia’ dei suoi avversari. Quando poi riesce anche a pilotarli attraverso l’irresistibile meccanismo dell’infiltrazione, il gioco è perfetto.
Torniamo dunque, a questo punto, alla diagnosi di Benedetto Gentile sui molti padri dell’attentato. Egli ricorda nel suo libro un episodio molto significativo:
notizie attendibili pervenuteci dopo l’arrivo delle truppe ‘alleate’ in Firenze accennarono ad istruzioni esplicite fatte giungere da ufficiali di collegamento italiani presso il servizio Informazioni delle truppe britanniche operanti in Italia ai centri della Resistenza partigiana in Toscana (Gentile 1951, p. 55).
Successivamente, Benedetto Gentile dichiarò a me che dietro le parole «ufficiali di collegamento» bisognava intendere Curzio Malaparte. E in una lettera del 22 novembre 1983 mi precisò che Malaparte (Gianni Strozzi) aveva parlato dell’attentato con Federico, suo fratello maggiore e subentrato al padre come direttore della casa editrice Sansoni.
Si deve osservare che la testimonianza scritta, e vicinissima ai fatti (aprile 1951), e la testimonianza resa a me nell’ottobre e novembre 1983 non coincidono perfettamente. Nel 1951, Benedetto Gentile scrive che l’«ufficiale di collegamento» (cioè Malaparte) recò a casa Gentile la ‘rivelazione’ che s’era trattato di un ordine dei servizi inglesi «ai centri della Resistenza partigiana in Toscana» (Gentile 1951, p. 55) e che invece la ‘rivelazione’ che si fosse trattato di un attentato a opera «degli stessi fascisti fiorentini» era stata portata a casa Gentile da «persona del resto stimabilissima ed anche vecchio amico di casa» (p. 58). A proposito di questa seconda ‘rivelazione’ (dovuta, parrebbe, all’avvocato Gaetano Casoni) Benedetto Gentile esprime, nella stessa pagina, netto scetticismo quando osserva che tale ‘leggenda’ avrebbe ancora credito «se le dichiarazioni del partito comunista non fossero venute a sfatarla». Trent’anni più tardi, invece, non solo precisò che destinatario delle rivelazioni di Malaparte era stato Federico, ma attribuì a Malaparte la tesi non già della matrice inglese, ma della matrice fascista dell’attentato. Quanto a Malaparte, personaggio sicuramente inquietante, va precisato che, sin dalle rivelazioni dell’infiltrato nei GAP che appaiono il 30 gennaio 1947 nel «Brancaleone», il suo nome viene fuori in modo quasi trasparente e viene fuori come portatore della tesi («diceria» scrive il giornale) della matrice fascista dell’attentato:
Siamo in grado di precisare – scrive la redazione del giornale, cioè Attilio Crepas – che all’indomani della liberazione di Firenze, al figlio di Gentile appena rientrato dalla Germania [cioè Federico], si presentò un noto scrittore toscano in divisa alleata a suggerire l’avallo a questa diceria (p. 1).
Siccome questa informazione non può provenire che dallo stesso Federico Gentile, è lecito osservare che dunque era più esatta l’informazione fornita a me da Benedetto Gentile nel 1983 che non quella da lui consegnata alle pagine pubblicate nel 1951 (nelle quali attribuiva a Malaparte la tesi ‘inglese’). Per completezza aggiungiamo che proprio in quelle settimane Malaparte collabora attivamente a «l’Unità» su insistente invito di Togliatti e di Velio Spano. Uno dei suoi primi pezzi per «l’Unità» è Sangue in San Frediano (13 agosto 1944) in cui Italo De Feo, all’epoca segretario di Togliatti, ravvisava cenni (più o meno criptici) all’attentato contro Gentile (De Feo 1973, p. 134).
Nel corso del lungo colloquio con me (25 ottobre 1983), Benedetto Gentile insistette molto su di un punto: Radio Londra additava i bersagli da colpire. Una tesi condivisa anche da Michelangela Ramperti, vedova di Marco Ramperti, noto pubblicista di Salò (testimonianza resa a me del 24 ottobre 1983), e da Paolo Crepas, figlio di Attilio, direttore del «Brancaleone». L’accusa che costoro muovevano riguardava anche le trasmissioni, da Radio Londra, di Calosso. Quando cercai di saperne di più dal maggiore Jan Greenlees – già dirigente dei servizi inglesi operanti nel cosiddetto Regno del Sud –, egli si limitò a definire l’attentato a Gentile «un’operazione sporca» (colloquio svoltosi a Bagni di Lucca l’11 settembre 1983, cfr. Canfora 1985, p. 190 nota 7 e p. 293 nota 56). Proprio Greenlees, del resto, mi spiegò come, da molto prima del 25 luglio 1943, i servizi inglesi ‘tenessero d’occhio’ Gentile.
I modi e i canali attraverso cui venivano inviati segnali erano molteplici. Un segnale fu certamente la pubblicazione sulla «Tribune de Genève», in edicola nella mattinata del 15 aprile 1944, di un singolare articolo biografico su Gentile, in enorme evidenza su quasi tutta la prima pagina (taglio alto), che ha l’aria di un necrologio che anticipa di alcune ore l’attentato (pp. 198 e 344-55). Il giornale ginevrino non è nuovo a queste ‘incursioni’ nella vicenda italiana, sempre firmate con lo pseudonimo «Aristide Aris». Non è superfluo segnalare che subito dopo la pubblicazione su «Libera stampa» dell’attacco di Marchesi a Gentile (24 febbraio), «La Tribune de Genève» aveva pubblicato (26 febbraio), con evidenza e sotto il titolo Manifeste clandestin, ampi stralci dell’appello lanciato – dalla clandestinità – da Marchesi agli studenti di Padova.
Per l’identificazione del personaggio che si celava dietro lo pseudonimo «Aristide Aris» ho portato a suo tempo elementi indiziari (pp. 227-44). Qui conviene comunque ricordare la forte ‘presa’ dei servizi inglesi e americani sulla stampa svizzera nel 1944-45 quando ormai – alla luce del definitivo capovolgimento delle sorti belliche – la Svizzera passava con souplesse da neutrale filo-Asse a neutrale filo-Alleati. Non va dimenticata la posizione strategica di Ginevra, lembo estremo della neutrale Svizzera, sede di missioni diplomatiche di tutti i belligeranti, e al tempo stesso zona di contatto con lo «Stato francese» di Vichy infeudato ai tedeschi. Questo si riverbera nella polifonia politica del giornale ‘lottizzato’ tra le parti belligeranti. Paul Gentizon, cioè Aris, insediatosi a Lutry (Lausanne), ma di continuo presente a Salò, a Venezia ecc., aveva legami per così dire ramificati e tali da spiegare la sua singolare ‘tempestività’ in quella circostanza.
Poiché però da alcuni ambienti neofascisti svizzeri, ruotanti intorno alla figlia di Gentizon (Ada Wild) e all’ex segretario di Gentizon (Giuseppe Patané), partirono presto smentite nei confronti di tale identificazione, e tali smentite, rinverdite da un’intervista di Patané apparsa nel «Corriere del Ticino» il 1o giugno 2007, parrebbero aver persuaso Mecacci (2014, pp. 190-98 e 413-15), è necessario portare nuovi e conclusivi elementi di conoscenza.
Sin dal primo momento Giuseppe Patané ha mostrato allarme di fronte alla ‘scoperta’ della vera identità di Aristide Aris. Di ciò diedi conto nella seconda edizione (arricchita) della ricerca intitolata La sentenza (20052, pp. 18-19). Nell’aprile 1986 Patané volle incontrarmi al fine di assumersi la paternità degli articoli firmati «Aristide Aris». Molti anni dopo egli ha cercato di far circolare – tramite la già ricordata intervista al «Corriere del Ticino» ‒ un’ulteriore ‘verità’: che cioè egli avrebbe conosciuto Gentizon soltanto nel dopoguerra. L’errore di Mecacci è consistito nell’aver creduto a questa falsità sulla base di tale intervista e delle reiterate dichiarazioni del figlio di Patané, Massimo. Né Mecacci né Massimo Patané potevano sapere quello che Giuseppe Patané mi aveva dichiarato a Roma lunedì 21 aprile 1986 presso la pensione Nautilus tra le 8.30 e le 9.00 del mattino, alla presenza di tale prof. Claudio Cicogna (da Patané richiesto, immagino, come testimone del colloquio). In quella occasione Patané dichiarò di aver avuto venti anni nel 1943, di aver cercato di fare propaganda filofascista attraverso «La Tribune de Genève» inviando articoli firmati Aristide Aris d’intesa con il GUF (Gruppo Universitario Fascista) di Ginevra e tenendosi in contatto con «Mois Suisse». Orbene, «Le Mois Suisse» era il periodico di Philippe Amiguet, vodese di Montreux, e di Gentizon; e visse dal 1939 al 1945 (ampia testimonianza, in proposito, di Giovanni Busino in una lettera a me indirizzata dell’11 maggio 1984) con funzione di abile appoggio alla propaganda dell’Asse (non senza ammiccamenti agli Alleati in funzione antisovietica). Far capo al gruppo del «Mois Suisse» significava dunque essere in contatto con Gentizon. Del resto vari articoli firmati «Aristide Aris» mettevano a frutto, con abile collage, pezzi, frasi, motivi ricavati dagli articoli che Gentizon aveva pubblicato sul grande quotidiano parigino «Le Temps» quando Patané non era che un ragazzo (è il caso, per es., dell’articolo su Filippo Tommaso Marinetti, che appare su «La Tribune de Genève» il 5 gennaio 1945, e riprende intere frasi di Gentizon apparse su «Le Temps» del 13 febbraio 1939: Patané aveva 16 anni). È evidente che non possiamo immaginare un Patané che compulsa annate e annate del giornalone francese alla ricerca di singole frasi di Gentizon da incastonare nei propri articoli. È invece lo stesso Gentizon che lavora abitualmente in questo modo e mette sistematicamente a frutto la raccolta dei propri ritagli di giornale. Lo vediamo all’opera, per es., in un articolo da lui pubblicato proprio sulla «Tribune de Genève» il 17 agosto 1940, che rievoca nostalgicamente il «patto a quattro» del giugno 1933 con le stesse parole che lui stesso aveva adoperato su «Le Temps» il 9 giugno 1933 (pp. 1-2).
Ora, sulla «Tribune» nei mesi della RSI, non si firma con il suo nome (che invece adopera su altri organi di stampa), ma con tre crocette: lo apprendemmo dal dott. Otto Gauye del Bundesarchiv di Berna il quale documentò che, a partire da un certo momento, Gentizon firmava appunto in quel modo sulla «Tribune» (lettera a me del 2 maggio 1984). Dunque: è Gentizon che fornisce i materiali a Patané e questi, magari, allestisce i pezzi. Un ventenne non diventa collaboratore (con diritto allo pseudonimo!) di un grande quotidiano senza avere un forte sostegno (una ‘grande firma’) alle spalle. E Gentizon per ovvie ragioni si serve di questo canale così come per anni aveva operato in vari giornali coperto da pseudonimi (Sylla, Olaf ecc.). In una situazione come quella della stampa svizzera di quei mesi, lottizzata tra i vari servizi alleati e tedeschi, Patané non può certo rendere plausibile la favola di un ragazzo ventenne che prende in giro una testata così importante e nevralgica, nella quale è abituale far passare contenuti politici e messaggi attraverso divagazioni culturali, curiosamente non di rado in contrasto tra loro.
Dissipato dunque l’equivoco sorto a causa del credito concesso ingenuamente da Mecacci alla ‘disinformacija’ della coppia Patané padre e figlio coadiuvati dal giornalista ticinese Roberto Festorazzi, si deve ripristinare la corretta informazione. E il dato che qui interessa è: Gentizon (dietro il ‘velo’ degli articoli pseudoculturali firmati «Aristide Aris») ‘segnala’ clamorosamente Gentile sull’importante quotidiano di Ginevra nella mattina al termine della quale Gentile verrà ucciso. Questo significa che quell’articolo è un segnale che rientra nella trama a vasto raggio che culminò nell’attentato contro Gentile. È ingenuo e forse anche immetodico pensare che quell’articolo (una specie di necrologio anticipato) sia apparso per puro caso proprio in quel giorno. Il 18 «La Tribune» darà la ‘breve’, nella rubrica “En Italie”: «L’ancien ministre Gentile a été assassiné (“au moment où il quittait son domicile [sic!] plusieurs [sic] cyclistes”)» (p. 5).
Addentrarsi ancora più in profondità nel ruolo cui un abile ‘agente doppio’ come Gentizon può aver assolto in quella circostanza non sembra possibile allo stato delle nostre conoscenze. Trent’anni fa rimaneva qualche traccia archivistica e sussisteva qualche vivente memoria del funzionamento e delle multiple connessioni della stampa svizzera (e di Ginevra in particolare) nei mesi finali della guerra e della RSI. Oggi non più. Ma parlando di quell’anno e di quel ‘teatro’ non va dimenticato il ruolo di crocevia di tutti i servizi e di tutte le trattative (anche le più inconfessabili). Al quadro già noto va aggiunto un ulteriore tassello: il recente volume di Bailey Roderick intitolato Target Italy. The secret war against Mussolini, 1940-1943: the official history of SOE operations in fascist Italy (2014) documenta come molti agenti, che John McCaffery, capo del servizio inglese, considerava ‘suoi’, fossero in realtà sorvegliati quando non manovrati dall’OVRA.
Un sintomo della scelta repubblichina di dimenticare Gentile è riscontrabile anche nella lunga prefazione che Mario Coppola (in realtà quasi certamente il ben più preparato ed efficace polemista Goffredo, fratello di Mario) ha posto al principio della ristampa per le Edizioni Erre camuffate da Edizioni Laterza dello scritto anticomunista crociano Comunismo e libertà. Qui l’attacco contro Croce è incentrato sulla sua attuale collaborazione con Togliatti nel governo e culmina nell’auspicio che Croce venga fatto fuori con un attentato, magari organizzato per ordine dello stesso Togliatti (pp. 12-13). La prefazione è successiva al 27 luglio 1944 perché fa riferimento (p. 9) alle dimissioni di Croce dal governo Bonomi avvenute proprio in quel giorno. Dunque l’attentato a Gentile è già avvenuto: l’occasione di contrapporre il destino dei due filosofi era quanto mai ovvia, e invece su Gentile neanche una parola. L’oscura vicenda era ormai archiviata.
B. Gentile, Dal discorso agli italiani alla morte: 24 giugno 1943-15 aprile 1944, Firenze 1951.
O. Barbieri, Ponti sull’Arno, Roma 1958.
R. De Felice, Bastianini, Giuseppe, in Dizionario biografico degli Italiani, Istituto della Enciclopedia Italiana, 7° vol., Roma 1970, ad vocem.
I. De Feo, Diario politico: 1943-1948, Milano 1973.
L. Canfora, La sentenza. Concetto Marchesi e Giovanni Gentile, Palermo 1985.
R. De Felice, Mussolini l’alleato: l’Italia in guerra 1940-1943, Torino 1990.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Firenze 1995, Torino 2006.
L. Mecacci, La ghirlanda fiorentina e la morte di Giovanni Gentile, Milano 2014.