GENTI
. In Grecia. - La parola γένος dalla radice γεν, donde anche γίγνομαι, γονεύς, ecc., racchiude l'idea di generazione, e significa l'insieme di persone nate da un antenato comune, la famiglia, cioè, nel suo successivo ramificarsi. È evidente che con questo moltiplicarsi dei rami di una stessa famiglia, la coscienza di una origine comune si doveva generalmente, nelle condizioni sociali primitive, perdere nel ciclo di poche generazioni, ed era già molto se essa si conservava per tre o per quattro. Dovette cessare il nomadismo e prendere incremento la proprietà fondiaria prima che un certo numero di famiglie potesse eccellere sulle altre e mantenere attraverso il tempo la propria coesione e il ricordo della comune origine, mercé alberi genealogici in parte veri, in parte fabbricati ad arte, sì da risalire nella notte dei tempi e da ricollegarsi con antenati mitici. Sono, queste, famiglie di carattere aristocratico, e ad esse, che nulla hanno di primitivo, compete specificamente il nome di γένη. Per la vessatissima questione dell'origine del γένος v. sotto (Le genti in Roma). Qui basterà accennare soltanto all'antica opinione (Arist., 'Αϑ. πολ., fr. 3 Blass-Thalheim) secondo la quale le quattro tribù ateniesi sarebbero state divise in tre trittie o fratrie, ogni fratria in trenta genti, ogni gente in trenta membri: si tratta di un'evidente costruzione artificiosa, in quanto che stabilire un numero preciso di genti e dividerlo in modo eguale tra le fratrie, non si sarebbe potuto se non trasferendo a forza genti da una fratria in un'altra e alcune forse sopprimendole - cose evidentemente assurde -; né è credibile che le fratrie in Atene fossero mai state soltanto dodici e che, comunque, potesse avvenire una tripartizione delle tribù, quando queste dopo il sinecismo avevano perduto ogni effettiva coesione territoriale. La gente dunque in Atene, come altrove, non fu una creazione artificiosa sorta dall'arbitrio di un legislatore, ma, come abbiamo detto, una formazione storica naturale, che si svolse attraverso una lunga serie di anni. E fu dapprima formazione libera: bastava che una famiglia si arricchisse, perché, dopo qualche generazione, all'albero genealogico vero essa procurasse la sua brava prefazione mitica e fosse accolta alla pari nel consorzio degli aristocratici. Ma quando l'aristocrazia si formò tutto il suo patrimonio di tradizioni e di privilegi, separandosi nettamente dal volgo, cominciò a considerarsi come una casta chiusa di origine divina e a vigilare gelosamente per impedirne l'accesso ad altri. Fu questa la fase dei regimi politici aristocratici, dei quali si ebbe in Grecia la massima varietà. In alcuni luoghi, per es., nell'Elide primitiva, a Tebe, in Tessaglia, a Corinto, il governo era limitato ai capi di un numero fisso di famiglie; altrove erano le famiglie che dovevano fornire un numero fisso di cittadini con la pienezza dei diritti (per es., i mille di Opunte, i seicento di Eraclea del Ponto, i centottanta di Epidauro, ecc.). Del resto queste aristocrazie col procedere del tempo si trasformarono gradualmente in timocrazie, aprendo i corpi politici a poco a poco ai cittadini che possedevano una certa fortuna. E le genti sussistettero anche quando e anche dove gli ordinamenti aristocratici furono completamente sostituiti da quelli democratici come ad Atene.
Sulle genti ateniesi occorre qualche cenno sistematico. Si conoscono una cinquantina di nomi, che hanno tutti, meno dieci, la forma patronimica e sono tratti o da nomi personali, come nel caso degli Alcmeonidi, o dal nome del dio particolarmente venerato dalla gente, come nel caso dei Bacchiadi, o da nomi locali, come nel caso dei Cefisiesi, dei Salamini, dei Coliesi, o dalle occupazioni alle quali attendevano in origine i membri della gente, come nel caso dei Cerici (araldi nei misteri di Eleusi), degli Egirotomi (tagliatori di pioppi), dei Buzigi (aggiogatori di buoi), ecc. Da questi nomi si estrasse l'eponimo, e se ne ebbe poi incentivo a dare a tutti, anche a quelli che non l'avevano avuta in origine, forma patronimica (onde accanto al nome di Cerici si ebbe quello di Cericidi, e diventarono d'uso esclusivo i nomi di Diogenidi, Eumolpidi, Pemenidi ecc. in sostituzione degli originarî Διογενεῖς, Εὔμολποι, Ποιμένες, ecc.). Il principale titolo di preminenza delle genti dovette stare in origine nella proprietà fondiaria, ed è certo che dapprima i fondi delle famiglie che facevano parte di una gente si dovevano trovare in un medesimo distretto (ed è per questo che i nomi di alcuni demi attici presero il nome da genti). Invece troviamo poi delle genti disperse tra più demi, come nel caso degli Aminandridi, una cui lista epigrafica, sebbene non integra, registra 25 diversi demotici (Inscr. Graec., III, 1276-77), e di questo fatto diversi debbono essere stati i motivi: confische dei tiranni, rimaneggiamenti di Clistene al fine d'indebolire le genti, ma, soprattutto, il passaggio nelle mani dei nobili delle proprietà di contadini loro debitori insolventi, e come tali venduti schiavi prima della legislazione di Solone. Ogni gente costituiva un consorzio religioso, che venerava collettivamente Apollo Patrio, antenato comune degli Ateniesi, anzi di tutti gli Joni, e Zeus Erceo, dio della casa e della famiglia, divinità invero venerate da tutti gli Ateniesi, anche appartenenti a famiglie non nobili, sulle are domestiche, ma dai gentili venerate anche collettivamente sugli altari comuni della gente. Ed è ricordata una festa propria delle genti, le Teenie in onore del padre Teeno, cioè di Dioniso, come dio del vino. I privilegi religiosi furono conservati dalle genti anche quando perdettero quelli di carattere politico: per es. gl'interpreti del diritto sacro (esegeti) erano scelti nelle famiglie degli Eumolpidi e degli Eupatridi, le dignità sacerdotali di ierofante e di ierofantide erano ereditarie nella stirpe degli Eumolpidi, il daduco, l'araldo dei misteri e il sacerdote dell'altare si prendevano dai Cerici, la sacerdotessa di Atena Poliade e il sacerdote di Posidone dagli Eteobutadi, ecc. I quali privilegi derivano dall'essersi talora trasformati culti privati delle genti in culti pubblici e talora dall'essersi l'aristocrazia impadronita, al tempo del suo predominio, di sacerdozî statali. Indipendentemente da questi culti pubblici le genti hanno ciascuna i proprî culti gentilizî e venerano il loro eponimo e celebrano i loro misteri. Alla testa del γένος stava in tempo storico un ἄρχων che, a quanto pare, veniva nominato annualmente con sorteggio, e ogni γένος aveva il suo locale di riunione e la sua cassa comune, alla testa della quale stava un ταμίας. Riunioni avvenivano di tempo in tempo, e in esse si prendevano deliberazioni, delle quali abbiamo non pochi resti epigrafici (v. Inscr. Graec., II, 2ª ed., 1229 segg.). In una delle riunioni avveniva, mediante solenne votazione, l'accoglimento nel γένος dei nuovi nati, e a questo fine era necessario che il padre, il quale voleva introdurre il figlio, giurasse di averlo avuto da legittime nozze con una cittadina regolare (Andoc., I, 127; Ps.-Demosth., LIX, 60). Le genti avevano la loro proprietà anche indipendentemente dalla dimora comune, e ciò può essere affatto indipendente dalle funzioni assegnate alla gente negli ordinamenti primitivi della proprietà fondiaria in Grecia, sulle quali funzioni si è discusso non poco. Sembra peró che l'ipotesi per la quale originariamente la proprietà fondiaria sarebbe stata proprietà collettiva delle genti, sia da porsi da parte.
Fuori dell'Attica documenti epigrafici ricordano gli Eudoridi di Caristo, gli Antalcidi di Ceo, gli Sciridi di Mileto col privilegio dell'esegesi del diritto sacrale, oltre le πατρίαι dei Nelidi e degli Ecetadi; le famiglie sacerdotali dei Percotarî e dei Misacei presso i Locresi Epizefirî.
Le Genti in Roma. - Le genti sono in età storica gruppi di famiglie che riconoscono un ceppo comune, e che recano lo stesso nome, come è dichiarato nelle definizioni classiche, quali quella di Q. Muzio Scevola presso Cicerone (Top. 29: gentiles sunt inter se, qui eodem nomine sunt... qui ab ingenuis oriundi sunt, ecc.) e quella di Cincio presso Festo (ep., p. 94: gentilis dicitur et ex eodem genere ortus, et is qui simili nomine appellatur). Molto si è discusso e si discute circa l'origine della gente, molti ritenendola la forma primigenia dell'associazione umana, e rappresentandosi lo stato come sorto dall'unione di più genti, altri invece considerando la gente o come una creazione artificiale dello stato, o come una formazione tarda germinata "per superfetazione nel seno di altre associazioni più ampie, col differenziarsi delle classi sociali".
La prima teoria, dell'originaria organizzazione, cioè, patriarcale o gentilizia, la si trova, in sostanza, già enunciata in G.B. Vico, e trovò nel secolo passato molti fautori: basti ricordare lo Jhering e il Summer Maine; la seconda fu sviluppata dal Niebuhr, che richiamandosi a Dionigi di Alicarnasso (II, 7) secondo il quale le curie sarebbero state divise in dieci decadi, identificava le genti con esse decadi; la terza ebbe in Germania il maggior campione in E. Meyer, in Italia in G. De Sanctis.
E pare sia da dare la prevalenza a quest'ultima teoria, perché se pure è vero che l'ordinamento cosiddetto patriarcale sia caratteristico della più remota antichità aria, è vero egualmente che la gente nel senso che questa parola ha in Roma, al pari del γένος ateniese, non ha nulla di primitivo, in quanto che le tradizioni e le pretese delle genti patrizie presuppongono già la formazione di una nobiltà, cioè, di famiglie sollevatesi sulle altre per potenza e per ricchezza e provvedute di alberi genealogici esatti o spacciati per tali, laddove in tempi primitivi è molto se due famiglie tengono conto della loro origine da fratelli o da figli di fratelli e non si risale oltre due o tre ascendenti dell'albero genealogico. Si deve quindi nettamente distinguere tra le genti dell'ordinamento prestatale, che meglio chiameremo stirpi, e le genti romane dell'età storica. E quanto alle genti primitive, pur negando che esse costituissero i nuclei politici che precedettero lo stato (è questa l'opinione per la quale e per la cui differenziazione dalla teoria dell'organizzazione patriarcale ha ardentemente combattuto P. Bonfante, e che fu enunciata con la massima rigidezza da E. De Ruggiero), dovremo sempre ammettere che esse adempirono in origine a molte funzioni che col progredire della civiltà furono poi assorbite dallo stato, a funzioni cioè il cui carattere politico non si deve disconoscere.
Coloro che vedono nella gente il nucleo politico preesistente allo stato fanno precedere in Roma la proprietà fondiaria privata da quella collettiva delle genti, coltivata dai servi della gleba, la quale proprietà collettiva sarebbe durata sin poco innanzi al decemvirato; e dall'emancipazione dei servi della gleba sarebbe sorta la plebe. Teorie vane e prive di fondamento, perché l'assolutezza e l'illimitatezza del potere che il padre di famiglia ha, stando alle 12 tavole, sul suo patrimonio, presuppone in ogni caso più secoli di proprietà fondiaria privata prima del decemvirato. Col che non si vuole escludere che presso i Romani, o piuttosto presso gl'Italici, abbia dominato in origine il comunismo agrario, ma si può affermare che, se anche questo fu in età remotissima praticato, se ne era perduto in età storica ogni vestigio.
Circa il numero primitivo delle genti naturalmente non si possono fare induzioni. Dal Mommsen in poi è stato ritenuto per certo che nel periodo regio ogni gente avesse il suo rappresentante in Senato, dal che discenderebbe che il numero delle genti sarebbe stato pari a quello dei senatori, ma anche sul numero dei senatori nel periodo regio non si possono esprimere giudizî sicuri: la tradizione è concorde nell'assegnarne 100 al Senato romuleo e 300 a quello del tempo di Tarquinio Prisco, figurandosi in modo diverso il passaggio dall'uno all'altro numero. È degno di rilievo in particolar modo il luogo di Cicerone, De re publ., II, 20, 36: (L. Tarquinius) duplicavit illum pristinum patrum numerum et antiquos patres maiorum gentium appellavit, quos priores sententiam rogabat, a se adscitos minorum (cfr. Tac., Ann., XI, 25); in cui è cenno appunto alla divisione delle gentes in maiores e minores, e se ne dà una spiegazione. La divisione certamente sussisteva in età storica, sebbene non sappiamo quali genti appartenessero alla prima, quali alla seconda, eccezione fatta pei Papirî che appartenevano alla seconda (Cic., Ad fam., IX, 21, 20); e l'origine della divisione può spiegarsi in due modi, come osserva il De Sanctis, o ammettendo che nel seno stesso del patriziato si sia formato una specie di patriziato maggiore costituito dalle genti più ricche e potenti, o anche ritenendo che le genti minori fossero quelle sorte tra la borghesia, salite a potenza e a ricchezza più tardi delle altre, e ammesse al patriziato quando questo, pur tendendo già a costituirsi in casta, non si rifiutava ancora definitivamente di accogliere nuovi elementi dalla plebe. Poi avvenne quella che possiamo chiamare serrata del patriziato, per la quale il possesso pieno della cittadinanza e l'esercizio dei diritti politici rimase circoscritto per lungo periodo soltanto agli appartenenti alle genti patrizie, con esclusione rigorosa della plebe, la quale però con lunghe e faticose lotte riconquistò passo passo l'eguaglianza civile, economica e politica col patriziato. Dal momento in cui ai plebei fu possibile l'ascensione al sommo collegio dei magistrati eponimi, e specialmente dal momento in cui uno dei consoli fu di regola plebeo, cominciò a costituirsi in seno alla plebe un'aristocrazia, composta appunto delle genti plebee i cui membri via via entrarono nel Senato, e tali genti insieme con le antiche patrizie costituirono quella nobilitas che resse le sorti dello stato dal sec. IV a. C. in poi, e andò chiudendosi in un'oligarchia sempre più ristretta ed egoista, nel che fu poi una delle cause non ultime del trapasso dalla repubblica al principato. Le genti patrizie che ci sono documentate soltanto per il periodo precedente al 367 a. C., sono, secondo la raccolta fattane dal Mommsen, 35; quelle sussistenti ancora nel periodo successivo 22 con 77 rami, ma tra le prime 35 una diecina pare siano genti effettivamente plebee, e le altre debbono essere state poco numerose e fornite di uno o due rami ciascuno, sicché il Beloch calcola che le genti patrizie, intorno al sec. V a. C., fossero una quarantina con un centinaio di rami e complessivamente con otto o novecento famiglie, pari a circa 4500 persone (per l'elenco completo delle genti patrizie e plebee costituenti la nobiltà successiva si vegga P. Willems, Le Sénat de la république romaine, I, pp. 69 segg., 96 segg.). Continua fu tra le genti la gara per il primato; sollevarsi sulle altre fu soltanto a poche consentito e si ebbero nei diversi periodi alternative di fortuna: ascensioni, decadimenti, riprese. E attorno alle poche genti volta a volta dominanti si polarizzarono i partiti, sicché la storia di questi s'intreccia con le vicende di quelle, come, meglio che da ogni altro, è stato mostrato da F. Münzer nella sua opera Römische Adelsparteien und Adelsfamilien.
Ogni gente ha il suo culto, la propria o le proprie divinità tutelari (pei. es. l'Aurelia il culto del Sole, la Calpurnia di Diana, la Giulia di Apollo, di Venere e di Veiove ecc.). Questi sacra gentilicia sono privata, ma alle singole genti potevano anche dallo stato essere affidati determinati culti. I culti eran celebrati in determinati giorni e in determinati luoghi (così per es. in Boville era il sacrario della gens Iulia, in Anzio i luoghi di culto dei Claudî e dei Domizî, sul Quirinale quello dei Fabî). Tali culti avevano naturalmente i loro sacerdoti, e vi furono anche, sebbene assai searsi e di poco conto, sacerdozî pubblici d'origine gentilizia, come i Luperci Fabiani e Quinziali (contro però le idee del De Marchi, Culto privato di Roma antica, II, p. 28, v. De Sanctis, Storia dei Rom., I, p. 302). Coi sacra comuni delle singole genti si riconnettono gli auspici e le tombe comuni. Le genti avevano anche proprie costumanze tradizionali (mores gentis) (come, p. es., quella dei Claudî di sacrificare a capo coperto, quella dei Cornelî di non bruciare mai i loro morti, quella dei Quinzî che neppur le donne usassero monili di oro, quella dei Fabî per la quale tutti i membri erano obbligati al matrimonio), tenevano assemblee (conciones). emanavano ordinanze (decreta gentilicia), esercitavano giurisdizione e censure sui proprî membri (nota gentilicia). Tra i gentiles regnava uno spirito di solidarietà e di assistenza mutua che in epoca storica si estrinsecava nel venire in soccorso al gentile cui fosse inflitta una multa o che non reggesse al peso di una contribuzione straordinaria, o non potesse dai suoi congiunti essere riscattato dalla prigionia. Particolarmente importante è notare che, in mancanza di agnati, i gentili avevano diritto alla successione e alla tutela.
Bibl.: Per le genti in Grecia v.: E. Meyer, Forschungen zur alten Gesch., II, Halle 1899, p. 517 segg.; id., Sitzungsberichte der Berliner Akademie, 1907, p. 508 segg.; id., Geschichte des Altertums, I, 4ª ed., Stoccarda 1921, p. 12 segg., cfr. II, 1ª ed., Stoccarda 1893, 308; Ch. Lécrivain, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant. gr. et rom., II, p. 1494 segg.; G. De Sanctis, 'Ατϑίς, 2ª ed., Torino 1912, p. 56 segg.; G. Busolt, Griechische Staatskunde, I, i, Monaco 1920, p. 248 segg.; ii, ivi 1926, p. 954 segg.; J. Töpffer, Attische Genealogie, Berlino 1889.
Per le genti in Roma, v.: G.B. Niebuhr, Römische Geschichte, I, Berlino 1873 (ed. Isler), p. 261; E. De Ruggiero, La gens in Roma avanti la formazione del comune, Napoli 1872; Th. Mommsen, Römische Forschungen, I, Berlino 1864, p. 71 segg.; id., Römisches Staatsrecht, III, Lipsia 1887, p. 9 segg.; E. Meyer, Geschichte des Altertums, II, 1ª ed., p. 85 segg.; Ch. Lécrivain, in Daremberg e Saglio, Dict. des ant. gr. et rom., II, p. 1504 segg.; A. De Marchi, Il culto privato di Roma antica, II, Milano 1903, p. 28; G. De Sanctis, Storia dei Romani, I, Torino 1907, pp. 229 segg., 302; id., Per la scienza dell'antichità, ivi 1905, p. 414 segg.; V. Arangio Ruiz, Le genti e la città, Messina 1914; P. Bonfante, in Rivista italiana di sociologia, XII (1908), pp. 243, 826; id., Scritti giuridici vari, I, Torino 1916, p. 18 segg.; id., Storia del diritto romano, I, 3ª ed., Milano 1923, p. 60 segg., 80 segg.; B. Kübler, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., VII, col. 1176 segg.; K. J. Beloch, Römische Geschichte, Berlino e Lipsia 1926, p. 220 segg. - Della gens si occupa ogni storia del diritto romano; vedi per es., oltre la storia del Bonfante, P. De Francisci, Storia del diritto romano, I, Roma 1931, p. 106 segg.