DI GIACOMO, Gennaro
Nato a Napoli il 19 sett. 1796, in una famiglia piccolo borghese, a sei anni, già destinato alla vita ecclesiastica, fu posto nel seminario di Gaeta. Ne uscì nel 1805, forse per ragioni di salute, e seguì poi nel 1806 a Roma la famiglia, che vi si era trasferita provvisoriamente. Qui continuò gli studi nel Collegio Romano.
Al ritorno a Napoli, nel 1808, il D. entrò nel seminario minore; nel 1814 venne poi accolto nel "pensionato normale", un'istituzione pubblica voluta da Giuseppe Zurlo per la formazione di futuri docenti destinati all'istruzione superiore. Il 18 marzo 1820 il D. venne ordinato sacerdote e adibito prevalentemente all'insegnamento: insegnò retorica nei seminari, per un anno (1830) anche geografia e storia patria nella scuola militare della Nunziatella; nel 1832-33 fu supplente di diritto canonico nella regia università napoletana e infine, dal 1833 al 1836, fu lettore di poetica nel liceo arcivescovile.
La sua attività pastorale iniziò solo nel 1836, allorché divenne parroco della chiesa di S. Maria della Rotonda a Napoli, parrocchia situata nella parte settentrionale della città e abitata prevalentemente da ceti nobili e borghesi. Dopo altri incarichi di una certa rilevanza, come quello di viceparroco del duomo, il 22 dic. 1848 il D. fu preconizzato vescovo di Alife, in Terra di Lavoro, e consacrato a Napoli dal card. S. Riario Sforza il 4 marzo 1849. Si trovò così ad operare in una realtà sociale assai diversa da quella fino ad allora da lui conosciuta, in una diocesi che copriva un'area montana, caratterizzata da un'attività economica essenzialmente agricolo-pastorale scarsamente redditizia.
Dei primi dodici anni del suo vescovado, quelli del periodo preunitario, si hanno scarse notizie. Si sa, comunque, che i suoi rapporti con il patriziato locale e con lo stesso clero furono spesso assai tesi, per vari motivi. In generale negli indirizzi della vita religiosa della diocesi il D. cercò di imporre una minore ostentazione e fasto nelle cerimonie. Nell'aprile 1858, poi, impose ai parroci di allargare gli itinerari delle processioni dei santi patroni oltre i confini delle singole parrocchie, chiedendo inoltre la partecipazione di tutto il clero diocesano a ogni processione: una richiesta che urtava contro antiche tradizioni e che era volta alla riaffermazione del potere vescovile sui privilegi particolari delle parrocchie.
Accanto a questa opera strettamente religiosa è da ricordare l'impegno a favore delle popolazioni colpite da calamità naturali. Il 13 sett. 1857 Piedimonte d'Alife, il più importante centro della diocesi, fu colpita da una gravissima alluvione, che, oltre a notevoli danni all'agricoltura, provocò numerose vittime. Il D. fu il principale protagonista dell'opera di soccorso e di assistenza, che organizzò e diresse con grande energia, raccogliendo numerose offerte. Sempre nel 1857 si prodigò a favore delle popolazioni lucane, colpite da un grave terremoto. Infine è da sottolineare la particolare cura che ebbe nei confronti del seminario e degli studi in genere. Il 19 ag. 1859 indirizzò al sovrano una supplica in cui chiedeva l'istituzione in Piedimonte di un collegio retto dagli scolopi, allo scopo di fronteggiare l'offensiva "della filosofia materialista", che "demoralizzava la città" (cit. in Marrocco, p. 15).
In sintesi, da questi anni di episcopato emerge la figura di un pastore d'anime molto attivo sul piano religioso, legato alla tradizione pastorale di Alfonso de' Liguori, avverso alla cultura areligiosa che cominciava ad affermarsi. In ogni caso egli appare non toccato dai fermenti politici, che pure agitavano in quegli anni non pochi settori del clero meridionale. Del resto il suo impegno sociale, soprattutto a favore dell'istruzione dei giovani anche di modeste condizioni, per quanto apparisse eccentrico in alcuni ambienti retrivi, faceva parte di una tradizione di partecipazione del clero alla vita sociale, consolidata ormai anche nel Mezzogiorno d'Italia.
Durante i convulsi avvenimenti del 1860 egli tenne una posizione giudicata da tutti piuttosto ambigua, tanto che sia a Napoli sia ad Alife venne considerato più avverso che favorevole al nuovo stato di cose creatosi dopo il successo della spedizione garibaldina. Eppure l'11 novembre di quello stesso anno egli, primo tra i vescovi del Mezzogiorno, ebbe a Napoli un lungo colloquio con Vittorio Emanuele II, che pochi giorni prima era entrato in città. In quella occasione riuscì ad ottenere la scarcerazione di numerosi membri del clero della sua diocesi, fatti arrestare nei giorni precedenti ad Alife, ma soprattutto poté fugare ogni dubbio sulla sua reale posizione politica.
Infatti, il 31 agosto vi era stata a Piedimonte d'Alife - ancora soggetta alle autorità borboniche - un'insurrezione filogaribaldina. Il governo provvisorio prontamente instaurato ebbe carattere fortemente rivoluzionario e anticlericale: si minacciava di requisire i beni del clero e di sopprimeme le scuole. L'esperimento durò poco. Il 24 settembre le truppe borboniche erano rientrate nella città e il D. aveva indetto cerimonie di ringraziamento a Dio e manifestazioni di omaggio al sovrano. L'arrivo delle truppe sabaude, alla fine di ottobre del 1860, vide il D. schierato con i liberali moderati annessionisti e da quel momento non mancò occasione per manifestare pubblicamente la sua fedeltà al nuovo governo.
Nel 1861 invitò il clero diocesano e il popolo a intervenire alle cerimonie per la ricorrenza dello statuto (Lettera pastorale del vescovo di Alife in occasione della festa nazionale della prima domenica di giugno, Napoli 1861). Alla morte di Cavour, con un gesto quasi di sfida ai superiori ecclesiastici, celebrò un solenne ufficio funebre per l'anima dello statista. I suoi già difficili rapporti con le gerarchie e, in particolare, con il cardinale arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, subirono un ulteriore deterioramento. Eppure non si poteva certo dire che non continuasse a dimostrare assoluta fedeltà ai dogmi e alle istituzioni cattoliche. Quando, ad esempio, le autorità scolastiche provinciali tentarono di trasformare in liceo pubblico il locale seminario, il D. si adoperò con successo per impedirlo, ottenendo che le due istituzioni coesistessero (1864).
Nel frattempo, il 24 maggio 1863 il D. era stato nominato senatore del Regno. Egli accettò la nomina, prestando giuramento l'8 agosto. In questa nuova veste si fece propugnatore di una conciliazione tra lo Stato, di cui il D. riconosceva e indicava il carattere moderato, e la S. Sede e il mondo cattolico in generale (si veda in particolare il suo intervento del 7 dic. 1864 durante la discussione sul progetto di legge per il trasferimento della capitale a Firenze: Atti parlamentari, Senato, III legisl., pp. 2159-2162).
Il più importante dei suoi interventi, teso a far prevalere la posizione sostenuta tradizionalmente dalla Chiesa in tema di ordinamento matrimoniale, fu quello pronunciato il 18 marzo 1865 (ibid., pp. 2606-2612), quando - nell'ambito dell'unificazione legislativa - si discusse l'ipotesi di estensione delle norme previste dal codice civile sabaudo alle province meridionali. Questo intervento - preceduto dalla pubblicazione di un opuscolo, Lettera agli on. senatori membri della commissione speciale per riferire sopra il 1° libro del codice civile pel Regno d'Italia, Torino 1864, criticato aspramente dall'intransigente Unità cattolica (17 marzo 1865) per la distinzione che il D. vi faceva tra materia contrattuale e materia sacramentale del matrimonio - si presentava in veste di contributo squisitamente tecnico, illustrando le norme canoniche e le implicazioni sociali del problema. Nella sostanza egli, nel chiedere che si tenesse conto delle esigenze dei cattolici, sottolineava i rischi che potevano derivare alle forze liberalmoderate da ulteriori lacerazioni nel paese.
La reiterata affermazione e le sue proteste di attaccamento alla dottrina e al magistero della Chiesa, che si concretarono anche in occasione del concilio vaticano I nel suo voto a favore del dogma delNrifallibilità, pontificia, non valsero a migliorare i suoi rapporti con la S. Sede. Reo di aver partecipato alle sedute del Senato dopo l'occupazione di Roma, nell'estate 1873 fu lo stesso Pio IX a comunicargli la nomina di un coadiutore cum futura successione nella persona di mons. L. Barbati Pasca, inviato come vicario apostolico ad Alife, e a invitarlo a non tornare nella sua sede: si trattava in sostanza di una vera e propria destituzione.
Dopo di allora rare furono le apparizioni del D. in Senato. Egli morì a Caserta, ove dimorava ospite del sovrano, il 1° luglio 1878.
Fonti e Bibl.: Atti parlamentari, Senato del Regno, Discussioni, legislature VIII-IX, ad Indices; R. Cialente, Ritratto in profilo di mons. D. vescovo di Alife, Napoli 1886; R. De Cesare, Roma e lo Stato del papa, II, Roma 1907, p. 416; G. Petella, La legione del Matese durante e dopo l'epopea garibaldina, Città di Castello 1910, pp. 14, 124, 216; L. Ferrara Mirenzi, Due vescovi senatori del Regno, in Rass. stor. del Risorgimento, XXIV (1937), pp. 797, 801 s.; P. Borraro, Cattolicesimo e Risorgimento: un insigne vescovo alifano, mons. G. D., in Arch. stor. di Terra di Lavoro, III (1960-64), pp. 585-632; D. Marrocco, Mons. D. Un vescovo nel Risorgimento, Piedimonte d'Alife 1963; B. Pellegrino, Chiesa e rivoluzione unitaria nel Mezzogior. L'episcopato meridionale dall'assolutismo borbonico allo Stato borghese (1860-1861), Roma 1979, pp. 35, 89 ss., 118; T. Sarti, Il Parlamento subalpino e nazionale, Terni 1890, p. 400; Diz. del Risorg. nazionale, II, p. 934; A. Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, I, Roma 1940, p. 366; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia cathotica medii et recentioris aevi, VIII, Patavii 1979, pp. 89 s.