CESTARI (Cestaro), Gennaro
Secondogenito di quattro fratelli, nacque a Napoli il 19giugno 1753 da Serafina de' Sio, di famiglia napoletana, e da Giacomo Cestaro, professore nell'Accademia del disegno e pittore, originario di Montesano in Basilicata (Cestaro è la forma con cui il C. firmava la corrispondenza privata, mentre tutte le sue opere e stampe sono firmate Cestari). Avviato alla carriera ecclesiastica, compì gli studi nel seminario di Napoli, ove era rettore in quegli anni, e professore di teologia dogmatica, G. Simioli, considerato il più autorevole dei giansenisti napoletani. Da lui il giovane C. dovette mutuare molte delle sue convinzioni religiose e politiche, che maturò peraltro anche attraverso letture personali di testi italiani e stranieri, specie francesi.
Circolavano infatti in quegli anni, negli ambienti ecclesiastici napoletani più avanzati, e nello stesso seminario, libri di filosofia e di scienze, in gran parte di provenienza francese, nonostante i divieti del governo borbonico e delle autorità ecclesiastiche; gli stessi seminaristi si dedicavano alla traduzione di quei testi e ne assimilavano entusiasticamente i contenuti. Le influenze di questa formazione culturale aperta alle correnti del pensiero filosofico e politico d'Oltralpe appaiono evidenti nelle opere del C., il quale rivela una stretta dipendenza dalle dottrine del Condillac e di Cartesio, per le questioni più strettamente filosofiche, e dalle dottrine gallicane per i problemi di carattere politico ed ecclesiologico, nella cui trattazione spesso fu portato ad esasperare i toni tradizionali del giurisdizionalismo e del regalismo napoletano.
Ordinato sacerdote nel 1777, si distinse presto per i suoi accesi sentimenti anti-curiali, difendendo in un suo scritto del 1780 il diritto regio nella collazione dei benefici vescovili. Analogo tema, ma con un linguaggio molto più violento, riprese nell'opera Lo spirito della giurisdizione ecclesiasticasulle consagrazioni de' vescovi (Napoli 1788), che ottenne uno straordinario successo anche fuori del Regno, tanto da avere nel giro di pochi mesi una seconda edizione.
La controversia intorno al potere di nomina dei vescovi si trascinava da anni fra il Regno e la S. Sede, con la conseguenza che molte sedi vescovili erano rimaste vacanti. Il C. sostiene che il re, costituito da Dio protettore della Chiesa, può di sua iniziativa eleggere i nuovi vescovi per rimediare al male provocato dal pontefice, il quale non si mostra sollecito alla "vedovanza delle Chiese", la salute delle quali è legge suprema cui va posposta ogni altra preoccupazione. Qualora il papa non acconsentisse ad istituire i vescovi eletti dal re, sarebbe legittima la loro consacrazione da parte dei metropolitani. Servendosi di passi dei Padri della Chiesa e di numerosi esempi storici che confermano i limiti della giurisdizione pontificia, oltre che delle teorie di alcuni canonisti, quali il Cavallari, il Van Espen, il Pereira, egli dimostra come il papa non abbia alcuna autorità di dispensare benefici, dignità, vescovati se non per una prassi semplicemente tollerata; e come i vescovi, in quanto successori degli apostoli, ricevano la loro potestà di governare la Chiesa direttamente da Cristo e non debbano quindi riconoscere nulla riservato al papa per diritto divino, ma solo "alcune cose per diritto ecclesiastico e per consuetudine". Essi inoltre - afferma ancora il C. riprendendo la dibattuta questione del conciliarismo - sono "ecumenici", cioè hanno diritto al governo di tutta la Chiesa e possono anche convocare il concilio.Il libro, per la violenza del tono e per l'audacia delle idee, impressionò anche il Simioli, il quale, come revisore ecclesiastico, si rifiutò di pronunziare un giudizio. Poiché anche i teologi successivamente nominati per giudicare, l'ortodossia del libro non riuscirono a mettersi d'accordo, l'arcivescovo, di Napoli, G. Zurlo, decise di dichiararlo "scandaloso, sedizioso, pericoloso in sé e molto più nelle conseguenze", vietandone la pubblicazione. Ma la Relazione della Real Camera, stesa il 16 ag. 1788 dal ministro C. De Marco, convinto assertore, delle dottrine giannoniane, dichiarava che l'opera non conteneva alcuna dottrina ereticale o erronea e che pertanto i teologi meritavano una severa "riprensione"; aggiungendo inoltre, sulla scottante questione della censura sulla stampa, che "la Chiesa non ha la facoltà di vietare la stampa dei libri, essendo tal facoltà riservata soltanto alla podestà sovrana". Il discusso libro fu pertanto pubblicato ed accolto con grande favore dagli ambienti regalisti e giansenisti, segnatamente da S. de' Ricci, al quale il fratello del C., Giuseppe, aveva inviato alcuni fogli dell'opera per ottenere da lui una "lettera di approvazione da potersi stampare alla testa del libro per conciliarne credito". Il Ricci, del quale il C. era un entusiasta ammiratore, giudicò l'opera "dotta, moderata, opportuna" e ne sollecitò la pubblicazione "per il vantaggio della Chiesa e dello Stato", ma tardò a spedire la richiesta lettera di approvazione, per cui quando C. giunse a Napoli Lo spirito era già stato stampato.
Le continue controversie tra la Chiesa e il Regno di Napoli per la difesa delle rispettive prerogative videro sempre il C. allineato su posizioni di rigido regalismo. Così nella polemica suscitata dalla sentenza di annullamento del matrimonio del duca di Maddaloni, che aveva suscitato molto scalpore perché rimetteva in discussione la legislazione canonica sul matrimonio e rendeva sempre più precari i rapporti tra la corte di Napoli e quella di "Roma, egli assunse un atteggiamento nettamente anticuriale, difendendo in un suo scritto del 1790 l'operato del vescovo, regalista, di Motula (Mottola), monsignor I. Ortiz, che era stato giudice nella causa di appello.
Gli anni successivi segnarono una pausa nell'attività letteraria del Cestari. Anche lui da tempo massone, come tutta la sua famiglia, all'avvento della Repubblica napoletana del '99, mentre i suoi fratelli prendevano parte attiva alla vita politica, si limitò ad accettare l'incarico di segretario della Commissione ecclesiastica, col compito, di formare nel più breve tempo possibile "un catechismo di morale all'intelligenza di tutto il popolo affinché non fosse più agitato dalla superstizione e dall'errore". Come membro della suddetta commissione ordinò la requisizione degli argenti delle chiese per rifornire l'esercito repubblicano. Durante le tragiche giornate del giugno del '99, che segnaronò la fine della Repubblica attaccata dalle bande dei sanfedisti del cardinale Ruffo, egli fu fatto prigioniero insieme con i fratelli Andrea e Nicola, e sottoposto a giudizio della giunta borbonica l'11 novembre dello stesso anno: la sentenza fu di "esportazione" fuori dai reali domini per venti anni.
Secondo alcuni rimase molto tempo a languire nel carcere di Castelnuovo; molto più, probabilmente invece si recò, insieme con numerosi altri esuli, a Marsiglia; nel 1803 era certamente a Milano, ove pubblicò un Tentativo sulla rigenerazione delle scienze, seguito da un Tentativo secondo, (Milano 1804).
In quest'opera, il C. affronta la questione se le scienze siano giunte a quel grado di perfezione che riempie, gli uomini d'orgogliosi o se invece l'edificio scientifico non vada riesaminato interamente con maggiore spirito critico. Traccia quindi a grandi linee una storia delle scienze, dalle arti liberali delle scuole di Carlo Magno al trivio e quadrivio, dalla fondazione delle università agli enciclopedisti, rilevando inesattezze e lacune nella classificazione dello scibile organizzata dall'Encyclopédie.Progetta di conseguenza la costruzione di un nuovo piano organico delle scienze, alla cui coordinazione avrebbero dovuto collaborare i letterati di tutta Europa; a tal scopo auspica la istituzione di una "Federazione internazionale" fra tutte le università, accademie e istituti col compito di favorire, lo sviluppo intellettuale della gioventù, e la costituzione di una "Biblioteca critica universale sulle arti e sulle scienze" e di un "Fondo letterario" che offra a tutti gli scrittori le spese per la stampa e il compenso per il lavoro. L'opera nel complesso risente fortemente dei principî della filosofia di Cartesio, che il C. saluta "come il genio che spezza le catene del servaggio aristotelico e rivendica i diritti della ragione". Fu recensita positivamente da V. Cuoco, il quale tenne, presente in più punti le proposte del C. quando, nel 1809, per incarico di Gioacchino Murat, elaborò un progetto per l'ordinamento della pubblica istruzione.
Dopo la fuga da Napoli di Ferdinando IV nel 1805, il C. poté rientrare in patria; gradito ai due sovrani napoleonidi, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, nel decennio della dominazione francese a Napoli, per le sue idee politiche che garantivano una proficua collaborazione col nuovo regime, fu nominato da Giuseppe professore di filosofia nelle scuole del Gesù Vecchio nel 1806, e nel primo collegio reale istituito dal re, nel 1807. In quell'anno fece parte della commissione nominata dal re per la scelta dei testi da usarsi in tutte le scuole del Regno, inclusi i seminari, al fine di realizzare quella uniformità della pubblica-istruzione cui mirava il governo. Divenuto nel 1809 canonico del capitolo di Napoli, nello stesso anno fu preposto dal Murat alla elaborazione di un piano per la riapertura dei seminari che avevano sospeso la loro attività per la progressiva degradazione dell'istituto e per le leggi restrittive sul numero del clero emanate da Giuseppe. Nel 1810 furono pubblicati a Napoli i suoi Discorsi due relativi alla scienza dell'uomo, che provocarono alte critiche negli ambienti ecclesiastici più conservatori. Confutato ripetutamente e spinto a fare una pubblica ritrattazione, il C. non si piegò e, forte dell'approvazione dello stesso vicario generale di Napoli, B. Della Torre, l'anno successivo pubblicò una blanda giustificazione, respingendo le accuse di coloro che, a suo parere, non per amore di scienza avevano suscitato lo scandalo, ma per invidia per i suoi meriti dottrinali e ancor più per le sue attuali fortune.
L'opera contiene le osservazioni e le note che il C. aveva aggiunto in appendice alla edizione critica delle Istituzioni di logica e metafisica di F. Soave, da lui curata a Napoli negli anni 1807-08 e che l'editore aveva pubblicato poi separatamente per "speculazione mercantile". Il C., affronta la questione dei rapporti fra religione e filosofia, ponendo una netta distinzione fra la religione, che basa la sua autorità esclusivamente sulla rivelazione, e la filosofia, che poggia invece su basi razionali; mentre le scienze - egli afferma - procedono dalla mente e si sviluppano gradualmente grazie alla speculazione razionale, la religione, che ha la sua culla nel cuore, rimane un puro fatto psicologico, una disposizione naturale dell'animo. La fede, che è "una specie di sesto senso che il Creatore accorda o nega secondo il suo beneplacito", rende simili, di fronte al dogma rivelato, il più rozzo uomo del mondo e l'ingegno più dotto e penetrante. Le idee filosofiche del C. riflettono esplicitamente le dottrine del Condillac e di Cartesio; non mancano tuttavia le influenze di autori italiani, quali il Genovesi e il Filangieri, che egli chiamò specificamente in causa nella difesa che fu costretto a fare dei suoi scritti.
Negli ultimi anni lavorava ad una vasta opera sul cristianesimo, in cui si proponova di analizzare la purezza e la genuinità della dottrina della Chiesa contemporanea; ma a metà del lavoro la morte lo colse a Napoli il 4 giugno 1814.
Fra le altre opere, si ricordano: Esame del diritto di patronato del Re N. S. sopra tutte le Chiese del Regno di Napoli, Napoli 1780; Schiarimento storico critico di alcune carte e documenti concernenti la nullità della II sentenza sulla causa matrimoniale del duca e duchessa di Maddaloni, ibid, 1790; Memorie istorico-critiche relative al vincolo matrimoniale dei cristiani cattolici, ibid. 1809, in cui, senza combattere né difendere il divorzio, si propose di esaminare i fatti e la pratica dell'antichità, e i giudizi della Chiesa nelle adunanze sinodali.
Fonti e Bibl.: V. Cuoco, Saggio storico sulla rivol. napoletana del '99, a cura di N. Cortese, Firenze 1926, p. 172;Id., Scritti vari, a cura di N. Cortese - F. Nicolini, I, Bari 1924, pp. 112-114;M. D'Ayala, Vita degli italiani benemeriti della libertà e della patria morti combattendo, Firenze 1868, p. 146 e n.; A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelle Due Sicilie, Palermo 1901, pp. 268 s.; A. Simioni, Le origini del Risorgimento politico nell'Italia meridionale, I, Messina 1925, p. 238; B. Croce, La vita religiosa a Napoli nel Settecento, in Uomini e cose della vecchia Italia, Bari 1927, pp. 140 s., 153, 155; A. C. Jemolo, Il giansenismo in Italia prima della rivoluz., Bari 1928, p. 390 e n.; G. Natali, Il Settecento, Milano 1944, p. 300;L. Marini, P. Giannone e il giannonismo a Napoli nel '700, Bari 1950, pp. 136 s., 149;D. Ambrasi, Per una storia del giansenismo napoletano,Giuseppe e G. Cestari, Napoli 1954; Id., Giuseppe e G. Cestari nella rivoluzione del 1799, in Il Fuidoro, V (1958), pp. 23-26;C. Caristia, Riflessi politici del giansenismo ital., Napoli 1965, pp. 284 s., 287-289;M. A. Tallarico, Il vescovo B. della Torre e i rapporti Stato-Chiesa nel decennio francese a Napoli(1806-1815), in Annuario dell'Ist. storico ital. per l'età moderna econtemporanea, XXVII-XXVIII (1975-76) pp. 175 ss., 340 ss.;D. Ambrasi, Riformatori e ribelli a Napoli nella seconda metà del Settecento. Ricerche sul giansenismo napoletano, Napoli 1979, pp. 232-57.