GENETICA (XVI, p. 509; App. II, 1, p. 1022)
La g., negli ultimi anni, ha continuato a svilupparsi e progredire molto rapidamente, e ha acquisito molti fatti di grande rilievo per la biologia, sia pura sia applicata, continuando a mantenere la posizione di punta, fra le varie discipline biologiche, che aveva conquistato negli anni precedenti. In stretta colleganza con la biochimica e la biofisica, ha spinto più oltre verso il livello delle dimensioni molecolari l'analisi della struttura del materiale genetico, e in pari tempo ha perseguito lo studio dei fenomeni genetici su base biochimica, pervenendo a risultati di importanza fondamentale. D'altro lato, lo studio dei fenomeni genetici nelle popolazioni ha tratto il problema dell'evoluzione nell'ambito della scienza sperimentale, e ha recato nuove visuali e nuova vita alla biologia sistematica e descrittiva. La genetica si avvia dunque ad essere una disciplina centrale, sintetica, verso cui confluiscono e in cui trovano coordinamento e luce molte delle discipline speciali in cui è frazionata la biologia.
Fra i progressi più notevoli conseguiti negli ultimi anni, vanno segnalati soprattutto quelli che si riferiscono a: 1) struttura e organizzazione del materiale genetico; 2) scoperta di varî modi di ricombinazione e di trasferimento del materiale ereditario; 3) importanza del citoplasma nei fenomeni genetici (eredità citoplasmatica); 4) genetica fisiologica e aspetto biochimico dell'azione primaria del gene; 5) genetica di popolazioni e problemi evoluzionistici.
1. - Struttura e organizzazione del materiale genetico. a) Al livello subgenico. - Secondo la concezione classica, della scuola di Th. H. Morgan, il gene è l'unità strutturale ultima e indivisibile dell'idioplasma: l'atomo della biologia. E una unità funzionale, in quanto ogni gene possiede una determinata funzione; un'unità di mutazione perché ogni gene è capace di mutare, passando ad un diverso stato allelico, con variazione della funzione esplicata; un'unità di ricombinazione, perché i varî geni di un cromosoma possono venire ricombinati dal crossing over o scambio, mentre nell'interno del gene, per definizione, non avviene lo scambio. Il cromosoma è quindi concepito come una collana le cui perle sono disposte in un ordine lineare preciso: ogni perla rappresenta un gene, e il filo che collega le varie perle è un materiale "intergenico" nel quale soltanto possono verificarsi le rotture e le risaldature che danno origine agli scambî.
Questa concezione, schematica e semplicistica, che rappresenta il gene come una particella materiale discreta e autonoma, soddisfa le esigenze del mendelismo e della teoria cromosomica e realizza quell'idea di una struttura particolata o "meristica" dell'idioplasma, che fu cara a molti biologi del sec. XIX. Essa è tuttora sufficiente alla descrizione di molti fenomeni della genetica (genetica formale).
Contro questo modo di concepire la struttura fisica del patrimonio ereditario si levarono però ben presto varie critiche. R. Goldschmidt (1927, 1938), S. Serebrovsky (1930), N. K. Koltzoff (1928, 1939) rilevarono le insuflìcienze della teoria dell'indivisibilità e dell'assoluta autonomia del gene, e ritennero opportuno invece concepirlo come suddiviso in unità di ordine inferiore (sub-geni). Alcuni autori negarono l'esistenza di materiale intergenico, e proposero di considerare il gene come un segmento di un continuum (il cromosoma), che non ha limiti esattamente definibili.
Ma le ricerche fondamentali, che hanno condotto ad una radicale revisione delle idee correnti sul gene, ebbero inizio nel 1945. E. B. Lewis (1945) definì, con ricerche su Drosophila, un concetto che era già stato intravisto da Serebrovsky, e denominato pseudoallelismo da B. Mc Clintock (1944). Negli anni successivi lo stesso autore e M. M. Green fornirono ulteriori ragguagli in proposito. Com'è noto, un gene può presentarsi in più di due stati allelici: è il fenomeno dell'allelia multipla (v. genetica). Si riteneva che i varî alleli di una serie occupassero tutti lo stesso locus, e che, quindi, in un individuo non potessero essere presenti più di due di essi, uno in ciascun cromosoma della coppia nell'assetto diploide. Conseguentemente si riteneva che il locus si comportasse rigorosamente come un'unità dal punto di vista dello scambio. Con opportuni incroci, esaminando un grandissimo numero di individui, si scoperse che fra taluni alleli di uno stesso locus (per es. star, lozenge, white, ecc., in Drosophila) avvengono scambî. La loro frequenza è tanto bassa che si richiede un elevatissimo numero di osservazioni per determinarla. Per es. nel locus lozenge (situato nel cromosoma X; determina la forma a losanga dell'occhio, oltre ad altri caratteri) M. M. Green e K. C. Green (1949) hanno trovato che gli alleli conosciuti sono localizzabili in tre gruppi, fra i quali sì hanno le percentuali di scambio rispettivamente di 0,09% e 0,06%. Non è detto che fra gli allelì appartenenti allo stesso gruppo non possa anche verificarsi lo scambio, con frequenza ancora più bassa. In ogni modo il locus lozenge è certamente suddivisibile in almeno tre subloci, che si comportano come unità dal punto di vista della ricombinazione. Anche in white sono stati riconosciuti quattro gruppi di alleli separabili fra loro da scambî, e non è escluso che ciascuno di questi sia ulteriormente suddivisibile. Fenomeni analoghi sono poi stati descritti in altri geni di Drosophila e di granoturco. G. Pontecorvo ha messo in evidenza fatti simili nella muffa Aspergillus, M. Demerec nel batterio Salmonella, S. Benzer in un fago. Le più piccole frequenze di scambio finora misurate fra alleli sono dell'ordine di grandezza di 10-5 in Drosophila e di 10-6 in Aspergillus. Si hanno buone ragioni per supporre che i fenomeni descritti siano di carattere generale, che cioè lo scambio o crossing-over avvenga normalmente fra i varî alleli di una serie di alleli multipli, cioè nell'ambito dello stesso gene.
Perciò il Pontecorvo (1958) ha fatto osservare che non ha senso parlare ancora di pseudoallelismo come di un fenomeno particolare ad alcune serie di alleli multipli. Bisogna convenire che ognuna delle unità che chiamiamo gene non è - come si era creduto - un'unità dal punto di vista della ricombinazione, ma è costituita da un certo numero di parti che il Pontecorvo propone di chiamare siti. Ciascun sito è capace di mutare indipendentemente dagli altri, e di ricombinarsi, sia pure con frequenza bassissima, con gli altri siti della stessa sezione del cromosoma. La "sezione" è il gene della genetica classica: S. Benzer (v. oltre), ha proposto il nome di cistrone. Il numero dei siti finora identificati in un gene varia da 3-5 in Drosophila e in Aspergillus, fino a una quarantina nel fago.
Oltre al criterio della possibilità di ricombinazione, che non permette di stabilire una netta demarcazione fra alleli dello stesso locus e alleli situati in loci vicini, secondo la genetica classica, sono risultati dalle ricerche di Lewis e da quelle di Pontecorvo due criterî funzionali di grande valore: la complementarità o non complementarità, e l'effetto cis-trans, o effetto Lewis. Dati due mutanti recessivi m1 e m2, si dice che sono complementari se l'eterozigote m1/m2 ha il fenotipo normale; sono non-complementari se l'eterozigote presenta il fenotipo mutato. Il primo caso è caratteristico di due geni diversi; il secondo si verifica spesso quando si tratta di due geni dello stesso locus. Il caso della non complementarità, che denota un'affinità funzionale, è di solito unito all'effetto cis-trans, analizzato da Lewis. Questo autore ha dimostrato che negli alleli di una serie multipla si ha un curioso effetto di posizione, per cui, nel caso dell'eterozigote, se i due alleli sono sullo stesso cromosoma
si ha il fenotipo normale, dominante; se sono su due cromosomi diversi
si ha il fenotipo recessivo. Ciò è probabilmente interpretabile come una localizzazione di un fattore funzionale: due geni appartenenti ad una medesima unità possono meglio integrare le proprie funzioni se si trovano vicini, sullo stesso cromosoma, anziché sui due omologhi. Geni situati in loci differenti, secondo la genetica classica, non presentano effetto cis-trans: i fenotipi sono eguali nei due casi. Da questo effetto cis-trans il Benzer ha tratto il nome di cistrone per l'unità funzionale, che consta di numerose sotto-unità o siti. Il cistrone corrisponde grosso modo al gene della genetica classica.
Un'analisi eseguita in base a criterî funzionali è quella condotta da Green (1952, 1954) sul locus vermilion, gene situato nel cromosoma X di Drosophila, il cui allele normale consente la formazione del pigmento bruno dell'occhio. Le conclusioni di Green si collegano alla ipotesi emessa da E. B. Lewis (1951) che le due unità di ricombinazione abbiano una funzione legata in senso sequenziale: che cioè m1 controlli la sintesi di un prodotto A e m2 quella di un prodotto B, derivante da A, come indicato dal seguente schema, in cui S indica il substrato di partenza
L'effetto cis-trans si potrebbe spiegare ammettendo che la seconda tappa AS-107???B sia possibile (o più facile) solo quando la sostanza A si trovi nello stesso cromosoma in cui deve agire il gene m2. Se questo è situato su di un altro cromosoma, la sua azione su A è resa impossibile, o più diíficile.
Si tratta per ora di ipotesi, ma è da rilevare che per la prima volta scaturisce dall'analisi del materiale genico la possibilità di scoprire, a questo livello, un criterio d'integrazione funzionale, che era completamente ignoto alla genetica classica.
Pontecorvo e collaboratori hanno eseguito ricerche specifiche sulla risoluzione di geni in unità subgeniche, e hanno ottenuto notevoli risultati in Aspergillus. In Salmonella M. Demerec e collaboratori hanno potuto compiere un'analisi piuttosto spinta delle strutture dei diversi geni, valendosi di un mezzo particolare, attuabile nei batterî, la trasduzione (v. batterio). Ma l'analisi più completa è quella eseguita da S. Benzer sul batteriofago T4. Con mezzi molto ingegnosi, è riuscito al Benzer di costruire una micro-mappa di un singolo cistrone, spingendo l'analisi fino a risolvere dimensioni estremamente piccole. Egli ha potuto dimostrare che il segmento di materiale genico in cui risiede il gene r II (riconoscibile fenotipicamente come mutazione r II, che dà un certo tipo di placche dovute a lisi batterica nella coltura di determinati ceppi di Escherichia coli) è costituito da due cistroni A e B. Ciascuno di questi, a sua volta, è costituito da un gran numero di siti, che sono unità di mutazione e di ricombinazione indipendenti disposte in ordine rigorosamente lineare. Ognuna delle mutazioni di ciascuno dei siti si presenta fenotipicamente come r II; ma, con l'analisi genetica più fine è riconoscibile dalle altre. Il numero totale dei siti riconosciuti da Benzer in un cistrone è una quarantina, ma l'autore calcola che ciascuno dei cistroni A e B possa essere costituito da circa 300 siti.
Il potere risolutivo dell'analisi genetica, che, con la scoperta del gene era andato già molto oltre il limite della visibilità microscopica, si è spinto così ancora più innanzi. Riferendosi allo schema della struttura della catena dell'acido desossiribonucleico (DNA) (v. oltre) il Benzer stima che la lunghezza di ciascuno dei due cistroni corrisponda a circa 4000 coppie di nucleotidi, e che la dimensione dei siti sia dell'ordine di grandezza di poche coppie di nucleotidi.
Quest'analisi della struttura del gene raggiunge quindi il livello molecolare. Benché alcune delle conclusioni siano ancora ipotetiche, hanno indubbiamente grande valore come prima approssimazione ad una più intima conoscenza della struttura del materiale genetico, e come ipotesi di lavoro per promuovere nuove ricerche. Le conclusioni più importanti e più sicure sono oggi le seguenti: 1) i cromosomi sono divisibili in sezioni entro ciascuna delle quali i mutanti recessivi presentano il fenomeno della non complementarità; questi segmenti, sostanzialmente corrispondenti ai geni della genetica classica, sono stati chiamati cistroni (S. Benzer, 1957); 2) ogni cistrone è composto da segmenti che si comportano come unità dal punto di vista della mutazione e della ricombinazione; queste unità sono state chiamate siti (G. Pontecorvo, 1952); 3) i siti hanno una disposizione strettamente lineare; la linearità della struttura genetica è dunque riconoscibile anche a questo livello; 4) si può stimare che ogni cistrone sia costituito da alcune centinaia di siti, separabili con il crossing-over; la dimensione dei siti è probabilmente dell'ordine di poche coppie di nucleotidi della catena del DNA; 5) il fenomeno della non complementarità dei mutanti di un cistrone e l'effetto cis-trans dimostrano una notevole integrazione di funzioni e confermano la concezione del cistrone come unità funzionale; probabilmente è a questo livello di dimensioni che si può cercare la cooperazione e l'integrazione funzionale, che non si è trovata al livello inter-genico e cromosomico; 6) la struttura intra-genica può suggerire interessanti meccanismi di evoluzione del materiale genico (E. B. Lewis, 1951; S. Benzer, 1957; G. Pontecorvo, 1958).
b) Al livello biochimico. - Molte ricerche hanno dimostrato che la base fisica dell'eredità è costituita dall'acido desossiribonucleico (DNA) che, legato con molecole proteiche a formare le desossinucleoproteine, si trova nel nucleo delle cellule, e nelle strutture omologhe degli organismi che non hanno una vera e propria costituzione cellulare (batterî, cianoficee, ultravirus). Il DNA è dunque considerato come il portatore della informazione genetica. Gli acidi nucleici sono costituiti da una sequela di nucleotidi, e ognuno di questi, a sua volta, consta di una base azotata (una purina o una pirimidina), uno zucchero pentoso, e acido fosforico. Nel DNA lo zucchero è il desossiriboso, le purine sono due: adenina e guanina, e le pirimidine anche due: timina e citosina. La molecola di DNA è una lunga catena, per la quale J. D. Watson e F. H. C. Crick hanno proposto (1953) il seguente modello, che si ritiene tuttora valido: la molecola del DNA consiste in una doppia catena di nucleotidi, che ha andamento spiralato, come una scala a chiocciola; i "gradini" di questa scala, che connettono le "rampe laterali", sono costituiti dal legame di due basi, legame che avviene sempre nei seguenti modi: la timina si connette, con un legame d'idrogeno, con l'adenina; la citosina con la guanina. Così le due catene sono complementari. La riproduzione sarebbe preceduta da una separazione delle due catene, ciascuna delle quali ricostruirebbe immediatamente, con materiale desunto dal mezzo ambiente, la propria catena complementare, servendo come modello (in ingl. template). L'informazione genetica sarebbe data dall'ordine di successione delle doppie basi, come un codice lineare scritto in un alfabeto di quattro lettere. Il trasferimento della informazione alle proteine citoplasmatiche avverrebbe tramite un'altra qualità di acido nucleico, lo RNA (acido ribonucleico), che si elabora nel nucleo sotto il controllo del DNA e passa nel citoplasma, dov'è abbondante soprattutto là dove è attiva la sintesi delle proteine.
Alcune parti dei meccanismi qui sommariamente indicati sono ancora incompletamente conosciute, o ipotetiche, ma non v'ha dubbio che la via è giusta e condurrà alla interpretazione di molti fenomeni biologici su base molecolare.
c) Al livello citologico. - Notevoli progressi sono stati fatti negli ultimi anni nel campo della citologia e della citogenetica (per rassegne generali cfr. M. J. D. White, 1954, C. P. Swanson, 1957) che rientrano nel quadro delle nozioni precedentemente acquisite. Oltre a ricerche dirette a indagare la struttura dei cromosomi con l'ausilio del microscopio elettronico (cfr. H. Ris, 1957) o a delineare la mappa citologica di singoli cromosomi umani (G. Yerganian, 1957) si devono ricordare gli importanti dati acquisiti sulla citogenetica dell'uomo.
J. H. Tijo e A. Levan (1956), studiando con la tecnica dei preparati per schiacciamento i cromosomi dei fibroblasti provenienti da polmone embrionale umano e coltivati in vitro, ottennero le prime chiare figure di cromosomi umani, e trovarono che il numero diploide, in 252 su 256 cellule osservate è 46. C. E. Ford e J. C. Hamerton (1956) confermarono questo reperto negli spermatociti: su 188 cellule provenienti da tre individui diversi, 174 mostravano 23 bivalenti, 14 numero minore. Successivi lavori di Ford et al. (1958), Tijo e T. T. Puck (1958), E. H. Y. Chu e N. H. Giles (1959), M. Fraccaro e J. Lindsten (1960) hanno recato ulteriori conferme: si può oggi considerare assodato che il numero dei cromosomi nella specie umana è 46, e non 48 come prima era diffusamente riportato nei trattati in base ad antichi lavori. Vi sono cioè 22 coppie di autosomi e la coppia dei cromosomi sessuali, XX nella femmina e XY nel maschio.
L'indagine è andata oltre, nel tentativo di individuare le singole coppie. I cariogrammi delineati da Tijo e Puck (1958), da Chu e Giles (1959), da J. A. Böok, M. Fraccaro e J. Lindsten (1959) concordano nelle linee essenziali.
In alcune condizioni patologiche si trovano ben definite variazioni del cariotipo. Dapprima furono riconosciute, in base all'aspetto della "cromatina sessuale" nei nuclei in riposo, le anomalie della coppia dei cromosomi sessuali. In alcuni casi queste hanno potuto essere viste direttamente nei cromosomi mitotici. Queste anomalie si trovano in alcuni stati intersessuali, quali la sindrome di Turner e la sindrome di Klineferter (v. sesso, in questa App.).
Anche negli autosomi è stata descritta un'anomalia caratteristica. Nel 1959 J. Lejeune, N. Gautier e N. Turpin pubblicarono di aver trovato 47 cromosomi nelle cellule somatiche di tre pazienti affetti da mongolismo. P. A. Jacobs et al. (1959) confermarono questa affermazione. Oggi sono stati studiati da varî autori più di una ventina di casi di mongolismo: in tutti sono stati trovati 47 cromosomi. L'elemento soprannumerario appartiene ad una delle coppie più piccole di autosomi, probabilmente quella indicata da alcuni autori col n. 21 (la denominazione delle coppie cromosomiche nell'uomo non è ancora standardizzata, i varî autori usano simboli diversi). Sono stati anche descritti casi in cui, oltre alla trisomia per il cromosoma 21, vi è un cromosoma Y soprannumerario, così che la formula degli eterocromosomi è XXY; questi individui presentano, oltre il mongolismo, disgenesi delle gonadi di tipo Klinefelter.
Gli studî sulla cariologia umana e sulle sue alterazioni in particolari stati patologici sono appena iniziati; ma, come si può rilevare anche dal breve riassunto che ne abbiamo fatto, i risultati ottenuti sono molto interessanti, ed è lecito sperare che in avvenire se ne acquisiscano parecchi altri. Particolari forme morbose, quale il mongolismo, che non sembravano rientrare nello schema mendeliano, si rivelano determinate da quelle mutazioni che i genetisti chiamano aneuploidia, o, più genericamente, mutazioni del cariotipo.
2. - Nuovi sistemi di ricombinazione e di trasferimento del materiale ereditario. - Molti sistemi di ricombinazione - oltre a quello tipico dello scambio tra cromosomi omologhi durante il processo meiotico - sono stati scoperti, specialmente nei microrganismi. In alcuni casi, come nella trasformazione e nella trasduzione dei batterî, conviene parlare, piuttosto che di ricombinazione, di trasferimento di caratteri ereditarî per via diversa da quella della ricombinazione genetica (v. batterio).
Recentemente sono stati pubblicati i risultati di esperimenti di iniezioni di acido desossiribonucleico proveniente da una data razza di anatre in embrioni di una razza diversa. Le anatre che hanno subìto questa operazione mostrerebbero alcuni caratteri della razza da cui proviene il DNA, e tali caratteri sarebbero anche trasmissibili ai discendenti. Questi risultati (J. Benoit, 1957), che potrebbero interpretarsi alla stregua dei fenomeni di trasformazione nei batterî, sono però considerati piuttosto dubbY dalla maggioranza dei biologi. Tra i varî modi di ricombinazione studiati in questi ultimi anni, uno è particolarmente interessante per i riflessi che può avere in genetica umana: la ricombinazione mitotica. I lavori di C. Stern (1936) sui mosaici somatici di Drosophila avevano dimostrato che nelle cellule somatiche possono avvenire fenomeni di ricombinazione dovuti a scambio somatico, o mitotico. Pontecorvo ha studiato questo fenomeno nei funghi (muffe) e se ne è valso per costruire le mappe cromosomiche. È probabile che fatti analoghi avvengano anche nelle cellule somatiche degli organismi diploidi. Le colture in vitro di cellule umane potrebbero servire a dimostrare tali fenomeni, e in caso positivo sarà forse possibile arrivare ad un'analisi genetica dei cromosomi umani altrettanto fine quanto quella esposta nel paragrafo precedente che ha condotto alla determinazione dei cistroni e dei siti. Su questo indirizzo di indagine sono oggi impegnati parecchi ricercatori.
Secondo la terminologia proposta da Pontecorvo (1954) tutti i processi di ricombinazione genetica che non si basano sulla meiosi e la cariogamia, che sono caratteristiche dei processi sessuali, si potrebbero chiamare "parasessuali". Altri autori hanno proposto termini diversi. Il nome di fenomeni parasessuali è quindi rimasto legato ad un particolare ciclo illustrato da Pontecorvo e collaboratori nelle muffe. Tale ciclo può coesistere con il ciclo sessuale (per es. in Aspergillus nidulans) oppure può essere il solo modo di ricombinazione di cui dispone la specie, la quale manca di ciclo sessuale (per es. Aspergillus niger).
Ricordando che nelle ife di questi funghi filamentosi esiste l'eterocariosi (cioè la presenza, in una stessa cellula, di nuclei geneticamente diversi) il ciclo parasessuale sarà chiaro dalle indicazioni schematiche seguenti. Vi è dapprima la fusione di due nuclei aploidi dissimili, che si trovano in un eterocarion (cioè una cellula con nuclei geneticamente diversi), e danno un nucleo diploide eterozigote. Tale nucleo può riprodursi mitoticamente, dando origine ad altri nuclei diploidi ed eterozigoti che vengono a trovarsi in un'ifa eterocariotica accanto a nuclei diploidi; oppure dando origine a ife monocariotiche, che contengono soltanto questo tipo di nuclei. Durante la moltiplicazione di questi nuclei diploidi può avvenire la ricombinazione mitotica. Talvolta i nuclei diploidi possono dar luogo nuovamente a nuclei aploidi.
La fusione di nuclei geneticamente diversi, seguita da ricombinazione mitotica e da successiva aploidizzazione, determina il trasferimento di geni da un cromosoma ad un altro: è un processo di ricombinazione genica non legato a fenomeni sessuali.
La scoperta di questi varî sistemi di ricombinazione diversi dallo scambio meiotico è importante, perché dimostra che anche negli organismi che non presentano fenomeni di sessualità si può avere, per altri meccanismi, il trasferimento di materiale genico da un ceppo all'altro, fatto che però sostituisce nei suoi effetti la classica anfimissi.
3. - Eredità citoplasmatica.- La questione se il citoplasma abbia importanza per l'eredità, cioè sia capace di trasmettere l'informazione genetica, è stata lungamente dibattuta e si è andati alla ricerca di una soluzione sperimentale. Caratteri che si trasmettono per via citoplasmatica, evidentemente, non devono presentare il comportamento previsto dalla legge di Mendel, il quale è connesso con il movimento dei cromosomi. È presumibile inoltre che tali caratteri, se esistono, debbano presentarsi come esempî di eredità materna, o matroclina, perché il gamete femminile nella grande maggioranza dei casi è molto più ricco di citoplasma che non quello maschile.
Nel citoplasma delle cellule vegetali esistono corpi autoriproducentisi, che hanno una notevole autonomia rispetto al nucleo, i plastidî. È noto da lungo tempo che i plastidî costituiscono un sistema ereditario largamente - sebbene non totalmente - indipendente dal nucleo. Una cellula - o un organismo pluricellulare - può avere cloroplasti tutti verdi, o in parte verdi e in parte incolori perché incapaci di formare clorofilla, oppure tutti incolori, e ciò dipende dal tipo dei cloroplasti che la cellula o l'organismo ha ricevuto dal citoplasma materno. I plastidî infatti si moltiplicano conservando le proprie qualità - a meno che non vadano soggetti ad una mutazione.
Altri casi di eredità citoplasmatica sono stati descritti recentemente. La sensibilità all'anidride carbonica studiata da Ph. L'Héritier nella Drosophila deve essere attribuita a una sostanza che si presenta in particelle di natura proteica, dell'ordine di dimensioni delle particelle in un virus, e che, come queste, sono dotate della capacità di autoriprodursi. Sono distribuite nel citoplasma e si comportano in modo molto simile alle particelle virali. Con accorgimenti opportuni si può sfasare il loro ciclo di sviluppo rispetto al ciclo di riproduzione delle cellule del moscerino, e addivenire così alla "guarigione" dell'individuo, cioè al ripristino della condizione normale di resistenza al CO2.
Un fattore citoplasmatico che si comporta in modo analogo, in alcune specie, a Drosophila (G. Magni 1955) è quello che determina una mortalità differenziale dei maschi, così che la popolazione risulta costituita da una grande maggioranza di femmine.
In un infusorio, Paramecium aurelia, T. M. Sonneborn ha descritto un carattere chiamato killer, che si trasmette per via citoplasmatica, ed è largamente (ma non totalmente) indipendente dal nucleo. Consiste nella capacità degli individui che lo portano di secernere una sostanza che, riversandosi nell'acqua di coltura, uccide altri individui della stessa specie non forniti del carattere kappa (ceppi sensibili). Il Sonneborn ha dimostrato che il carattere killer è dovuto alla presenza nel citoplasma di particelle kappa, di dimensioni maggiori di quelle dei virus, visibili al microscopio e colorabili con la reazione specifica dell'acido desossiribonucleico. Anche in questo caso sembra dunque trattarsi di particelle che vivono quasi come simbionti.
È probabile che le future ricerche rivelino altri casi di sistemi ereditarî per via citoplasmatica, legati a corpuscoli autoriproducentisi. Il citoplasma in sé - astrazion fatta cioè dai corpuscoli che in esso possano esistere - si comporta invece soprattutto come un substrato specifico per l'azione dei geni.
4. - La genetica fisiologica e l'aspetto biochimico dell'azione primaria del gene. - Fin dal 1902 A. E. Garrod, studiando l'alcaptonuria, ne riconobbe il fondamento in un fenomeno di quella categoria ch'egli chiamò "inborn errors of metabolism". Questo errore, negli alcaptonurici, consiste nell'incapacità a rompere l'anello benzenico di un amminoacido la tirosina, il quale anello passa così inalterato nell'urina sotto forma di acido omogentisinico. Questo, ossidandosi all'aria, conferisce il colore nero caratteristico delle urine degli alcaptonurici. Poiché la distribuzione familiare dell'anomalia è interpretabile con le leggi di Mendel, ammettendo che essa sia dovuta ad un gene recessivo, il Garrod osservò che il gene in questione doveva controllare un particolare stadio della reazione biochimica e precisamente quello rappresentato dall'ossidazione della fenilalanina e della tirosina. In successivi lavori, e soprattutto nel suo libro, il Garrod sviluppò questa concezione biochimica dell'eredità, sempre con esempî tratti dall'uomo, osservando come questi errori innati del metabolismo rappresentano caratteri estremamente minuti e personali, per lo più bene individuabili con reazioni opportune. Tali caratteri devono rappresentare direttamente l'azione primaria del gene, o essere molto vicini a quest'azione.
Lo studio delle variazioni biochimiche e dell'azione dei geni a questo livello - nato dunque da problemi di genetica umana - fu poi ripreso ed ebbe grande sviluppo con lo studio dei microrganismi e in particolare della muffa Neurospora con una serie di ricerche iniziate da G. W. Beadle ed E. Tatum intorno al 1940.
Si trovarono così molte altre prove dell'azione di determinati geni nel controllo di particolari anelli di una catena di reazioni biochimiche. Da un punto di vista generale ciò ha consentito una interpretazione del modo d'azione dei geni, sulla quale ritorneremo fra poco.
Nel campo della genetica umana, dopo le precorritrici e chiare ricerche del Garrod e quelle quasi contemporanee di Landsteiner, che dimostrarono un altro tipo di differenze biochimiche, cioè quelle inerenti a gruppi sanguigni, le indagini furono attivamente riprese negli anni recenti con risultati del più alto interesse, e di valore generale.
Nel 1949 L. Pauling, H. A. Itano, S. J. Singer e I. C. Wells dimostrarono, con metodo elettroforetico, che l'emoglobina dei pazienti di falcemia o drepanocitosi (sickle-cell trait) consta di due frazioni, di cui una (equivalente a circa il 60% del totale) ha le caretteristiche della Hb normale, l'altra (40% del totale) possiede invece caratteristiche speciali. Gli individui omozigoti, che presentano l'anemia drepanocitica (sickle-cell anemia) presentano il 100% di emoglobina anormale, indicata col simbolo di emoglobina S. Era dunque presumibile che l'azione del gene che determina la falcemia si esplicasse direttamente nel formare HbS anziché normale.
Un importante passo avanti fu realizzato con l'analisi eseguita da v. M. Ingram (1956, 1957) della struttura chimica dei due tipi di Hb. Con un metodo basato sull'esame dei peptidi prodotti dall'idrolisi con tripsina, Ingram poté constatare che la differenza nella catena proteica delle due emoglobine consiste in una piccola diversità nella sequenza degli aminoacidi: l'HbS contiene un radicale valina in una posizione in cui nell'Hb normale v'è acido glutammico. In un altro tipo di Hb anormale, chiamato HbC, scoperto da Itano e J. V. Neel (1950), J. H. Hunt e Ingram (1958) sono riusciti a determinare una analoga variazione al livello chimico: nella stessa posizione si trova, nell'HbC, la lisina. Varie altre emoglobine anormali sono state descritte e riconosciute come più o meno caratteristiche di determinate emopatie (per esempio nella talassemia, o microcitemia, si trova, oltre all'HbA, normale, una certa quantità di una frazione A2, riconoscibile elettroforeticamente, e una certa quantità di Hb fetale). Ma in nessun altro caso l'analisi biochimica è andata tanto avanti come per la HbS e la C.
In questo caso si è veramente raggiunto, con la massima precisione, il livello della struttura molecolare, col risultato che la variazione di una sola molecola di aminoacido in una determinata posizione conferisce alla emoglobina proprietà diverse dalla normale. Il gene che determina la formazione della emoglobina anormale deve dunque agire esattamente in quel luogo, con quella sostituzione.
Il problema dell'azione primaria del gene si è potuto porre su di un terreno solido il giorno in cui lo si è affrontato con metodo biochimico. Ogni gene controllerebbe la sintesi di un enzima, il quale a sua volta - come abbiamo accennato - interviene in uno stadio ben determinato di una reazione biochimica. La teoria "un gene - un enzima" (G. W. Beadle), nonostante le critiche che le furon mosse, è ancora la più plausibile rappresentazione dell'azione genica, ed è infatti coerente con molti dei fenomeni osservati nella genetica biochimica umana. Gli enzimi sono nella grandissima maggioranza proteine, quindi il gene agisce, in ultima analisi, controllando la biosintesi delle proteine enzimatiche secondo quanto è stato riassunto nel paragrafo sulla struttura del materiale genetico studiato a livello biochimico. Evidentemente però influisce anche sulla formazione di proteine prive di azione enzimatica, come l'emoglobina e i mucopolisaccaridi.
5. - Genetica di popolazioni e problemi evoluzionistici. - Uno degli indirizzi, già preconizzato dal Mendel, che più ha avuto sviluppo negli anni recenti è quello che va sotto il nome di "genetica di popolazioni". Si studia cioè la distribuzione e il movimento dei geni nelle popolazioni, con l'intento di scoprire eventuali variazioni di frequenze e loro cause, cioè di sorprendere i fenomeni basali dell'evoluzione (v. evoluzione, nella seconda Appendice).
Il problema del polimorfismo bilanciato, e delle cause che lo mantengono in atto, è uno dei problemi centrali di questo ordine di studî (cfr. E. B. Ford, 1945; J. S. Huxley, 1955). Nell'uomo gli esempî di polimorfismo sono molti: fra quelli geneticamente meglio conosciuti è la distribuzione dei varî gruppi sanguigni che è caratteristicamente diversa in diverse popolazioni. Fino ad epoca recente si riteneva che i gruppi sanguigni fossero da considerarsi come "neutri" dal punto di vista della selezione naturale: l'appartenere al gruppo A o al B, all'M o all'N, ecc., non conferirebbe cioè alcun vantaggio all'individuo che lo porta. In tal modo però non riesce facile spiegare la diversa frequenza dei varî gruppi in una stessa popolazione e la diversa frequenza in popolazioni diverse. Oggi si hanno parecchie indicazioni di un particolare valore selettivo da attribuirsi ad alcuni gruppi (v. la rassegna sintetica di I. A. Fraser Roberts, 1957), ed è molto probabile che, con il progredire delle ricerche, si giunga a riconoscere che i varî gruppi sanguigni hanno valori selettivi diversi.
Anche in altri casi di polimorfismo soccorre la interpretazione selezionistica. Alcuni geni, come quello della falcemia (sickle-cell), della talassemia o microcitemia, della deficienza di 6-glucoso-fosfato-deidrogenasi (che è la condizione per la manifestazione della sindrome clinica del favismo) si trovano con frequenza molto alta in alcune popolazioni. Per esempio la percentuale di microcitemici (eterozigoti per il gene th) raggiunge in alcune regioni d'Italia il 15-18% (E. Silvestroni e I. Bianco). Questo gene è letale allo stato omozigote e determina la morte nella prima infanzia, o comunque prima dell'età riproduttiva. Quindi il gene viene costantemente eliminato dalle popolazioni. Come può la sua frequenza mantenersi così elevata? Lo stesso problema si pone per gli altri geni suaccennati, i quali se non determinano la morte allo stato omozigote, danno però luogo a fenomeni patologici abbastanza gravi, per cui possono essere definiti come semi-letali. L'ipotesi di una elevata frequenza di mutazione, atta a compensare le perdite, che dovrebbe essere limitata ad alcune particolari popolazioni, è da scartare come assai poco probabile e non dimostrata dai dati finora raccolti. L'ipotesi più plausibile, invece, è che in determinate circostanze ambientali gli eterozigoti siano favoriti dalla selezione naturale.
Il fattore di selezione positiva sarebbe, per i tre geni menzionati, la malaria: infatti le popolazioni che presentano elevata frequenza dell'uno o dell'altro dei tre geni si trovano in zone malariche. A. C. Allison (1954) ha recato una prova sperimentale (che è stata molto discussa) di questa ipotesi, a proposito della sickle-cell. L'ipotesi emessa da J. B. S. Haldane (1949) che l'eterozigote per il gene della talassemia o microcitemia sia più resistente all'infezione malarica trova dati in suo favore dalle ricerche di E. Silvestroni e I. Bianco (cfr. G. Montalenti, 1954,1959). Le indagini di M. Siniscalco et al. dimostrano lo stesso fenomeno per il gene della enzimopenia di 6-glucoso-fosfato-deidrogenasi. Questo gene e quello della talassemia coesistono in Sardegna e hanno ambedue frequenze piuttosto elevate: Siniscalco e collaboratori hanno studiato la correlazione delle due distribuzioni. Anche per le aptoglobine e altre proteine plasmatiche sono evidenti fenomeni di polimorfismo, le cui cause sono in corso di studio.
Come risulta da quanto è stato qui riassunto, la g. ha affrontato, e portato molto avanti verso la soluzione, problemi fondamentali di biologia, molti dei quali, prima d'ora, non si riteneva che si potessero impostare su terreno sperimentale. Risulta anche che la specie umana, che per lungo tempo è stata ritenuta materiale poco adatto per l'indagine genetica, si è invece dimostrata particolarmente favorevole per alcuni tipi di indagine.
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