genere e lingua
Con genere e lingua ci si riferisce all’ampia problematica di studi, tipicamente interdisciplinari (in ingl. gender studies), sui risvolti sociali e culturali delle differenze sessuali e biologiche che si riflettono in determinati usi della lingua. In questa accezione, invece di genere si trova spesso il termine inglese gender. In opposizione al termine sesso, che focalizza il dato biologico, genere e gender si sono imposti verso la fine del secolo scorso per indicare il sesso come costruzione sociale e storica all’interno di relazioni di potere, riflesso quindi nel sistema delle varie lingue. Nelle parole di Luraghi & Olita (2006: 13): «‘Genere’ negli ultimi decenni […] viene usato in luogo della parola ‘sesso’ per denotare la costruzione di un’identità, maschile o femminile, certamente legata al sesso naturale, ma determinata da variabili sociali».
Altre categorizzazioni del genere (cfr. Hellinger & Bussmann 2001-2003; Thüne, Leonardi & Bazzanella 2006) distinguono tra:
(a) grammatical gender-marking (marcatura grammaticale di genere), che si presenta nelle lingue che marcano il genere con mezzi morfologici, forme pronominali, classificatori (➔ genere);
(b) lexical gender (genere lessicale), per casi in cui il sesso del referente comporta una distinzione lessicale (cfr. in ingl. niece - nephew, in ital. genero - nuora), o la parola, anche se marcata morfologicamente, risulta neutra rispetto al sesso (come persona in italiano);
(c) social gender (genere sociale), basato su stereotipi sociali e culturali e sulle attese tipiche rispetto ai ruoli femminili e maschili in una data società. Si ripercuote nelle aspettative comuni per cui, ad es., ci si stupisce ancora che un padre prenda un congedo per paternità, oppure ci si aspetta un uomo a capo di un’azienda prestigiosa (anche se ciò non sempre avviene). Naturalmente il genere sociale si collega strettamente alla realtà, ma viene rinforzato attraverso le sue varie manifestazioni e costruito anche in base all’interazione sociale quotidiana e ai molteplici input esterni.
Le connessioni tra lingua, cultura / esperienza e genere si riflettono non solo sulla struttura della lingua e i vari livelli d’analisi (in particolare sul lessico), ma anche sul modo in cui pensiamo, i comportamenti sociali, le valutazioni e le attese che la lingua contribuisce a costruire e tramandare (Berretta 1983; Romaine 1999; Holmes & Meyerhoff 2003). La lingua, infatti, lungi dall’essere neutrale, influenza significativamente i sistemi simbolici dei parlanti.
Le ideologie organizzano le rappresentazioni sociali e sottintendono dinamiche di potere che si riflettono nelle concettualizzazioni e categorizzazioni, trovando forma negli stereotipi e nella lingua. In particolare i significati lessicali sono strettamente associati a determinati schemi mentali, derivanti dall’esperienza e dalla vita sociale.
Per quanto riguarda il genere, stereotipi e lingua rimandano, in modi più o meno evidenti (in alcuni casi oggi in modi più sfacciati che nel passato, in particolare nei mezzi di comunicazione di massa e nella pubblicità), a una generale priorità maschile, a una considerazione della donna soprattutto nei suoi ruoli famigliari (di moglie e madre), e spesso alla sua riduzione a oggetto sessuale, anche nei paesi (come l’Italia) in cui si parla, a livello istituzionale, di pari opportunità (cfr. § 5).
Questa asimmetria tra uomo e donna, che, a livello sociale, trova espressione anche in forme estreme di sopraffazione e violenza (oltre che nella sperequazione di stipendi e ruoli dirigenziali, nella maggiore disoccupazione femminile, nelle rappresentazioni dei ruoli sociali e nei modelli proposti in pubblicità, nei mezzi di comunicazione, nei proverbi, ecc.; cfr. per l’Italia, Marcato 1995; Bazzanella, Fornara & Manera 2006; per altre nazioni, Hellinger & Bussmann 2001-2003; Thüne, Leonardi & Bazzanella 2006), si manifesta anche nella lingua.
«Il genere non è soltanto una categoria grammaticale che regola fatti puramente meccanici di concordanza, ma è al contrario una categoria semantica che manifesta entro la lingua un profondo simbolismo» (Violi 1986: 41). Questo simbolismo, che costituisce il nucleo della questione ‘genere e lingua’, spesso non viene considerato, mentre è importante vedere da una parte le ripercussioni del simbolismo sulla lingua, dall’altra l’azione di rinforzo della lingua sul simbolismo stesso. Proprio lo stretto intreccio, se non la circolarità, della concettualizzazione del genere e delle espressioni linguistiche e non-linguistiche (come le immagini pubblicitarie) che la veicolano è un nodo centrale delle difficoltà per il cambiamento (cfr. § 5).
Un aspetto che spesso sfugge alla consapevolezza, ma su cui si è insistito molto negli studi sul genere per sottolineare l’‘androcentrismo’, è il cosiddetto maschile generico (➔ maschile), per cui i termini maschili (ad es., politici italiani in 1) si riferiscono sia a uomini che a donne, includendo i due sessi:
(1) alcuni politici italiani si sono dimessi
Nella stessa direzione, si parla di ‘servitù grammaticale’ per il fenomeno linguistico dell’➔accordo, secondo cui tra parole maschili e femminili l’accordo è al maschile (cfr. tutti e stretti in 2):
(2) bambini e bambine erano tutti stretti ai loro genitori
Si distingue anche tra usi generici come quello in (1) e altri casi frequenti (falsi generici), sia di parole che di espressioni fisse, come l’uomo della strada, in cui il riferimento a un essere umano specificato in base a certe caratteristiche generali viene sovraesteso anche alla donna, ma di fatto viene colto come fondamentalmente maschile (cfr. i test psicolinguistici citati in Thüne, Leonardi & Bazzanella 2006: 4-5).
Ancora più particolare è l’uso di termini, professionali e no, al maschile, quando il referente, noto e specifico, è donna, come in (3), frammento di parlato quotidiano, in cui solo nella auto-riformulazione (anzi era una donna) appare il riferimento corretto:
(3) il tassista di Bergamo, anzi era una donna, ha trovato subito il negozio
Per quanto riguarda le forme pronominali, l’uso ‘sessista’ in inglese del pronome maschile he per riferirsi a parlante di cui non sia possibile identificare il sesso (uso stigmatizzato dalla critica femminista come uno dei meccanismi tipici di oscuramento / invisibilità della donna) è stato modificato, sulla spinta di atteggiamenti politicamente corretti (➔ politically correct), introducendo, per es., la forma s/he che rispetta la doppia possibilità di referenza o addirittura il femminile she per indicare maschile e femminile insieme.
Sul piano lessicale, si è evidenziato da tempo nel mondo anglofono l’uso generale di -man in composti come chairman «presidente, lett. uomo-della-sedia», mailman «postino, lett. uomo-della-posta», la cui sostituzione con un termine non marcato per genere fu già recepita nel 1977 dal Dictionary of Occupational Titles: chairperson, mailperson.
Sempre a livello lessicale, sono stati analizzati significati e sinonimi di coppie di parole rilevanti per la problematica del genere e lingua: a partire da donna/uomo, si sono studiati termini di parentela, termini allocutivi e saluti, termini occupazionali e titoli professionali. L’analisi fu condotta in due versioni del Thesaurus di Word (1998, 2002), in lingue tipologicamente affini e non, parlate in paesi molto diversi dal punto di vista socio-economico-politico, dall’italiano all’ebraico, dall’inglese al portoghese, dall’olandese al turco (cfr. Bazzanella et al. 2000; Thüne, Leonardi & Bazzanella 2006). Furono considerati sia aspetti quantitativi (i termini maschili della coppia sono più numerosi di quelli femminili) che qualitativi. Si considerarono da un lato la scelta lessicale e il dominio relativo (preminenti quello domestico-familiare o sessuale per la donna, quello personale o professionale per l’uomo), dall’altro la strutturazione della voce e l’ordine di apparizione. I risultati dell’analisi complessiva mostrarono in tutte le lingue, sia pure con differenze significative, una visione patriarcale, fortemente sbilanciata, basata su stereotipi persistenti che implicano superiorità sociale dell’uomo rispetto al ruolo subordinato delle donne. Anche nella designazione delle professioni, perfino in inglese o in olandese (lingue parlate in paesi in cui si è molto discusso e legiferato su queste problematiche), persiste, in uno strumento aggiornato dal punto di vista tecnico, una visione egemonica secondo cui la donna è definita in relazione agli altri e in particolare nel suo ruolo familiare, come moglie, madre, ecc.
Ecco alcuni esempi di asimmetria donna / uomo nel Thesaurus dell’italiano, in cui furono esaminate 537 coppie di termini femminili-maschili:
(a) nella versione 1998 solo sotto uomo appariva individuo, solo sotto donna appariva domestica;
(b) nella versione 2002 a donna corrisponde amante, ganza o dama, solo l’uomo è adulto;
(c) se la donna è collaboratrice domestica, l’uomo è operaio o soldato;
(d) il maschio è l’uomo aitante, mentre la femmina è persona timida, debole, pavida;
(e) nella versione 2002 sono stati inseriti alcuni termini come deputata, soldatessa, avvocata e avvocatessa; mancano, però, parole come matriarca e femminismo, parola quest’ultima che tuttavia appare nella rete lessicale del Thesaurus, erroneamente, come antonimo di maschilismo.
A livello pragmatico si notano disparità significative nel rivolgersi a una persona (➔ convenevoli; ➔ saluto, formule di): se ci si rivolge a un uomo si usa il titolo corrispondente al suo ruolo, mentre alla donna ci si rivolge spesso con Signora o Signorina. Si notano qui due aspetti discriminatori:
(a) l’annullamento, o cancellazione, del titolo della donna (mentre le linee guida emanate su questi temi insistono sempre sull’uso del termine professionale preciso anche nei confronti delle donne, cfr. § 5);
(b) la correlazione dell’appellativo allo stato civile (sposata / non sposata) nel caso della donna ma non nel caso dell’uomo, che è sempre Signore e non Signorino; anche questo uso in Italia è stato modificato solo in parte, mentre in altri paesi il ricorso a un uso ‘neutro’ è più diffuso, anche se non sempre stabilizzato (nel mondo anglofono si è proposto l’appellativo unificato Ms al posto dei due Miss e Mrs, rispettivamente per donna non sposata e sposata).
Il dibattito sul genere ha costituito il centro della riflessione del movimento femminista a partire dal secolo scorso (già, per es., in De Beauvoir 1949), ma si è sempre più esteso, sia ampliando il suo orizzonte interdisciplinare (sociologia, antropologia, storia, diritto, psicologia e scienze biomediche), sia nell’attenzione, se non nella consapevolezza, generale.
Nei primi studi sul linguaggio femminile – senza specificare né il gruppo sociale e socio-economico (che ovviamente influiscono sulla produzione linguistica di qualsiasi parlante) né il tipo di interazione da cui erano tratti i dati – venivano messe in risalto le forme di subordinazione del cosiddetto linguaggio femminile rispetto al linguaggio maschile, che costituiva il valore assoluto di riferimento. Il linguaggio femminile, privo di specificazioni sociolinguistiche che non fossero il sesso, risultava caratterizzato da tratti come i seguenti: spie di incertezza come determinati ➔ segnali discorsivi (ad es., credo, mi pare, non so, ecc.); notevole imprecisione del contenuto; continue richieste di conferma (come non è vero?); alta ricorrenza di diminutivi ed elementi fatici, come gli allocutivi; maggiore cortesia (➔ cortesia, linguaggio della); emotività esasperata; minore competenza lessicale (caratteristiche che si trovano in generale nei gruppi deboli o minoritari). Inoltre venivano attribuiti al linguaggio femminile – considerato sempre monoliticamente – una elevata propensione verso lo standard o, a seconda delle situazioni, caratteristiche opposte, cioè l’adozione di tratti ➔ substandard, per quanto riguarda i fenomeni di conservazione e di innovazione linguistica.
In un momento successivo degli studi si affermò una prospettiva di ‘differenza’, tesa a sottolineare differenze pragmatiche positive del linguaggio delle donne: maggiore cooperatività, coinvolgimento, disponibilità alla negoziazione, capacità di ascolto e di ripresa di quanto detto dall’interlocutore. Anche qui però senza evidenziare caratteristiche individuali, sociali e conversazionali. Si passò quindi a considerare la complessità del fenomeno ‘genere’ nei suoi vari aspetti, intrecciandolo con i parametri sociali, culturali e interazionali coinvolti, senza separare rigidamente tra femminile e maschile, ma prestando attenzione alle molteplici identità coinvolte. Di conseguenza, si sviluppò una metodologia di ricerca più articolata, confrontata con dati reali inseriti nel loro contesto interazionale e con un’attenzione sociolinguistica più raffinata.
Questo tipo di indagini mise in luce da una parte le incongruenze dei primi studi e il loro esclusivo orientamento verso il polo maschile; dall’altra, la forte correlazione con ruolo socio-economico e classe sociale di determinati usi linguistici, dapprima etichettati come solo o tipicamente femminili: spie di incertezza o richieste di conferma, ad es., non caratterizzano solo il linguaggio femminile, ma in generale ogni soggetto debole o subordinato nelle interazioni asimmetriche; in aggiunta, nel linguaggio femminile appaiono fenomeni considerati atipici (ad es., gli ➔ insulti), come nel seguente frammento di una donna sarda (Casula 1995: 489):
(4) sa giustizia ti sdegolidi! («la giustizia ti sconquassi!»).
Nella seconda metà del secolo scorso iniziano negli Stati Uniti, sulla spinta del movimento femminista, interventi istituzionali sulla lingua sessista, diversi per rilievo e risultati a seconda dei paesi (Hellinger & Bussmann 2001-2003; Thüne, Leonardi & Bazzanella 2006). Per ridurre il condizionamento di genere nell’uso della lingua nel 1980 furono pubblicate in Germania le Richtlinien zur Vermeidung sexistischen Sprachgebrauchs («Linee guida per evitare l’uso linguistico sessista»); proposte analoghe di linee guida si pubblicavano in Austria, Francia, Svizzera, ecc., con ripercussioni sulla lingua usata nei documenti istituzionali, dizionari, testi scolastici.
In Italia, nel 1987, con le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, Alma Sabatini, denunciando le forme linguistiche sessiste, avanzava diverse proposte: evitare il maschile generico, evitare l’articolo con i cognomi femminili, usare il femminile dei titoli professionali o crearne nuove formulazioni. Sulla scia della Conferenza Intergovernativa di Pechino del 1995, si succedettero interventi istituzionali (cfr. le Direttive del Consiglio dei Ministri del 27 marzo 1997 e del 23 maggio 2007, l’Atto ispettivo del 31 maggio 2007), progetti di ricerca comunitari (cfr. il codice di autoregolamentazione POLITE, reperibile in rete), dibattiti, seminari, pubblicazioni varie sul problema di ‘genere e lingua’ e pratiche d’uso dell’amministrazione (Pitoni 2007).
A dispetto di ciò, in molti documenti burocratici (➔ burocratese) è tuttora diffuso il maschile non marcato: Il sottoscritto …, nato a …, mentre il femminile per le cariche ricoperte da donne è poco usato; così come è poco adottato lo splitting (per es., bambina/o, studente/essa), che rende linguisticamente visibile la presenza femminile. Un espediente grafico per evitare la pesantezza dello splitting (evidente nel caso di accordi grammaticali multipli) è l’uso, peraltro poco frequente, dell’asterisco: car* amic*, siete invitat*… (equivalente a: care/i amiche/amici siete invitate/i …).
Le alternative, per rispondere alle problematiche del genere a livello della lingua, sono quindi fondamentalmente due, indicate solitamente coi termini inglesi originari:
(a) engendering (o regendering, «rigenerizzazione»), cioè la femminilizzazione della lingua tramite esplicite marche di genere, anche non consuete (come la giudice), lo splitting o l’uso della forma doppia, come in (2): bambini e bambine;
(b) de-gendering («degenerizzazione») cioè la neutralizzazione del genere con termini neutri, come nel caso di chairperson (cfr. § 3).
Se le Raccomandazioni di Sabatini privilegiavano l’engendering, a livello internazionale le tendenze si mescolano: si ricorre sia al de-gendering che all’engendering (cfr. Thüne, Leonardi & Bazzanella 2006). D’altra parte i due meccanismi rispondono alla stessa esigenza: rendere visibile la presenza della donna «riconoscendone la piena dignità di status ed evitando che il loro ruolo venga oscurato da un uso non consapevole della lingua» (Atto ispettivo del 2007).
Sembra infatti possibile, e comunque auspicabile, che una maggiore consapevolezza linguistica possa aiutare a capire meglio i meccanismi di asimmetria e di potere sottostanti a certi usi (➔ conversazione, per quanto riguarda le prospettive di studio delle relazioni lingua / potere) e a stimolare un cambiamento positivo da raggiungere anche a livello sociale.
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