Drammatico, genere
Scrive G.W.F. Hegel nelle sue Vorlesungen über die Ästhetik (post. 1836-1838; trad. it. 1967, p. 1344): "Al centro fra la tragedia e la commedia si colloca un terzo genere principale di poesia drammatica, che tuttavia ha un'importanza meno profonda, sebbene in esso la differenza fra il tragico e il comico si sforzi di giungere a mediazione, o almeno i due lati tendano a riunirsi e a costituire un tutto concreto, senza che ciascuno di essi si isoli contrapponendosi assolutamente all'altro". Il filosofo tedesco si riferiva ovviamente al dramma teatrale; e c'è da osservare che se questa tripartizione è facilmente identificabile per quanto concerne le opere scritte per la scena, non lo è per nulla se si considerano i generi così come si sono conformati in un secolo di storia del cinema (v. generi cinematografici). Infatti, nelle opere destinate allo schermo, è possibile identificare abbastanza agevolmente un genere commedia, con maggiori o minori accentuazioni degli aspetti comici e persino, talvolta, farseschi. Ma 'tragedia' e 'dramma' non sono per nulla definibili e tendono anzi a confondersi: non è possibile infatti distinguere tra vicende di personaggi regali o nobili e vicende di personaggi borghesi; né tra film il cui intreccio si conclude con la morte di qualcuno dei personaggi e altri che si risolvono senza lutti. Presentano tipologie narrative ricorrenti e stilemi riconoscibili generi normalmente classificati come melodramma, noir, o poliziesco, per ciascuno dei quali si potrebbero trovare di volta in volta apparentamenti con le opere definite in teatro tragedia o dramma. Del resto, già nella concezione aristotelica della Poetica queste due forme sembrano confuse, tra l'altro insieme all'epos, in contrapposizione alla commedia.
Dunque una definizione del 'drammatico' come genere appare molto difficile per il cinema e possibile, prima di tutto, in negativo. I toni devono essere seri, problematici, non lievi e rasserenanti come accade nella commedia; i sentimenti possono essere in primo piano, ma non nei termini esasperatamente romantici del melodramma; l'azione non deve prevalere come nell'avventuroso (con le sue declinazioni di western e di bellico); né canzoni e musiche devono essere più importanti delle parti dialogate, come nei musical; i misteri svelati dall'intreccio nella parte finale non devono essere lo scopo della narrazione, come nei vari tipi di poliziesco, con le declinazioni di noir, film di spionaggio, o film di gangster; le immagini dell'ambiente non devono essere più importanti delle vicende dei personaggi di finzione, perché altrimenti ci si colloca in un ambito affine al documentario; e d'altra parte le ambientazioni non possono essere troppo irrealistiche e, soprattutto, non vi possono essere miracoli o soluzioni trascendenti, a opera di esseri soprannaturali, celesti o infernali che siano, perché altrimenti ci si colloca nel fantastico. Sembrerebbe dunque che, procedendo così per esclusione, lo spazio del drammatico filmico finisca per essere estremamente ridotto, fino quasi ad annullarsi. E invece, se si consultano i dizionari del cinema che contengono nelle schede filmografiche anche la classificazione per generi, la voce 'drammatico' si rivela frequentissima. Proprio perché tale viene definito tutto quanto non può rientrare nelle altre categorie.
E allora il primo e più importante tipo di cinema che trova questa classificazione è il cinema d'autore. Per orientarsi in un discorso così confuso e complesso da definire è utile configurare un ideale pantheon di cineasti, selezionando quelli storicamente più riconosciuti e acclamati nel cinema internazionale. Potrà capitare in qualche caso di verificare l'appartenenza di un maestro a un genere specifico: così, per es., Charlie Chaplin è indubbiamente da classificare nel comico, Ernst Lubitsch nella commedia e Alfred Hitchcock nel poliziesco, fatto che peraltro ebbe certamente la sua importanza se si considera il tardivo riconoscimento tributato dalla critica a quest'ultimo. E se John Ford è identificato soprattutto con il western, nell'ambito del quale realizzò parecchi capolavori, c'è però da osservare che altri suoi capolavori, come per es. Grapes of wrath (1940; Furore), possono essere classificati soltanto come 'drammatici'. E se Howard Hawks offrì i suoi risultati migliori in almeno tre generi codificati (commedia, western e poliziesco), Stanley Kubrick invece mantenne intatte profondità e complessità delle sue opere affrontando generi diversi, sebbene la costante del suo cinema si riveli indubbiamente di tipo drammatico.
Tra i maestri per i quali non è concepibile una precisa collocazione in generi, il primo in ordine cronologico è David W. Griffith, ritenuto giustamente il padre del linguaggio cinematografico (da Sergej M. Ejzen-štejn innanzitutto). Griffith toccò vari generi con i circa cinquecento corto e mediometraggi che realizzò nel periodo compreso tra il 1908 e il 1913, mentre per i lungometraggi ‒ a partire da The birth of a nation (1915; Nascita di una nazione) ‒ si può parlare di drammi storici, o magari, quando l'ambientazione è coeva, di melodrammi che certo molto devono, sia tematicamente sia strutturalmente, al romanzo ottocentesco e in particolare alle opere di Ch. Dickens. Ejzenštejn ne fu l'esegeta più attento. E anche i suoi epici film ispirati alla rivoluzione russa, a cominciare da Stačka (1925; Sciopero), sono drammi storici ispirati a eventi più o meno vicini, mentre i suoi ultimi film sullo zar Ivan il terribile (Ivan Groznyj, la cui prima parte venne presentata al pubblico nel 1945, la seconda, terminata nel 1946, uscì solo nel 1958; Ivan il terribile e La congiura dei boiardi) arrivano ai toni ieratici della tragedia. Sempre restando nell'epoca del muto, drammatici sono certamente da considerare tutti i film di Eric von Stroheim, sia quando le sue scelte naturalistiche lo condussero a reinventare gli splendori e le miserie dei mondi europei, del mondo asburgico in particolare, sia quando, come per es. in Greed (1924; Rapacità), il suo occhio si rivolse, impietoso come quello di É. Zola, al culto del denaro e alle 'rapacità' della società americana. In toni quasi sempre drammatici si risolvette sullo schermo l'espressionismo di Fritz Lang nel suo periodo tedesco, sia pure sfiorando il poliziesco nei film sul dottor Mabuse o in M (1931) e con toni invece fantascientifici nell'apologo di Metropolis (1927). E anche Fredrich Wilhelm Murnau non poté esprimere che in termini drammatici la sua concezione della vita, sia nel periodo tedesco, ispirandosi magari a J.W. von Goethe come in Faust (1926), sia in quello americano, in opere come Sunrise ‒ A song of two humans (1927; Aurora) o come Tabu (1931; Tabù) ove proprio la forte drammatizzazione del soggetto voluta da Murnau fece sì che l'altro regista, Robert J. Flaherty, lirico cantore della natura e interessato soprattutto agli aspetti documentaristici, lasciasse il film nelle sue mani.
Con alle spalle autori teatrali come H. Ibsen oppure J.A. Strindberg, anche la scuola dei maestri del cinema nordico non poté non esprimersi in termini eminentemente drammatici. Così per Carl Theodor Dreyer, sia quando fa rivivere in termini mistici una tragedia storica, come in La passion de Jeanne d'Arc (1927; La passione di Giovanna d'Arco), sia quando affronta piuttosto il tema della coscienza e della dignità umana, come in Vredens dag (1943; Dies irae), sulla caccia alle streghe e sul fanatismo religioso del Seicento. Anche la lunga carriera dello svedese Ingmar Bergman non è uscita quasi mai da scelte di tipo drammatico: così nel suo capolavoro degli anni Cinquanta Smultronstället (1957; Il posto delle fragole), sofferto e lirico ripensamento di tutta una vita da parte di un vecchio professore; o nelle opere degli anni Sessanta sul 'silenzio di Dio' fino allo splendido 'testamento' di Fanny och Alexander (1982; Fanny e Alexander).Tutto il cinema a problematica spiritualista (diverso da quello più semplicemente 'religioso', che preferisce generi come il kolossal) si esprime in termini drammatici, i soli compatibili con la trattazione sullo schermo di problemi sociali, politici o psicologici. Così, restando ai primi, drammatico è il cinema del francese Robert Bresson, il cui stile è divenuto sempre più rigoroso ed essenziale a partire da Le journal d'un curé de campagne (1951; Diario di un curato di campagna) e il cui pessimismo giansenista si è fatto via via più assoluto, con punte quali Au hazard Balthazar (1966), dove tutto il male del mondo è visto attraverso gli occhi innocenti di un asino-vittima, fino al discorso atroce e senza più barlumi di speranza del suo ultimo film L'argent (1983).A nessun altro genere se non al drammatico si può attribuire il film forse più acclamato dalla critica in tutta la storia del cinema: Citizen Kane (1941; Quarto potere) di Orson Welles, che si presenta con le apparenze dell'inchiesta ma si risolve nell'affermazione del mistero, dell'impossibilità di conoscere fino in fondo la verità della vita di un uomo. E se Welles realizzò, sempre in modo magistralmente personale, anche qualche noir e qualche poliziesco, nell'ambito del drammatico resta la gran parte dei suoi film, comprese le tre straordinarie riduzioni delle opere di W. Shakespeare. Chiunque sia il regista, in questi casi il genere è già prefissato dal testo teatrale di partenza, anche se la vicenda del Macbeth può essere trasposta nel Giappone del 16° sec. dilaniato dalle guerre civili, con scene d'azione prevalenti rispetto a quelle dialogate, come accade in Kumonosu jō (1957; Il trono di sangue) di Kurosawa Akira, al quale peraltro, con Ran (1985), si deve anche una trasposizione del King Lear nel Giappone feudale, in cui i personaggi delle tre figlie del re sono invece tre maschi.Siano o meno tratti da romanzi di Zola, sono drammatici gran parte dei film realizzati da Jean Renoir, non tanto all'epoca del muto quanto, soprattutto, negli anni Trenta: dunque non solo La bête humaine (1938; L'angelo del male), dal romanzo omonimo dello scrittore naturalista francese, ma anche storie come Toni (1935), su operai immigrati in Provenza, che fu visto come un precursore del Neorealismo italiano, o come La grande illusion (1937; La grande illusione) dove il discorso pacifista si accompagna a quello sulla solidarietà di classe. Tutta all'interno del drammatico, poi, si svolse la grande stagione del Neorealismo: tale è già Ossessione (1943) di Luchino Visconti, che di Renoir fu allievo e che per certi versi a lui guarda in questa sua opera d'esordio; ma tali furono ancora tutti i capolavori dell'autore, da La terra trema (1948) che attualizza le problematiche di I Malavoglia di G. Verga, ai successivi sviluppi rispetto alla stagione neorealista, come per es. il grande affresco melodrammatico di Senso (1954) o la ripresa del tema verghiano, inserito nella trasformazione sociale dell'Italia del dopoguerra, in Rocco e i suoi fratelli (1960).Non in altro modo se non 'drammatici' si possono definire i film di Roberto Rossellini che diedero inizio al movimento neorealista con la cosiddetta trilogia della guerra, inaugurata da Roma città aperta (1945), offrendo una visione già storica dei fatti appena vissuti dall'Italia e anche dalla Germania di quegli anni. Ma sono drammatici anche tutti i successivi film di Rossellini, come Viaggio in Italia (1954), a suo tempo rifiutati dalla critica italiana e amati invece da quella francese, storie di crisi e di conflitti interiori che in qualche modo anticiparono la grande stagione dei drammi sulla crisi dei sentimenti, realizzati negli anni Sessanta da Michelangelo Antonioni. Grande Neorealismo naturalmente, e toni ancora drammatici, per i capolavori di Vittorio De Sica sceneggiati da Cesare Zavattini, tutti caratterizzati da un forte impegno sociale oltre che da toni lirici: Sciuscià (1946), storia di due piccoli lustrascarpe che, nella miseria del dopoguerra, finiscono in riformatorio; Ladri di biciclette (1948), magistrale rappresentazione del viaggio di un disoccupato e del suo figlioletto attraverso Roma, alla disperata ricerca di una bicicletta rubata, strumento di lavoro ma anche simbolo di speranza; Umberto D. (1952), straziante discorso sulla solitudine e le difficoltà economiche di un vecchio pensionato.
E drammatici infine, per quanto concerne i maestri del più glorioso periodo del cinema italiano, anche molti capolavori di Federico Fellini: sia l'apologo spiritualista sul peccato e sulla Grazia di La strada (1954); sia il viaggio simbolico attraverso una Roma trasformata e quasi pagana, attuale e insieme universale, di La dolce vita (1960); sia la straordinaria, miracolosa autobiografia di 81/2 (1963), percorso perfetto compiuto attraverso ricordi, sogni, incubi e visioni, alla ricerca del significato più profondo della vita.Né vanno dimenticati certamente i maestri del cinema orientale, giapponese o indiano che sia. A Kurosawa si è accennato (ma sono drammatici anche molti suoi film non desunti da Shakespeare, a cominciare dal pirandelliano Rashōmon, del 1950, che con il premio alla Mostra del cinema di Venezia rappresentò la scoperta in Occidente delle cinematografie asiatiche); si inseriscono tuttavia decisamente negli schemi del dramma anche tutte le opere che Ozu Yasujirō realizzò dopo la metà degli anni Trenta, così stilisticamente rigorose e tematicamente simili, con l'attenzione posta spesso al problema della solitudine dei vecchi, resa quasi inevitabile dalle leggi di natura, a volte anche nonostante la buona volontà dei figli. Se pure all'interno di una precisa classificazione di generi che caratterizza il cinema giapponese (v. Giappone), appaiono drammatici agli occhi occidentali anche i film di Mizoguchi Kenji, le sue storie di donne infelici e di orrori medievali come Chikamatsu monogatari (1954; Gli amanti crocifissi).Spesso al di fuori del cinema di genere e ispirati a Renoir (di cui fu aiuto regista in Bengala per The river, 1951, Il fiume) e al Neorealismo italiano, i film dell'indiano Satyajit Ray, specie la cosiddetta trilogia di Apu (1955-1959), storia di un infelice ragazzo bengalese che dall'infanzia in campagna alla dolorosa maturità vissuta a Calcutta vede morire tutte le persone a lui care. Innumerevoli ancora sarebbero gli autori e i film da ricordare, parlando di dramma. È un fatto tuttavia che non ci sono, almeno per quanto concerne il cinema, regole precise per definirlo, né dal punto di vista tematico (perché qui le scelte sono quanto mai ampie), né dal punto di vista stilistico. Infatti non ne esiste una bibliografia specifica.