Gentile, Gemelli e l’Università Cattolica del Sacro Cuore
L’incontro tra Giovanni Gentile e padre Agostino Gemelli (1878-1959) non è solo il confronto tra due studiosi, ma è anche il rapporto tra due persone che hanno ricoperto importanti ruoli istituzionali nello Stato e nella Chiesa.
Come giustamente nota Gustavo Bontadini, Gemelli «non fu filosofo nel senso proprio, stretto del termine: fu essenzialmente […] uomo di scienza e uomo di azione; e precisamente uomo di scienza e uomo di azione al servizio di un uomo di fede» (Bontadini 1971, p. 324): avendo come primario interesse della sua vita la battaglia in favore dell’apostolato e dell’apologetica cattolica, egli comprende che a questo scopo è indispensabile la filosofia, in particolare quella scolastica nella versione tomista. E una tale impostazione fa comprendere, fin dall’inizio, la natura e i limiti del lungo rapporto intrattenuto con Gentile.
Fra i due un primo colloquio ha luogo nel 1911, a Cosenza, in occasione delle celebrazioni per Bernardino Telesio, ma in una lettera del 27 aprile 1911 a Emilio Chiocchetti Gemelli afferma che è difficile intendersi con chi in maniera esclusiva vede unicamente lo spirito (Pazzaglia 2012, p. 122). D’altro lato, Gentile, sempre nel 1911, occupandosi della filosofia italiana dopo il 1850, tratta del neotomismo e lo accusa di essere mera espressione di una Chiesa barricata contro la rivoluzione moderna e, quindi, filosoficamente gracile.
Qui emerge quel problema che accompagnerà Gemelli per tutta la vita e che non troverà mai una soluzione pienamente coerente: come sanare il conflitto tra il cristianesimo e la cultura moderna? In proposito, sono offerte due analisi: la prima, sviluppata nel notissimo saggio Medioevalismo, con cui si delinea il programma della rivista «Vita e pensiero» (1914, 1, pp. 1-24), individua il limite maggiore della cultura moderna nel fatto che essa sarebbe un aggregato meccanico e frammentario di parti. A ciò può porre rimedio solo un ritorno al Medioevo, con l’intento di ristabilire l’unità organica che in quell’epoca è stata realizzata tra le varie forme della cultura e il cristianesimo. Un’analoga atmosfera si respira nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1928-29, in cui si afferma che
tra il Cattolicismo e il mondo moderno, tra questa civiltà contemporanea, come è uscita da un movimento che dura da quattro secoli con vicende varie e con alternative di maggiore o minore attività, e la civiltà cristiano-cattolica vi è una irriducibile antitesi, che nulla vale ad annullare e che solo le folli speranze del modernismo sembravano per un istante attenuare (Storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Le fonti, 1° vol., I discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola 1921/22-1997/98, a cura di A. Cova, 2007, p. 96; cfr. inoltre pp. 92-98).
La seconda analisi, spesso intrecciata con la precedente, ritiene che tra epoca medioevale e moderna non sussisterebbe alcuna antitesi insuperabile, sicché il neotomismo non dovrà cercare di adattarsi al pensiero moderno, ripetendo gli errori del modernismo, ma dovrà compiere un processo di assimilazione, che non è estrinseco e passivo, ma intrinsecamente attivo e più conforme alle modalità di sviluppo di un organismo in costante evoluzione (A. Gemelli, Il mio contributo alla filosofia neoscolastica, 1932, p. 25). Questa tesi si ritrova nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1930-31, allorché si afferma:
Negare la possibilità di una conciliazione tra pensiero moderno e cristiano, tra pensiero moderno e Cattolicismo non vuol però dire (è necessario subito aggiungerlo per impedire interessati fraintendimenti) negare il dovere di chi fa professione di cattolico di gettare lo sguardo e approfondirlo nell’esame dei problemi che il pensiero moderno pone. Anzi, a mio modo di vedere, questo non si deve fare tanto e solo per cogliere quell’anima di verità che c’è in ogni dottrina (e per questo taluno ci accusa, senza comprendere il nostro programma, di intendercela con gli idealisti), quanto piuttosto per riesaminare le nostre posizioni ideali, ponendo onestamente, francamente e coraggiosamente le difficoltà che alla accettazione della nostra credenza oppone la critica mossa dal pensiero moderno; occorre, cioè, per usare una frase che io ho usata per sintetizzare il nostro compito, ripensare la nostra filosofia in funzione dei problemi e delle preoccupazioni del pensiero moderno (I discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola 1921/22-1997/98, cit., p. 118).
Mentre nell’analisi precedente prevaleva l’atteggiamento di chiusura rispetto alla modernità, qui se ne valorizzano i guadagni e se ne raccolgono le sfide per rafforzare la propria posizione teorica, anche se Gemelli sta ben attento a pararsi dalle accuse di concordismo eccessivo, che probabilmente gli piovevano dal fronte degli zelanti del tomismo più rigido, pur non facendosi affatto intimidire da un tale rischio.
In effetti, di là dalle posizioni di Gemelli, la scuola filosofica della Cattolica si segnalerà, con Mariano Campo e Sofia Vanni Rovighi, per una peculiare attenzione alla filosofia moderna e contemporanea, studiate con atteggiamento simpatetico e grande scrupolo storiografico, mentre proprio Bontadini (che Gemelli difenderà sempre da attacchi pretestuosi) svilupperà, all’interno di un recupero della metafisica classica, una valorizzazione di molti esiti dell’idealismo gentiliano. In pari tempo, questa impostazione, oppositiva ma non settaria, consentirà quelle forme di fattiva e intensa collaborazione che, nel corso degli anni Venti, Gemelli instaurerà con Gentile sul piano della politica scolastica e universitaria.
Gemelli ricorda alcune importanti benemerenze di Gentile: l’introduzione nella scuola primaria della religione cattolica, vista come fondamento e coronamento dell’educazione del fanciullo; l’istituzione dell’esame di Stato per le scuole medie; la riforma dell’ordinamento universitario, grazie alla quale nel 1924 l’Università Cattolica è stata riconosciuta dallo Stato.
L’insegnamento della religione nelle scuole elementari è pienamente coerente con la concezione filosofica di Gentile, il quale, come osserva nel 1907 al VI Congresso nazionale della Federazione fra gli insegnanti delle scuole medie, vede nello spirito religioso, alimentato dai suoi dogmi e dai suoi miti, la premessa perché, su di esso e oltre esso, possa sorgere e costruirsi la filosofia. Per questo motivo, egli non prevede l’insegnamento della religione nei gradi in cui la filosofia comincia a essere proposta. Naturalmente Gemelli non è affatto d’accordo con queste premesse teoriche, ma saluta con favore il nuovo provvedimento, sperando poi di allargarne la portata.
L’esame di Stato, introdotto nel maggio 1923 nel nuovo ordinamento della scuola media, è previsto nei passaggi da un grado all’altro degli studi e al termine dell’intero ciclo scolastico: Gemelli concorda con questo provvedimento, poiché con la sua sufficiente oggettività pone allo stesso livello i diversi tipi di scuola e consente che pure nelle scuole private sia garantito il rigore della formazione. Non pensa affatto che la riforma della scuola media sia «la più fascista delle riforme» e, quando apprende che il nuovo ministro della Pubblica Istruzione Pietro Fedele intenderebbe emanare un regolamento mirante ad attenuare la severità di quell’esame, in una lettera del 31 gennaio 1925, si offre a Gentile di interporre i suoi buoni uffici presso il Vaticano, affinché la riforma non sia corretta rispetto alla sua veste originaria (Pazzaglia 2012, pp. 139-40).
Quanto alla riforma universitaria, decisivo è, agli occhi di Gemelli, il merito di Gentile: nel discorso inaugurale dell’anno accademico 1923-24 Gemelli afferma che
L’Università Cattolica con animo fermo vuole applicare questa legge, lealmente e onestamente osservando tutto quanto essa ordina. Compito questo non facile, perché la legge nel mentre concede la libertà, la vincola con una ferrea disciplina allo scopo di eliminare gli organismi deboli e privi di vita interiore, e quindi incapaci di assolvere l’alta missione educatrice e formativa propria degli istituti di studi superiori. Tuttavia noi accettiamo volonterosamente di sottoporci a questa disciplina e a questo controllo (I discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola 1921/22-1997/98, cit., p. 41).
Gemelli sa bene che la concezione della libertà a fondamento della riforma Gentile è ben lontana da quella cui si ispirano i cattolici, tuttavia egli ritiene che il prezzo richiesto dalla nuova legge possa essere pagato, giacché la normativa si limita ad aspetti tecnici miranti a garantire la serietà del percorso di studi seguito, senza interferire nell’impostazione complessiva: in compenso, l’università libera entra a pieno titolo nel sistema statale dell’istruzione superiore e può rilasciare diplomi aventi pieno valore legale.
Inoltre, Gemelli nota che, pur non essendo, quella attuata, una libertà piena, essa potrà in futuro essere adeguatamente accresciuta e ampliata. Riguardo poi alla Cattolica, la conquistata autonomia consente di superare la malattia che affliggeva l’università italiana nei passati decenni, vale a dire la frammentazione per cui insigni maestri insegnavano ignorandosi a vicenda e spesso combattendosi per piccole beghe accademiche, e permette di far nascere un corpo organico, quasi una famiglia, in cui gli sforzi dei singoli si indirizzano al risultato collettivo della formazione della gioventù (pp. 57-59, 78-81).
Del resto, tra il filosofo e il rettore la radicale opposizione sui contenuti e sugli orientamenti di fondo è sottesa da un’affinità che spiega, al di là dell’immediato interesse, il fine di una collaborazione intensa e prolungata: pur opponendosi allo Stato etico, Gemelli non esclude certo un’etica cui lo Stato debba conformarsi, con un esplicito appello al diritto naturale, mentre l’elogio della libertà non implica l’affermazione di un arbitrio assoluto dell’individuo, che la società dovrebbe rispettare anche quando si volgesse al suo dissolvimento. Dal canto suo, Gentile afferma che la scuola deve essere sì laica, per essere pienamente fedele a se stessa, in quanto capace di razionalità, ma la laicità non significa neutralità. Una scuola neutrale sarebbe una falsa scuola laica, giacché sarebbe neutrale verso ciò che preme di più allo spirito umano e che è lo stesso spirito umano. Un pregio della scuola confessionale è proprio quello di possedere un concetto del fine dello spirito e un concetto della vita cui indirizza tutta la sua opera in maniera unitaria e coerente, anche se ciò non avviene a un livello razionale e filosofico (G. Gentile, Scuola laica, in Id., Educazione e scuola laica, 1921, a cura di H.A. Cavallera, 19885, pp. 76-78, 86-95). E Gentile sa che Gemelli è sempre rimasto fedele ai principi ispiratori della riforma, anche quando essa fu tradita e infirmata; il 27 maggio 1943, il filosofo scrive:
So che Voi a Milano siete sempre rimasto fedele ai principi che resero possibile l’Università Cattolica pareggiata alle Università di Stato. Ma tornare ai principi credo sia diventato sempre più difficile. E la colpa è dei professori: tutta loro. A un certo punto io mi sono stancato perché universalmente si scambiava la fermezza delle mie convinzioni con un’ostinatezza personale, un puntiglio, un’ambizione che so di non aver lasciato mai allignare nell’animo mio. E per disdegno mi son messo da parte confidando nel processo naturale delle cose che ritengo ci ricondurrà alla riforma del ’23. Ora maiora premunt; e discutere ora di ordinamenti scolastici mi pare indegna accademia. Peccato che non lo sentano al nostro Ministero (Archivio generale per la storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore - AUC, Corrispondenza, b. 150, f. 265, sf. 1993).
Nel campo della scuola, anzi proprio dell’università a Milano, uno spirito di forte concorrenza e una gara di emulazione, con punte polemiche anche assai aspre, si sviluppa tra Gemelli e Gentile, nella sua qualità di vicepresidente dell’Università commerciale milanese Luigi Bocconi. Ne è testimonianza, tra l’altro un ricco epistolario tra Gentile e Girolamo Palazzina, direttore amministrativo di quell’Ateneo. Qui le questioni non si muovono al livello della teoria filosofica, ma a quello più pratico della burocrazia e dei maneggi ministeriali, non privi però di effetti rilevanti. Il contenzioso nasce quando Gemelli, sempre desideroso di allargare il raggio di intervento della sua università, nel 1932 istituisce una facoltà di Scienze politiche, economiche e sociali, entro la quale potrebbe presto sorgere un autonomo corso di laurea in Economia e commercio, con l’eventuale prospettiva di aprire una facoltà di Economia che diverrebbe diretta e pericolosa concorrente della Bocconi. Da questo momento ha inizio tra i due atenei una guerra, che interesserà Gentile sin quasi alla vigilia della sua morte e che coinvolgerà spesso le più alte gerarchie del regime, fino allo stesso Benito Mussolini. Maria Bocci, nel suo ponderoso studio, ricostruisce, anche in questo caso, con dovizia di documentazione e scrupolo interpretativo, le tortuose vicende di questo confronto, in cui Gemelli, per la sua disinvoltura nell’aggirare le procedure e nel perseguire con un certo machiavellismo i propri obiettivi, viene, di volta in volta, accusato di essere il «furbo frate», il «frate prepotente», il «brigante di S. Ambrogio», che conduce una «guerra sleale» tendente a minacciare lo sviluppo di un’istituzione prestigiosa come la Bocconi, la quale, peraltro, sotto l’ombrello di Gentile, spera di poter anche meglio difendere la propria autonomia. Il filosofo, che in private conversazioni aveva definito la Cattolica come una «scoletta elementare», incapace di offrire contributi innovativi alla cultura italiana, si rivolge direttamente al Duce per bloccare quanto ritiene sia frutto delle trame degli uomini di piazza Sant’Ambrogio, ma, alla fine, non riuscirà nel suo intento, giacché il regime non vuole inimicarsi i cattolici e la Chiesa che incoraggiano le iniziative di Gemelli. In ogni caso, mentre i due protagonisti si combattono in maniera spietata e polemizzano con accenti anche feroci, si ammirano per l’abilità con cui ciascuno cerca di raggiungere il proprio obiettivo, salvaguardando l’autonomia della propria istituzione (Bocci 2003, pp. 273-93; Ornaghi 2008, pp. 94-97).
Sul finire degli anni Venti, intanto, la polemica nei confronti dell’idealismo si fa maggiormente circostanziata e più aspra, forsanche perché la firma dei Patti Lateranensi rafforza, pure sul piano istituzionale, la posizione della Chiesa in Italia, mentre l’incidenza di Gentile, pur sempre avvertita sul piano culturale, perde forza a livello politico. In una lettera del 23 dicembre 1925, Gemelli, scrivendo a Gentile, mostra di tenere seriamente in conto i motivi per cui la concezione idealista sarebbe espressione di vero cristianesimo; sicché attende le ulteriori pubblicazioni gentiliane, che promette di esaminare con le migliori disposizioni d’animo (di Lalla 1975, p. 400; Pazzaglia 2012, p. 142). Sono queste le espressioni sincere di un atteggiamento disponibile a valorizzare un pensiero non ancora esplicitamente immanentista oppure il tentativo di condurre Gentile a un progressivo avvicinamento, se non a una vera conversione? In ogni caso, gli sviluppi deludono tali aspettative e l’idealismo diventa sempre più il pericolo con cui misurarsi e il nemico da combattere. Affrontando il rapporto degli idealisti con il cattolicesimo, Gemelli ammette che Gentile ha un’anima religiosa e una preoccupazione per il problema religioso, ma proprio questo lo fa traviare, giacché egli vede nella filosofia l’inveramento del cristianesimo, che in tal modo sarebbe destinato a essere assorbito dall’attualismo, così come la Chiesa verrebbe assorbita dallo Stato (I discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola 1921/22-1997/98, cit., pp. 120-24).
Due sono gli episodi emblematici del conflitto esplicito con l’idealismo: uno pubblico e notorio, l’altro riservato e segreto. Si tratta, da un lato, dello scontro tra Gemelli e Gentile nel corso del VII Congresso nazionale di filosofia del maggio 1929 e, dall’altro, dei pareri espressi da Gemelli al Sant’Uffizio in merito alle opere di Gentile, in vista della sua condanna e messa all’Indice. Nel primo caso, il Congresso prevede relazioni su argomenti politicamente spinosi, come il rapporto tra la filosofia e lo Stato, tra filosofia e cristianesimo e il tema dell’insegnamento della filosofia nella scuola pubblica, con relazioni di Gentile, Bernardino Varisco e Augusto Guzzo. In un intervento del 25 maggio al Senato, in tema di Patti Lateranensi, Mussolini, allo scopo di documentare che i nuovi rapporti con la Chiesa non avrebbero minacciato la libertà e la laicità della cultura, aveva affermato che il mondo cattolico si stava aprendo al pensiero moderno, al punto che l’Università Cattolica nei suoi corsi propugnava lo studio di Immanuel Kant interpretato nella sua compatibilità con il sentimento cristiano e con la filosofia tomistica. Su questa stessa linea si muove la relazione di Guzzo. Gemelli, preoccupato di garantire l’ortodossia della sua università (davanti alle gerarchie ecclesiastiche) e di combattere l’idealismo (un compito affidatogli espressamente da Pio XI), reagisce in maniera molto dura contro le parole del Duce e attacca il pensiero gentiliano. Dice di considerare offensivi gli apprezzamenti di Mussolini, che intaccherebbero la purezza della fede religiosa dell’Università Cattolica, e proclama che «nulla vi è di meno religioso e di meno cristiano del pensiero di Gentile e degli idealisti». E, se Gentile interrompe per ribadire che il suo pensiero è cristiano, il rettore, da parte sua, non indietreggia:
nulla vi è di più anticristiano; ed è bene dirlo perché nulla vi è di più dissolvitore dell’anima cristiana dell’idealismo, perché nessun sistema filosofico è tanto negatore del fondamento cristiano della vita quanto l’idealismo, anche se esso usa le nostre parole: cristiano, cattolico, fede religiosa, ecc. (Atti del VII Congresso nazionale di filosofia, 1929, p. 376).
Neppure in questo momento egli dimentica che Gentile ha acquisito obiettivi meriti con le sue riforme della scuola e dell’università, ma precisa che di esse va dato atto al ministro Gentile, non al suo idealismo, che ora rischia di essere somministrato nell’insegnamento scolastico al pari di un pericoloso veleno.
Per quanto poi attiene all’insegnamento della filosofia, Gemelli fa presente che non conta quale concezione filosofica il docente condivida, poiché, essendo egli funzionario di uno Stato che, per il Trattato Lateranense, riconosce la religione cattolica a fondamento dell’istruzione, non potrà contrastare l’insegnamento della religione, e dovrà pertanto insegnare cattolicamente (Atti del VII Congresso nazionale di filosofia, cit., pp. 372-87; Bocci 2003, pp. 265-71; Pazzaglia 2012, pp. 153-57). Da un lato, Gentile avverte sempre come ingiusta l’accusa che il suo pensiero avrebbe contribuito a scristianizzare l’Italia, in quanto non solo si attribuisce il merito di aver restituito ai cattolici pubblica dignità e un ampio spazio di azione libera, ma ritiene l’attualismo una concezione profondamente spirituale e autenticamente cristiana. Dall’altro, Gemelli, dopo la firma dei Patti Lateranensi, accentua la confutazione teorica dell’idealismo, rivendicando con il pensiero scolastico un’origine schiettamente italiana che l’idealismo non potrebbe vantare: sembra quasi che il rettore voglia candidare il pensiero cattolico a sostituire l’idealismo nel sostegno al regime per restaurare la grandezza dell’Italia (I discorsi di inizio anno da Agostino Gemelli a Adriano Bausola 1921/22-1997/98, cit., pp. 100-01, 129-31).
Il secondo episodio, più riservato, è il Voto preparato da Gemelli nel gennaio 1933 e confermato poi nel luglio successivo, in vista della condanna delle opere di Benedetto Croce e Gentile. Quest’ultimo, in una lettera del 22 giugno 1929, chiede a Gemelli notizie su «una diceria, che voglio credere senza fondamento: di un decreto cioè dell’autorità ecclesiastica contro la mia filosofia» e osserva che in questo momento si tratterebbe di «un vero atto di sopraffazione, con cui non credo si otterrebbe altro risultato di farci pentire di tante cose e convincerci della necessità di cambiare strada» (AUC, Corrispondenza, b. 34, f. 40, sf. 379). La risposta di Gemelli non si fa attendere e il 24 giugno 1929 egli scrive, precisando che l’autorità ecclesiastica di solito non condanna un sistema filosofico, ma un autore o un libro e che, comunque, «quando una condanna è in elaborazione, nessuno ne può sapere niente, poiché il segreto del Sant’Uffizio è tale che da nessuno può essere svelato». Quindi aggiunge:
Nella di Lei lettera Ella parla di “sopraffazione” e di “pentimenti di tante cose”. Anche su questo punto è necessario dire una parola chiara. Che Ella abbia reso servizi alla scuola italiana e che ciò abbia potuto giovare anche alla Chiesa Cattolica, questo è fuori di discussione: ma che questo debba avallare la di Lei filosofia, permetta che io lo contesti e con me tutti coloro che hanno una fede cattolica. Come vede, dunque, vi è qui un equivoco che conviene assolutamente dissipare. Gentile Maestro, Gentile riformatore della scuola italiana, Gentile che combatte il materialismo, è un uomo che merita l’approvazione dei cattolici italiani; ed Ella ben sa che io parecchie volte Le ho dato pubblicamente questa approvazione, e per questo fui accusato di essere troppo legato a Lei. Ed io, ad onta di queste critiche, tornerò a ripetere che Ella in questo campo ha dei meriti innegabili. Gentile filosofo idealista, ossia promotore di una filosofia che, a mio modo di vedere, è dissolvitrice del pensiero cristiano e negatrice nel senso più assoluto del cattolicismo (ed ancor più pericolosa dello stesso positivismo, perché, mentre toglie al cristianesimo ogni suo fondamento, pone in luogo di esso una filosofia colorata di un vago tono di religiosità) questo è un altro fatto che obbligherà quanti sono filosofi cattolici a lealmente e onestamente combattere contro di Lei […] se Ella vuol seguire i consigli di uno che Ella sa essere sincero, si è di non cooperare Ella stesso alla confusione, continuando ad affermare che la Sua filosofia è cattolica e cristiana. Vi è una contraddizione in termini che non lo consente, anche se Ella, nella Sua coscienza, ritiene di essere a posto (AUC, Corrispondenza, b. 34, f. 40, sf. 379).
Rispondendo il 29 giugno 1929, Gentile osserva di aver detto che la sua filosofia è cristiana, non cattolica, esclusa una sola volta, e prosegue:
Quanto al Cristianesimo, io non dirò che Lei o il Papa lo debbano intendere a modo mio, ma che debbano in via di fatto riconoscere che ci sono state e ci sono mille dottrine e sette cristiane, che non è lecito non chiamar tali perché acattoliche (AUC, Corrispondenza, b. 34, f. 40, sf. 380).
In effetti, nel 1932 il Sant’Uffizio incarica Gemelli di esaminare le opere di Gentile, in vista di una condanna congiunta con le opere di Croce: il Voto, pronto per la fine dell’anno, presenta notizie sull’opera politico-culturale di Gentile, sul suo pensiero e i suoi scritti, con un giudizio finale. Ribaditi l’immanentismo assoluto e il panteismo radicale dell’attualismo, con tutto quanto ne consegue, Gemelli ricorda le benemerenze acquisite da Gentile nel campo della politica scolastica (che rendono perplessi circa la conclusione cui pervenire) e riflette sul fatto che una sua condanna potrebbe indurre i suoi oppositori a chiederne al Duce l’esautoramento completo e la rinuncia alla sua riforma, il che danneggerebbe certamente i cattolici in Italia. Tuttavia, «se si astrae da siffatte considerazioni, […] la dottrina del Gentile va messa al bando per il male che essa fa alle anime» (Verucci 2006, p. 254), giacché diffonde un ateismo e un monismo distruttori della concezione cattolica, tanto più dannosi per i giovani che solo tardi si accorgono dei danni patiti. Successivamente Gemelli ribadirà la sua posizione e, in una lettera del 24 maggio 1934, esplicitamente si pronuncia a favore della messa all’Indice delle opere di Gentile, essendo cambiata la situazione che suggeriva di procedere con cautela, giacché in seno al fascismo la posizione del filosofo risulta indebolita e sottoposta a forti critiche (Bocci 2003, pp. 272, 301, nota 38; Verucci 2006, pp. 167-94). Le opere di Gentile, insieme con quelle di Croce, saranno condannate dal Sant’Uffizio il 22 giugno 1934. A differenza di Croce, Gentile prende male la condanna della Chiesa e ne è turbato, mentre continua a protestare di non essere compreso e di sentirsi nella Chiesa; addirittura, nella conferenza su La mia religione, pronunciata a Firenze nel febbraio 1943, afferma: «io vi dico in tutta sincerità che io mi sento, e perciò credo di essere non solo cristiano, ma cattolico» e poche pagine dopo aggiunge: «non credo di aver tradito il primo insegnamento religioso che mi venne impartito da mia madre (la cui voce ancora e sempre dentro mi suona)» (G. Gentile, La mia religione, in Id., Discorsi di religione, 1957, pp. 125, 130). Dopo l’assassinio di Gentile, il rettore pubblica un Necrologio, in cui riscostruisce la complessa figura del filosofo e i suoi meriti, così come ribadisce le critiche, per concludere:
Noi speravamo, noi attendevamo da molti anni pregando, una evoluzione ulteriore del suo pensiero, che ne sarebbe stata la critica e che lo avrebbe portato ad una accettazione dei fondamenti del Cattolicismo. Questa nostra attesa, stroncata dalla barbara morte, ci fa ancor maggiormente deprecare l’atto insano di chi ha ucciso Giovanni Gentile («Rivista di filosofia neo-scolastica», 1944, 36, 1, p. 73).
Ripercorrendo i rapporti tra Gentile e Gemelli si può notare che, nonostante le polemiche, spesso aspre e dure, li lega un sentimento di stima reciproca e una qualche forma di amicizia, per la quale, nonostante tutto, spesso non possono stare l’uno senza l’altro. Infatti, si cercano e si consultano; Gemelli collabora all’impresa dell’Enciclopedia Italiana, frequentemente si rivolge a Gentile per consiglio sull’esito di concorsi, o per avere appoggio anche su questioni minute e meno rilevanti; gli offre sostegno quando la sua riforma sembra minacciata da forze interne al regime; ripetutamente riconosce i meriti del ministro, fino a essere criticato per questa «debolezza» o a sostare perplesso circa l’opportunità della condanna ecclesiastica. Gentile, a sua volta, riconosce la fedeltà di Gemelli ai principi della riforma, ne apprezza l’abilità politica, ne domanda l’aiuto per avere una sponda di sostegno in Vaticano, vede in Gemelli una persona che rappresenta, sul piano culturale, l’orientamento autorevole della Chiesa e del papa, soffre per l’asprezza delle critiche ricevute, proprio perché si sente intimamente cristiano. Nel 1942 il conte Giuseppe Dalla Torre invita Gemelli a compiere qualche passo verso il filosofo, assai addolorato – anche per la morte del figlio – nel momento del suo crepuscolo, sensibile a ogni segno di bontà e forse vicino alla pratica religiosa; si tratterebbe di affrontare non tanto questioni filosofiche, ma i bisogni più profondi dell’animo, che salgono dal cuore nei momenti decisivi della vita. Qui Gemelli mostra chiaramente il suo carattere, e forse pure il suo forte limite: si astiene da attacchi ulteriori, anche se le parole del filosofo continuano a suscitare in lui forti riserve, ma afferma di essere timidissimo in fatto di cose spirituali e di non sapere come intervenire, quasi che egli si trovi più a suo agio nelle questioni teoriche o in quelle accademiche e burocratiche, attinenti alla politica culturale, piuttosto che nell’opera spirituale e pastorale (Bocci 2003, pp. 293-94).
Probabilmente l’equivoco è nato dal fatto che Gentile pensa di poter meritare, grazie ai frutti della sua politica scolastica, un’attenuazione dei rigori della critica filosofica, guadagnandosi una maggiore comprensione per quanto egli intimamente prova nella sua coscienza. Gemelli, pur grato al ministro, si dimostra abile a sfruttarne il sostegno, ma non cede sul piano filosofico, forte del principio che le questioni politiche vanno distinte da quelle teoriche e che il soggettivo attestato della propria coscienza va distinto dalla sostanza delle concezioni oggettivamente sostenute negli scritti. Forse, su un punto, per qualche aspetto, entrambi concordano: su una peculiare concezione della libertà, ben diversamente argomentata, ma certo assai affine. Gentile ritiene che si sia liberi sono nello Stato e per lo Stato, mai al di fuori o contro di esso; Gemelli, al pari di molti cattolici, ritiene che la libertà consiste solo nell’adesione alla Verità che salva. A entrambi manca un concetto di libertà come rischio assoluto e scommessa, impegno radicale e scelta cruciale, che nell’istante decide della salvezza o della perdizione.
G. Bontadini, Padre Gemelli e la filosofia, in Conversazioni di metafisica, 2° vol., Milano 1971, pp. 324-34.
M. di Lalla, Vita di Giovanni Gentile, Firenze 1975, pp. 397-401.
S. Romano, Giovanni Gentile. La filosofia al potere, Milano 1984, pp. 223-32.
G. Cosmacini, Gemelli, Milano 1985, pp. 182-98.
Faremo grande università. Girolamo Palazzina-Giovanni Gentile: un epistolario (1930-1938), a cura di M.A. Romani, Milano 1999.
A. Bausola, Gemelli e Gentile, «Vita e pensiero», 2000, 83, 2, pp. 104-30.
Da ieri ho l’inferno nel cuore. Girolamo Palazzina-Giovanni Gentile: un epistolario (1939-1944), a cura di M.A. Romani, Milano 2000.
M. Bocci, Agostino Gemelli rettore e francescano. Chiesa, regime, democrazia, Brescia 2003, pp. 263-314.
G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, Torino 2006, pp. 424-49, 496-516, 534-36.
G. Verucci, Idealisti all’Indice. Croce, Gentile e la condanna del Sant’Uffizio, Bari 2006.
L. Ornaghi, Gemelli e Gentile, fra rivalità e stima, «Vita e pensiero», 2008, 91, 6, pp. 94-97.
L. Pazzaglia, Il carteggio Gemelli-Gentile nel contesto dei rapporti tra Università Cattolica e idealismo (1911-1929), «Annali di storia dell’educazione e delle istituzioni scolastiche», 2012, 19, pp. 117-60.
Si ringraziano la professoressa Maria Bocci e il professor Luciano Pazzaglia per la loro generosa disponibilità e i preziosi suggerimenti.