GAUDERICO
Nulla si sa delle sue origini familiari e del luogo e data di nascita; la sua stessa esistenza in vita è testimoniata solo per gli anni 867-879.
Il nome, di origine germanica, potrebbe essere segno di una origine estranea a Roma e alla regione romana, dato che in questo periodo nomi di tal genere vi risultano ancora relativamente poco diffusi, ma tale affermazione non può avere più che il valore di un'ipotesi. La familiarità di G. con Giovanni Immonide (diacono della Chiesa di Roma e prestigioso intellettuale) e il suo intervento per lo spostamento di reliquie da un altare dedicato alla Vergine in casa di quest'ultimo alla Suburra in Roma (nell'872, fatto riportato nella Sancti Gregorii Magni vita, dello stesso Giovanni Immonide) non possono essere presi di per se stessi come indicazione di un legame di origine di G. con questa zona di Roma.
Non si conservano documenti a lui ascritti nell'esercizio delle funzioni di vescovo di Velletri, a eccezione delle sottoscrizioni agli atti dei sinodi romani dell'869 e dell'879 e di rare menzioni in fonti narrative. La prima attestazione diretta di G. di cui disponiamo ci porta nel mezzo di uno dei tipici scenari di incertezza politica che si determinavano all'indomani della morte di un pontefice. Infatti G. nell'867 risulta proscritto da Roma, insieme con Stefano vescovo di Nepi e Giovanni Immonide, durante la vacanza della Sede pontificia dopo la morte di Niccolò I. L'episodio, riferito solo dal Liber pontificalis, è riportato più per allusione che attraverso una chiara descrizione dei fatti: si dice che una "procacissima falsitas", giunta alle orecchie dell'imperatore Ludovico II, lo avrebbe convinto a decretare l'allontanamento di G. e degli altri due dalla città; il neoeletto papa avrebbe cercato poi di porre rimedio a questa situazione, adoperandosi con l'invio presso la "augusta mansuetudo" di una serie di lettere che sortirono l'effetto non solo di consentire il ritorno a Roma dei tre esiliati, ma anche la liberazione di altri che, sebbene colpevoli di non precisate violenze private, erano stati rinchiusi dall'imperatore in "ergastulis", come se fossero stati colpevoli di lesa maestà.
Il Duchesne ritiene che la causa delle disgrazie di G. e dei suoi compagni fosse da porre in relazione con una incursione a Roma del duca Lamberto di Spoleto, divenuto nell'866 signore di Capua, ma senza precisare se l'imperatore avesse avuto un ruolo in tutto ciò. La notazione, fatta poco prima da parte del biografo del Liber pontificalis, di un contrasto tra i messi imperiali in Roma e la cittadinanza romana, per il fatto di non aver notificato loro la scelta del nuovo pontefice, potrebbe forse far pensare a un tentativo del sovrano, attraverso il duca di Spoleto, di seminare lo sgomento tra i Romani, deportando alcuni chierici tra i più illustri e arrestandone altri che si erano opposti all'iniziativa di Lamberto. Comunque sia, il biografo di Adriano II tiene a sottolineare come fosse stato l'impegno in prima persona del pontefice a fare sì che G., insieme con gli altri compagni di sventura, riacquistasse il precedente status.
A partire dall'868 e per tutto il tempo in cui si conoscono sue notizie, G. risulta coinvolto nelle questioni relative all'arrivo tra gli Slavi dei missionari Costantino-Cirillo e Metodio (che riportarono le reliquie di s. Clemente I papa a Roma da Cherson, in Crimea) e alla promozione del culto dello stesso santo in Roma e in Velletri. Va subito detto che si trattò di impegno della massima importanza, strettamente connesso con il tentativo della Chiesa romana di guidare il processo di evangelizzazione dei popoli slavi del Sud. Tentativo poi non coronato da successo, ma che proprio tra settimo e ottavo decennio del sec. IX conobbe le sue fasi decisive. Non tutti gli episodi relativi a questa sua attività sono purtroppo databili con uguale precisione. La prima notizia dell'impegno di G. in tal senso, pur se discutibile, in quanto proveniente da un'unica fonte, la Vita slava di Costantino-Cirillo, ce lo mostra, nell'868, incaricato di ordinare, insieme con il vescovo di Porto - e futuro papa - Formoso, alcuni discepoli di Costantino-Cirillo e di Metodio.
Una lettera di Anastasio Bibliotecario a G., databile tra l'877 e l'878, ci offre invece una panoramica globale "a ritroso" delle attività portate avanti da G. a tale scopo. Innanzitutto, Anastasio ci dice che G. aveva fatto accuratamente sistemare reliquie del santo nella chiesa cattedrale di Velletri; che aveva fatto ricostruire, in Roma, una "domum oratoriam mirae pulchritudinis"; e infine che aveva devoluto tutto il patrimonio "acquisitae possessionis" al santo e, quindi, attraverso di lui, a Dio. La lettera stessa di Anastasio, del resto, ci rivela un'altra importante parte del programma clementino di G., quella relativa alla raccolta di testi che chiarissero le vicende del culto del santo, e alla loro riproposizione in forme accessibili al pubblico romano, quindi, in primo luogo in "sermo Romanus". G. aveva innanzitutto invitato Giovanni Immonide a redigere gli actus vitae del santo e la sua historia passionis, raccogliendo a tal proposito le informazioni necessarie "ex voluminibus diversorum Latinorum". Quindi Anastasio era stato incaricato da G. di trovare testi greci che potessero accrescere le informazioni disponibili. Lavoro di poco conto, dice Anastasio schernendosi, in confronto a quello di Giovanni, ma che aveva portato comunque alla traduzione dal greco del racconto prodotto da Costantino-Cirillo sulla inventio a Cherson, delle reliquie del santo, di cui si era da lungo tempo perduta memoria. Nella lettera di Anastasio si trova menzione e un breve excerptum di questo testo, che di fatto costituiva la parte iniziale del racconto della gloria postuma di s. Clemente - dal momento del ritrovamento delle sue reliquie a quello del loro trasporto a Roma e della loro sepoltura nell'antico "titulus" - contenuto sia nella già ricordata Vita slava di Costantino-Cirillo, sia nella versione latina, nota come Vita sancti Cyrilli et Methodii cum translatione sancti Clementis o, meglio ancora, come Legenda Italica. Anastasio menziona inoltre il ritrovamento e la traduzione, da parte sua, di due opere di Costantino-Cirillo che egli aveva tradotto dal greco, sempre su commissione di G., e che perciò gli inviava.
Si può dunque dire che G. abbia agito in veste di vero e proprio coordinatore delle iniziative volte al rinnovamento del culto clementino in Roma e in Velletri. Accolse, con Formoso di Porto, i rappresentanti più illustri della missione cristianizzatrice degli Slavi. Formoso era stato, se così si può dire, la "testa di ponte" del Papato tra quelle genti: il mediatore per la ricerca di un accordo che concretizzasse a favore di Roma lo slancio evangelizzatore di Costantino-Cirillo e Metodio. G., forte del suo legame veliterno con il culto di s. Clemente, si incaricò, è da credere, di trovare in Roma un radicamento per i missionari slavi.
A questo proposito si potrebbe cercare una spiegazione all'accenno fatto da Anastasio ai lavori di riedificazione, in Roma, di una domus in onore di s. Clemente. Partendo dal fatto che non si conoscono in Roma altre chiese dedicate a questo santo all'infuori dell'antichissimo titulus Clementis sito nei pressi del Colosseo, bisogna ritenere che gli interventi di G. abbiano riguardato proprio questa chiesa. Come la Legenda Italica ci dice, l'edificio fu interessato in questa fase da almeno due interventi: quello della deposizione delle reliquie del santo, presumibilmente presso l'altare maggiore; e quello della deposizione delle spoglie di Costantino-Cirillo che morì a Roma, poco dopo il suo arrivo, il 14 febbr. 869. Due interventi che, se non costituirono ovviamente una vera e propria ricostruzione della chiesa, ne rafforzarono però radicalmente il prestigio. Archeologicamente parlando, del sepolcro di s. Clemente non si hanno tracce che possano essere ricondotte a questi rifacimenti, mentre le recenti analisi di un affresco in cui si riconosce il ritratto di Cirillo effettuato dal vero e di strutture a esso collegate hanno consentito di identificare l'area di questo monumento funerario e di confermarne la datazione già fornita dalle fonti scritte (Guidobaldi). In via ipotetica si potrebbe proporre di vedere il diretto impegno, anche finanziario, di G. proprio nella realizzazione di queste importanti innovazioni. Abbiamo visto come la lettera di Anastasio a G. si riferisca a ciò, specificando, sembra, che G. avesse investito quella parte del patrimonio che non era compresa nei beni familiari, ma che era stata acquisita personalmente, anche dopo aver ricevuto gli ordini (se così è da intendere la locuzione "totum patrimonium acquisitae possessionis tuae"). Del resto, la vita di Adriano II nel Liber pontificalis non fa menzione di queste opere pur di grande rilievo, e quindi si potrebbe scartare l'idea che esse fossero dovute al diretto intervento del papa.
Tornando alla produzione letteraria su s. Clemente, che vide G. come promotore, il posto d'onore spetta senza dubbio alla già ricordata Vita del santo alla cui redazione fu chiamato Giovanni Immonide (Vita s. Clementis, cfr. Repertorium fontium historiae Medii Aevi, VI, p. 310). Il primo a parlarne è lo stesso Giovanni il quale, alle ultime righe del paragrafo finale della sua celebre Vita di Gregorio Magno, afferma che, dopo la faticosa impresa della biografia appena terminata, si sente spinto a "convertere stilum" al racconto della vita di s. Clemente papa dalle insistenze di G. "episcopus Veliternus". La stessa lettera di Anastasio a G., come si è visto, ci informa del fatto che il presule veliterno aveva intenzione di procedere all'impresa. Impresa che fu effettivamente portata a termine, soprattutto attingendo più o meno diffusamente alle cosiddette Recognitiones clementinae. Queste ultime narrano, sotto forma di romanzo, le vicende della conversione al cristianesimo di Clemente e della sua famiglia e delle traversie di cui tale scelta fu causa. Il rifacimento di Giovanni, invece, prese piuttosto la forma di un profilo agiografico di Clemente. Tuttavia Giovanni non fu in grado di concludere il lavoro, poiché lo colse la morte.
Morto Giovanni, G. si impegnò personalmente per portare a termine la Vita di s. Clemente: è l'unico suo contributo letterario che si conosca. Nel prologo dell'opera, in cui chiede l'approvazione per essa di papa Giovanni VIII, ci dice che l'Immonide aveva in qualche modo completato il lavoro e che lui, pedissequus utilizzatore dei materiali raccolti dal suo dotto amico scomparso, non aveva fatto che riordinarli in tre libri. Sembrerebbe perciò che G. disponesse già di una prima stesura, cui dovette però dare forma finale. È estremamente difficile discernere gli interventi dei due autori. Arnaldi (1956) si pronuncia per un'interruzione e un cambio di mano all'altezza del capitolo I, 18, indicando come segno di ciò il cambiamento di registro narrativo che, da un libero assemblaggio di parti delle Recognitiones, si trasforma in un riassunto pedissequo di queste ultime, perdendo quella brillantezza nella invenzione del racconto che sarebbe il segno dell'arrestarsi del lavoro di Giovanni Immonide; Orlandi, editore della Vita Clementis, ritiene invece che salti di questo tipo si riscontrano in più luoghi dell'opera, rendendo in sostanza impossibile distinguere le due mani, ma tende comunque a vedere come determinante il ruolo di Giovanni nella definizione della impostazione dell'opera, a spese di quello avuto da G., che si sarebbe limitato a completare quanto mancava e a dare a essa la sua definitiva struttura in tre parti, di cui si conservano la prima e, non completamente, la seconda, mentre la terza è perduta. Sulla data della composizione dell'opera disponiamo delle ipotesi proposte da Devos e Meyvaert, che attribuiscono al periodo compreso tra la seconda metà dell'876 e l'879 l'intervento di Giovanni, e all'879-880, quello di Gauderico.
Oltre a quella sulla redazione della Vita di s. Clemente, vi è la questione della possibile paternità di G. della stessa Legenda Italica. Come si è visto, la Vita slava di Costantino-Cirillo e il frammento riportato in traduzione latina da Anastasio sulla inventio, da parte di Costantino-Cirillo, delle reliquie di s. Clemente presentano forti punti di contatto con la Legenda. Dati inoltre i riferimenti, nella lettera di Anastasio a G., a varie opere perdute di Costantino-Cirillo concernenti il culto di s. Clemente che egli avrebbe tradotto per consegnarle al vescovo di Velletri, l'idea è che quest'ultimo se ne sia servito come fonti da far confluire nella redazione della Legenda. Un accurato esame dei testi superstiti e delle loro rielaborazioni a opera di Leone Ostiense, ha consentito di ritenere che l'autore della prima versione della Legenda Italica possa effettivamente essere considerato G. (sempre in collaborazione con Giovanni Immonide), e che essa costituisse proprio la materia della terza parte perduta della Vita di s. Clemente.
Oltre all'impegno per la promozione del culto di s. Clemente, G. è ricordato dalle fonti in numerose circostanze come uomo di fiducia dei pontefici, soprattutto di Giovanni VIII, e da loro impiegato in delicate missioni. Siamo informati, per esempio, che nel maggio-giugno dell'869 partecipò al sinodo romano preparatorio dell'VIII ecumenico antifoziano di Costantinopoli dell'870. In questa circostanza egli appare, insieme col vescovo di Porto, Formoso, una delle voci più rappresentative dell'episcopato vicino al pontefice: ebbe infatti l'incarico di leggere una replica del sinodo al discorso del papa, con la quale si chiedeva la condanna del conciliabolo costantinopolitano dell'agosto 867 in cui, in seguito alle pressioni di Fozio, era stato scomunicato e deposto il papa Niccolò I. Ci è noto inoltre che nell'autunno dell'875, G. venne inviato da Giovanni VIII, insieme con Formoso, presso Carlo il Calvo per sondarne la disponibilità a essere incoronato imperatore. L'anno successivo, resosi più grave il dissidio tra Giovanni VIII e Formoso, fuggito quest'ultimo da Roma (notte tra il 14 e il 15 aprile), G. venne inviato da Giovanni VIII, insieme col vescovo Zaccaria di Anagni, a tentare una mediazione con il vescovo di Porto e i suoi fautori. Non raggiunse il suo obiettivo e la rottura tra il pontefice e Formoso divenne completa.
A scegliere G. come responsabile di questa missione, il papa dovette essere stato indotto dalla conoscenza dell'amicizia e degli antichi rapporti di consuetudine che avevano legato - come si è visto - il vescovo di Porto al vescovo di Velletri. Dunque il papa, se da un lato intendeva giungere ancora a una composizione con Formoso e i suoi, considerava G. come equidistante tra la sua posizione e quella del suo competitore. Infatti, nella cosiddetta Coena Cypriani, componimento satirico di Giovanni Immonide, che era stato completato proprio poco dopo la fuga di Formoso da Roma - evento che vi veniva presentato come una nuova cacciata dei Tarquini da Roma - G. è esplicitamente associato (insieme con Anastasio Bibliotecario, Zaccaria di Anagni e lo stesso Immonide) al ristretto gruppo di ecclesiastici letterati che gravitava intorno a Giovanni VIII (Arnaldi, 1990).
Che G. riuscisse a mantenere anche in seguito una posizione di rilievo nel novero dei collaboratori del papa è dimostrato dal fatto che nell'878, con Zaccaria di Anagni, fu incaricato di svolgere un'ambasceria presso Lamberto di Spoleto, con il compito di dissuadere quest'ultimo dal venire a Roma per riportarvi Formoso e i suoi e restituirli nelle loro antiche posizioni. L'anno successivo il papa lo ricompensò della sua collaborazione intimando ad Anastasio, abate di S. Salvatore Maggiore, di restituire a G. la "cellulam sancti Valentini in Sabinis positam", usurpata al patrimonio della Chiesa veliterna cui era pertinente. In quel medesimo anno, G. partecipò al sinodo convocato a Roma per la preparazione del concilio che si sarebbe tenuto a Costantinopoli dall'879 all'880.
È questa l'ultima notizia su G. che ricorre nelle fonti a noi note.
Insieme con alcuni altri personaggi, quali Anastasio Bibliotecario, il diacono Giovanni Immonide, e, in posizione meno facilmente definibile, Zaccaria vescovo di Anagni e lo stesso Formoso, vescovo di Porto, che dovevano essere pressappoco tutti suoi coetanei, G. si pone come uno dei personaggi di spicco del mondo romano della seconda metà del sec. IX, esprimendo, come questi ultimi, un'attività politico-diplomatica che si svolge parallelamente a un impegno, a vari livelli, in campo culturale e letterario. Tutto ciò è stato interpretato dall'Arnaldi come un tardo riflesso romano della rinascenza carolingia, stimolato dalla necessità di porre il Papato in grado di rispondere validamente al confronto con la Bisanzio di Fozio, e di offrire a esso gli strumenti per sostenere, nell'elaborazione delle prese di posizione ideologico-politiche, il vacillante ordine imperiale. La fioritura di questa sorta di cenacolo sembra essere fortemente legata alle personalità e al dinamismo dei pontefici Niccolò I (858-867), Adriano II (867-872) e Giovanni VIII (872-882); G. agisce al suo interno quale perfetto raccordo tra le esigenze connesse col governo della Chiesa romana e quelle derivanti dalla volontà di rafforzarne il prestigio culturale su un piano più vasto. Nel quadro istituzionale dei primordi del governo temporale pontificio, la figura di G. merita qualche considerazione ulteriore. Egli non apparteneva ai quadri amministrativi del cubiculum lateranense, ma era il titolare di una delle diocesi del territorio prossimo a Roma, anche se non di una di quelle cosiddette "suburbicarie". Sebbene il problema non sia ancora stato risolto in modo convincente, nell'embrione di amministrazione territoriale che i papi cercarono di mettere in funzione nell'ex ducato bizantino di Roma, i vescovi andarono a ricoprire un ruolo di grande rilievo, sia per essere usati come ulteriore vivaio di fiduciari del papa per missioni di carattere politico-religioso, sia come longae manus del pontefice nel controllo del territorio. In questo senso G. - che non appare direttamente legato ad alcuna delle consorterie aristocratiche romane che indirizzavano al cubiculum loro esponenti per consolidare le proprie posizioni di potere - dovette risultare particolarmente prezioso per un pontefice come Giovanni VIII che combatté una strenua battaglia per difendere le ragioni di una politica papale superiore alle lotte intestine della società romana.
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