GOZZI, Gasparo
Nacque a Venezia primo di undici figli, due dei quaii morirono presto, da Iacopo Antonio e da Angela Tiepolo, patrizia veneta, il 4 dicembre 1713. Oriundi di Ragusa, i G. s'erano trasferiti anticamente nel Bergamasco, ov'ebbero nel Cinquecento la cittadinanza veneta; il ramo cui Gasparo apparteneva, per avere acquistato nel sec. XVII vaste possessioni a Vicinale nel Friuli, ottenne il titolo comitale e l'iscrizione nel libro d'argento dei segretarî della repubblica. Gasparo ebbe i primi rudimenti da istitutori domestici, entrò poi nel collegio dei somaschi a Murano, e, uscitone, studiò a Venezia la giurisprudenza e le matematiche, continuando da sé a coltivare le lettere. I primi saggi del suo ingegno egli diede quando, invaghitosi della poetessa Luisa Bergalli che aveva dieci anni più di lui, compose un breve canzoniere amoroso alla maniera del Petrarca e corredò l'edizione da lei procurata delle Rime di don Antonio Sforza (Venezia 1736), che le era stato maestro, di alcune sue poesie e della vita dell'autore. Di lei, in una lettera all'amico Anton Federigo Seghezzi, difese l'anno appresso contro un critico anonimo la traduzione che, con quella delle altre tragedie di Racine, aveva fatto della Tebaide, e quand'ella pubblicò, illustrandola con poesie di varî, un'edizione delle Rime di Gaspara Stampa, vi contribuì egli pure con due sonetti. Nello stesso anno 1738 la fece sua moglie.
Delle strettezze economiche in cui ebbe a trovarsi, divenuto capo di famiglia e padre di cinque figli, talché gli convenne "pattuire il cervello e farlo operaio degli ingordi librai", molti dànno la colpa alla moglie, e primo suo fratello Carlo, che ne dice "pindarica" l'amministrazione a lei affidata dal marito tutto dedito ai suoi studî; ma è giusto notare che il già cospicuo patrimonio era, quando Gasparo la sposò, di molto assottigliato per il disordine che da lungo tempo regnava nella casa e per le spese inconsulte dei genitori di lui; né a rassestarlo valse l'essersi questi e i novelli sposi ritirati a Vicinale, dove stettero circa due anni dal 1740 al 1742, e dov'egli e la moglie si diedero, per guadagno, al tradurre. Di lui è di quel tempo una traduzione di Plauto, come risulta da sue lettere al Seghezzi, della quale nulla è rimasto. Scrisse inoltre versi, come ne aveva già cominciato a scrivere, per raccolte in occasione di nozze, monacazioni e simili, e orazioni inauguratorie per procuratori di S. Marco; ed è lunga la serie, così degli uni come delle altre, che dovette poi scrivere per necessità della vita, compresi alcuni poemetti, tra i quali, non senza pregi, Il trionfo dell'umiltà (Venezia 1759), La vittoria d'amore (Venezia 1772), Della prudenza (Venezia 1765). Gli piacque tuttavia, durante quel soggiorno, sbizzarrirsi per proprio conto, scrivendo poesie burlesche, che mandava agli amici con briose lettere, le quali poesie, insieme con altre dello stesso genere che poi compose, pubblicò la prima volta anonime col titolo Rime piacevoli d'un moderno autore (Lucca, ma Venezia 1751). Il disagio ciò nonostante si faceva sempre maggiore. Il padre, già colpito da paralisi, cessava di vivere nel 1745, e poco dopo i fratelli, per dissensi familiari, si separarono da Gasparo, lasciando a lui il carico di provvedere, oltre che alla moglie e ai figli, alla madre e alle sorelle. In tanto frangente venne alla Bergalli la malaugurata idea di assumere l'impresa del teatro Sant'Angelo, ed egli vi consentì, e tutti e due si diedero a tradurre componimenti teatrali dal francese. Notevoli tra quelli di lui l'Esopo alla corte e l'Esopo in città di E. Boursault (Venezia 1748), per le favole, alcune originali del traduttore, che vi sono inserite. L'impresa durò dal 1746 al 1748, e fu una rovina. Altre traduzioni del medesimo genere egli aveva fatto prima e altre ne fece poi. Esse sono da H.-B. de Longepierre, da Ph. Destouches, dal Voltaire, di cui piacque quella della Zaira, e da altri ancora. Una traduzione delle commedie del Molière, pubblicata a Venezia tra il 1756 e il 1759, è ritenuta dai più opera di lui. Di suo compose l'Edipo, l'Isaccio, il Marco Polo e l'Antiochia, che, non senza valore per altri rispetti, mostrano la poca sua attitudine a scrivere per il teatro. Compose inoltre alcuni melodrammi e Cantate per varie occasioni.
Del 1747 è l'Accademia dei Granelleschi, della quale fece parte e rallegrò le adunanze con le spiritose Cicalate e i versi burleschi sull'Arcigranellone; e fu lui, quand'essa cominciava a declinare, che indusse i soci a riunirsi più sere la settimana per leggere la Divina Commedia; il che fu preparazione a quel Parere sopra il poemetto "Le Raccolte" (Venezia 1758), di S. Bettinelli, scritto da alcuni di essi, prendendo di mira i danteschi, e maggiormente a quel Giudizio degli antichi poeti sopra... Dante, seguito dalla versione, fatta su altra francese, del Saggio di critica del Pope (Venezia 1758), ch'egli oppose trionfalmente alle Lettere virgiliane di quello, facendolo uscire quasi contemporaneamente a esse, che aveva potuto vedere inedite. Un anno prima aveva nell'edizione Zatta della Divina Commedia premesso di suo gli argomenti a ciascun canto in due terzine. Del Goldoni, al quale i Granelleschi mossero ingiusta guerra, accoppiandolo col Chiari, egli fu giusto estimatore e se ne biasimò qualche commedia men bella, ne lodò altamente altre e difese in versi martelliani dialettali quella Il filosofo inglese che il Baffo aveva, con tali versi, criticata. Il Goldoni, nella commedia Il cavaliere di buon gusto mette in bocca a questo le maggiori lodi del primo volume delle Lettere diverse di lui, apparso in quell'anno 1750 e dedicato a Marco Foscarini. L'altro, pubblicato due anni dopo, è dedicato a Bartolommeo Vitturi. Al Foscarini il G. fu d'aiuto nel comporre il libro Della letteratura veneziana, e dalle ville di lui, dov'era ospite, scriveva, scherzando sulla vita che vi si conduceva, lettere affettuose a Marianna Mastraca, di cui a Venezia era solito frequentare la casa.
Gli anni dal 1750 al 1760 furono per lui dei più angusti. Ebbe bensì nel 1754 l'incarico di copiare per 200 ducati l'anno il catalogo della libreria di S. Marco; ma ciò non bastando ai bisogni suoi e della famiglia, dovette far scuola , per circa sei anni e "tragger carte Dal gallico idïoma, o ignote o vili, Alla lingua d'Italia". Sperava con la protezione del Foscarini, già stato più volte uno dei Riformatori dello Studio di Padova, di ottenere nel 1760 la cattedra di lettere latine e greche, rimasta in quello vacante, e a tal fine gli diresse uno de' suoi sermoni; ma egli non sapeva di greco, e l'ebbe l'ab. C. Sibiliato. In compenso ottenne dai Riformatori nel 1762 l'ufficio di vicesoprintendente alle stampe e alle materie letterarie, dal quale nel 1764 fu promosso a quello di soprintendente. Al Pindemonte sembra difficile non fosse, almeno leggermente, tinto di greco, e ciò per aver egli tradotto alcune Orazioni di Giovanni Crisostomo e di Basilio, alcuni Dialoghi di Luciano (Londra, ma Venezia 1764), Gli amori pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista (Venezia 1766), Il quadro di Cebete Tebano (Venezia 1780), che dovevano far parte di una grande opera che, come afferma in altro sermone al Vitturi, dal quale sperava aiuto a darla in luce, aveva intrapreso sull'eloquenza dei Greci e dei Latini. In relazione ad altre stanze rusticali del Vitturi sono, nel volume delle Lettere diverse a lui dedicato, quelle su La Ghita e il Piovano (Venezia 1775-76, voll. 2). I due volumi non hanno sole lettere, ma dialoghi, novelle, favole, sogni, traduzioni, capitoli e sermoni. Di questi, che sono quanto di meglio il G. abbia scritto in poesia, uno è nel volume primo e sei nel secondo. Altri, fino a quattordici, ne sparse in pubblicazioni posteriori, e altri quattro, che lasciò inediti, stampò A. Dalmistro nella prima edizione delle Opere. In essi, o punga i depravati costumi del tempo, o satireggi i cattivi poeti e predicatori, o lamenti la propria sorte, dà prova di fine arguzia e di arte squisita.
Il primo numero della Gazzetta veneta, nella quale egli "per buona amicizia con alcune persone interessate" - l'avevano queste fondata a scopo commerciale - s'era assunto l'incarico "di mettere in iscritture quelle notizie che gli venivano somministrate", è del 6 febbraio 1760; ne uscivano due numeri per settimana, il mercoledì e il sabato e contenevano avventure toccate a questo e a quello, risse di popolani, litigi di femminette, gesta d'ubbriachi, ladronecci, ch'egli narra piacevolmente. Non contento di tali notizie, a render utile e insieme più vario il giornale, v'inserì altre scritture, tra le quali importanti le critiche teatrali, per la lotta che allora ferveva contro il Goldoni e il Chiari. Alla fine del gennaio 1761 si ritirò dalla Gazzetta, e il 4 febbraio pubblicò il primo numero dell'Osservatore, che è il suo capolavoro. Durante quella e i primi numeri di questo egli attese a un'altra pubblicazione periodica, Il mondo morale (Venezia 1760), ingegnosa ma lunga e stucchevole allegoria in più capitoli, che lasciò incompleta. Ne interrompono di quando in quando la monotonia due sermoni, la versione di sei dialoghi di Luciano e quella in versi della tragedia La morte di Adamo del Klopstock, condotta su altra francese in prosa, com'è in prosa l'originale. Altre traduzioni, fra le molte, sono Il paradiso terrestre di Marie-Anne du Boccage (Venezia 1758), Le tortorelle di Zelma di C.-J. Dorat (Venezia 1768), L'arte della pittura di Ch.-H. Watelet (Venezia 1771), Le quattro stagioni di J.-F. Saint-Lambert (Venezia 1771), Del vetro, poemetto latino di P.P. Brumoy (Venezia 1775), Le novelle morali J.-F. Marmontel (Venezia 1779), e, dal greco, attraverso il francese, La serietà vinta, ovvero gli am0ri d'Ismene e Ismenia, una Diceria di Libanio Sofista, il Libro primo di Eliodoro, il Ragionamento di Atenagora intorno alla resurrezione dei morti. Altre ancora, col suo nome o a lui attribuite, sono opera in gran parte della moglie e delle figlie. L'Osservatore, col quale s'era proposto "di andare dietro le tracce" dell'Addison, più che assomigliare allo Spectator di questo, cui rimane, per molti rispetti, inferiore, richiama, trattata con maggiore ampiezza e varietà, la parte letteraria della Gazzetta. Usciva anch'esso due volte la settimana, e dopo un anno, avendo alcuni colleghi granelleschi promessa la loro collaborazione, s'intitolò Gli Osservatori. Ma trascorso il primo trimestre, uscì una volta sola la settimana e in capo al secondo cessò del tutto. L'ultimo foglio reca la data del 18 agosto 1762. La ristampa dell'editore Colombani (Venezia 1767-68) non ha più la forma di periodico, e la materia vi è divisa in cinque parti.
Nel 1770 il Magistrato dei Riformatori, volendo dare un nuovo e più razionale indirizzo alle scuole, commise al G. l'incarico di studiare e proporre una riforma degli studî, il che egli fece con due scritture recanti la data del 12 agosto. L'anno appresso ebbe, insieme con altri due autorevoli, quello di proporre un rimedio al decadimento dello Studio di Padova. La relazione, scritta da lui e sottoscritta da tutti e tre, ha la data del 6 agosto 1771. Il 29 novembre 1773, ebbe l'incarico di riferire "con la maggiore sollecitudine" intorno al "più agevole e vantaggioso sistema" da porre in pratica nelle scuole della Dominante, prima amministrate dai gesuiti (soppressi in quell'anno), ed egli lo adempì con scrittura del 29 dicembre successivo. Eguale incarico ebbe l'anno di poi per quelle di Padova, e inoltre di formare per le une e per le altre la biblioteca, scegliendo fra i libri della soppressa Compagnia. Altra relazione di lui è del 17 dicembre 1775, Sopra il corso di studî che più convenga all'Accademia della Zuecca in Venezia. Per uso delle scuole pubbliche compilò (Venezia 1779) una Scelta di lettere tratte da diversi autori per ammaestramento de' giovinetti, molte delle quali tradusse dal latino egli stesso. Del medesimo anno è il libretto Alcuni componimenti in prosa e in verso (Venezia 1779), dedicato a Caterina Dolfin Tron, sua protettrice, dalla quale riconosce aver il suo vivere "da forse due anni in qua, ricevuto nuovo principio". Due anni prima, infatti, egli s'era gettato nel Bacchiglione da una finestra della casa che quella aveva messa in Padova a sua disposizione perché si rimettesse da grave malattia. Quale sia stata la cagione che l'indusse all'atto insano non è ben certo; ma, tratto in salvo, ebbe per ordine di lei, ch'era a Venezia, le maggiori cure. Lo assistette nella convalescenza la parigina Sara Cénet, che aveva conosciuta nel 1756 e che, mortagli nel 1779 la moglie, sposò per gratitudine. Con lei visse malaticcio in Padova gli ultimi anni, dopo aver ceduto lo scarso patrimonio, ritenendone per sé una piccola parte, oltre alle pensioni della Repubblica, al figlio Francesco, l'unico rimastogli, morto giovine un altro e accasate le figlie. Morì il 26 dicembre 1786.
Ediz.: Oltre a quelle delle singole opere già citate, vanno ricordate: Opere complete, Venezia 1794, voll. 12, e Padova 1818-20, voll. 16, a cura di A. Dalmistro; una buona scelta in 5 voll., a cura di G. Gherardini, Milano 1821-22 e un'altra a cura di N. Tommaseo, Firenze 1848-49 in 3 voll.; La Gazzetta Veneta a cura di A. Zardo, Firenze 1915; L'Osservatore pubblicato integralmente secondo l'ed. del 1761, a cura di E. Spagni, Firenze 1897; Sermoni, illustrati e commentati, a cura di A. Giannini, Palermo 1892; Poesie, a cura di C. Gargiolli, Firenze 1862.
Bibl.: A. Dalmistro, Vita di G. G., premessa all'ediz. delle Opere, Padova 1818-20; I. Pindemonte, Elogi di letterati italiani, Firenze 1859, p. 389 segg.; N. Tommaseo, Proemio agli Scritti di G. G., Firenze 1849, riprodotto in Storia civile nella letteraria, Torino 1872, pp. 180-259; A. Malmignati, G. G. ed i suoi tempi, Padova 1890; V. Malamani, G. G., in Nuovo archivio veneto, I (1891), p. 9 segg.; M. Gemma, Cenni sulla vita di G. G., Vicenza 1907; P. Pompeati, Introduzione al vol. G. G.: Prose scelte e sermoni, Milano 1914; A. Zardo, G. G. nella letteratura del suo tempo in Venezia, Bologna 1923; id., Teatro veneziano del Settecento, Bologna 1925.