CONTARINI, Gasparo
Primogenito di Alvise di Federico dei Contarini del ramo della Madonna dell'Orto e di Pofissena di Tommaso Malipiero, nacque a Venezia il 16 ott. 1483 in una famiglia patrizia tra le più antiche, illustri e ramificate della Repubblica.
Ricevette le prime nozioni di grammatica, retorica e abaco in qualche scuola dei sestiere di Cannaregio dove, presso la chiesa della Madonna dell'Orto, sorgeva il palazzo Contarini o, più verosimilmente, da un pedagogo stipendiato da famiglie patrizie. Sebbene Alvise intendesse destinare i figli maschi alla cura del non trascurabile patrimonio immobiliare e terriero della famiglia e soprattutto alle intense attività mercantili che tenevano i Contarini impegnati nelle Puglie e in Alessandria d'Egitto, riscontrando nel fanciullo particolare attitudine agli studi, cercò di favorirne ed incoraggiarne il proseguimento, ripetendogli spesso "che el lo volea far Cardinale". Intorno ai dodici anni - età richiesta per potervi accedere - il C. fu inviato alla scuola d'umanità di S. Marco presso la Cancelleria, dove frequentò le lezioni di G. Valla e di Marc'Aurelio Sabellico. Probabilmente dopo la morte del Valla, nel gennaio 1500, si trasferì alla scuola di logica e di filosofia di Rialto, che rappresentava - in contrappositone all'orientamento platonico, umanistico-filosofico e moralistico-religioso della scuola di S. Marco - l'indirizzo filosofico, cioè aristotelico-averroistico, naturalistico e scientifico della cultura veneziana. Vi frequentò le lezioni di Antonio Giustinian, che insegnava la logica, la filosofia naturale, la teologia, le matematiche e l'astronomia.
Nel 1501 si recò a completare la sua formazione allo Studio di Padova. Gli studi compiuti presso le due scuole pubbliche di Venezia lo orientavano naturalmente verso la facoltà delle arti, in cui, accanto alla retorica latina e greca, alle scienze mediche - per le quali, peraltro, non sembra aver nutrito particolare interesse -, alla teologia, alla matematica, all'astronomia, le discipline filosofiche occupavano un posto preponderante nell'insegnamento ed annoveravano all'inizio dei secolo illustri lettori, quali Pietro Pomponazzi ed Alessandro Achillini. Il soggiorno patavino fu però presto interrotto, dalla morte del padre, avvenuta nel corso del 1502, che lo costrinse a rientrare a Venezia per sistemare gli affari della famiglia e per affidare, in quanto primogenito, ad alcuni dei suoi sette fratelli la gestione delle attività mercantili e ad altri il governo della casa e delle cinque sorelle, che non più di un anno dopo perderanno anche la madre. Rientrato poco dopo a Padova, il C. vi trascorse all'incirca otto anni dividendo il suo tempo tra un'intensa attività di studio e il culto di amicizie selezionate.
Scarse sono le notizie sui corsi che egli frequentò durante la sua lunga permanenza allo Studio. Tuttavia, tra i suoi maestri possono annoverarsi con certezza il cretese Marco Musuro che dal 1503 al 1509 insegnò retorica greà; il filosofo Alessandro Achillini, che fra il 1506 e il 1508 ebbe la lettura di filosofia naturale in concorrenza con il Pomponazzi; Giovarmi Calfurnio, che insegnò retorica latina fra il 1486 e il 1503. Certamente, considerando Pinteresse che il C. porterà alle discipline matematiche ed astronomiche, frequentò le lezioni di Benedetto dei Tiriaca il quale tra il 1498 e il 1506 e di nuovo nel 1508-1509 tenne le cattedre di matematica e di astronomia. Ma "il principale suo maestro" fu il mantovano Pietro Pomponazzi che fra il 1499 e il 1509 leggeva filosofia naturale rivelando già nell'insegnamento quel lento processo di disgregazione della sua fiducia nell'infallibilità di Aristotele e del suo commentatore Averroè, che, attraverso un avvicinamento, sia pure ancora incerto, agli scritti di Alessandro di Afrodisia e di Avicenna nel corso dell'esposizione del De anima del 1504-1505, lo condurrà nel 1516 a negare la possibilità di enucicare dai testi aristotelici l'immortalità dell'anima. Rievocando gli anni universitari, il C. asserirà che mentre tutti a Padova erano averroisti, egli aveva preferito seguire Alessandro d'Afrodisia, pur non condividendone in pieno l'interpretazione della dottrina aristotelica, e dichiarerà aver avuto serie obiezioni contro l'immortalità dell'anima. Tali affermazioni denotano nel giovane patrizio un'autonomia di giudizio, anche rispetto all'insegnamento del maestro, il quale solo più tardi giungerà a quelle posizioni estreme, in cui è certamente da ravvisare la profonda influenza dello spirito e dei metodi critici con cui il Pomponazzi - e tanti altri suoi colleghi padovani - affrontavano i testi aristotelici, dì quella libertà critica che era il portato della rivoluzione umanistica penetrata agli inizi del secolo anche nello Studio patavino.
L'assedio di Padova nel giugno del 1509 venne ad interrompere bruscamente la vita studentesca del C. senza che egli avesse potuto o voluto ("si vole esser dotto, et il titolo di dottore lasciarlo ad altri", era solito ripetere) conseguire il dottorato in artibus. Rientrato a Venezia, sembra in questi primissimi anni estranearsi dalle drammatiche vicende politiche e militari che minacciarono la stessa esistenza della Repubblica e che si protrassero per otto anni, provocando una crisi di sgomento e di smarrimento della classe dirigente tra le più gravi e le più lunghe della vita della Serenissima. Il C. infatti proseguì con impegno gli studi filosofici, matematici e teologici, acquistando tale fama da richiamare nel palazzo della Madonna dell'Orto patrizi di ogni età, cui impartiva lezioni di filosofia. Solo a partire dall'autunno del 1512 si trovano testimonianze di un suo interesse per la carriera politica cui lo destinavano la sua appartenenza al patriziato e la compiuta educazione che aveva ricevuto.
Il suo ingresso nell'amministrazione statale fu, tuttavia, inspiegabilmente tardivo, come inspiegabilmente tardiva appare la percezione da parte del C. e dei suoi fratelli della gravità della situazione politico-militare. Infatti, non prima dell'autunno del 1513, quando i cannoni spagnoli verranno puntati sulla stessa Venezia, egli si decise a contribuire all'ingente sforzo bellico sostenuto dal patriziato lagunare, inviando uno dei suoi fratelli a Padova con 15 fanti. Non sembra, tuttavia, si possa interpretare questo disimpegno alla luce della condanna dell'espansionismo sulla Terraferma come una delle cause delle sciagure della Repubblica espressa, da un settore dei patriziato. I Contarini avevano investito e continueranno ad investire i proventi delle loro attività mercantili in beni. terrieri sulla Terraferma e proprio nel Padovano, dove era stato inviato il fratello, il C. possedeva 445 "campi". Né, d'altro canto, le difficoltà incontrate nell'ottenere un ufficio possono essere state di ordine economico, se si considera che a partire dall'ottobre del 1512 il suo nome ricorre frequentissimo negli scrutini degli oratori destinati agli Stati italiani ed esteri, segno che aspirava a cariche, come le ambascerie, finanziariamente fra le più gravose. Tuttavia, nonostante appartenesse ad una delle "case grandi", anzi alla più "grande" in assoluto, legata ad altre "case" influenti e nonostante le necessità economiche della Repubblica avessero reso più facile l'accesso dei "giovani" a cariche per solito riservate ai "primi" patrizi, le sue aspirazioni a ricoprire incarichi diplomatici non si concretarono. I ripetuti insuccessi in tale direzione e, probabilmente, l'aggravarsi della situazione economica generale, lo spinsero, nel settembre 1515, quando lo Stato dovette ricorrere alla vendita degli uffici mediante prestiti a basso interesse, a tentare la via dell'ingresso in Collegio. Prestò 3.000 ducati e concorse all'ufficio di avogador di Comun, che gli venne rifiutato il 2 settembre. Quantunque egli stesso riconoscesse che in quella circostanza nel patriziato "la ambition senza comparatione haveva habuto maggior forza che il ben de la patria" e che altre volte in "grandissime necessità... mai se haveva trovato una tal prompteza ad adiutare la patria", l'umiliazione fu tanto più scottante in quanto gli furono preferiti due patrizi che avevano prestato cifre inferiori. Dovranno trascorrere altri tre anni prima che, il 17 ott. 1518, alla età di 35 anni, gli venisse conferita la sua prima carica nell'amministrazione veneziana, lo ufficio di "provedador sora la Camera de Imprestedi".
Questo prolungato differimento dell'ingresso nel servizio della Repubblica gli consentì, però, oltre che di dedicarsi allo studio ed alla stesura delle prime opere, di coltivare quella "civil conversation" che fu, fin dagli anni padovani, un'esigenza profondamente vissuta dal C., che in essa cercava di conciliare l'ideale aristotelico di philia con il precetto evangelico dell'amore per il prossimo. Il lungo periodo di otium fu dedicato al consolidarsi. di vecchie amicizie ed al formarsi di nuovi profondi vincoli che lo legheranno a un gruppo di patrizi e di intellettuali tra i quali Giambattista Egnazio e Alberto Pio da Carpi, Trifone Gabriel, ed Agostino da Pesaro. Fu soprattutto determinante il rinnovato sodalizio con gli amici degli anni padovani, Tommaso Giustiniani, Vincenzo Querini, Niccolò Tiepolo, Marco Musuro, cui verranno ad aggiungersi Sebastiano Giorgi e appunto l'Egnazio.
Questa ristretta cerchia di giovani di profonda cultura e - con l'eccezione del Musuro e dell'Egnazio - di elevata posizione sociale, raccoltasi intorno a Tommaso Giustiniani, il più anziano, aspirava ad una riforma dell'uomo interiore, ad un approfondimento della religione individuale attraverso un ritorno alla morale evangelica e ricercava nella preghiera, nello studio. nella meditazione, nelle conversazioni dotte un rifugio dai drammatici eventi che sconvolgevano la patria.
Anima e guida di questo gruppo, il Giustiniani, personalità fortissima ed avvincente, si sforzò di imporre agli amici, incerti sulla strada da percorrere per attuare il nuovo ideale di vita, quelle vie che, dopo profonde lacerazioni, gli si erano rivelate come le sole capaci di condurre l'uomo alla salvezza eterna: abbandono dello studio delle scienze profane e dei sofismi e delle astrazioni logiche della teologia degli scolastici, da sostituirsi con lo studio delle Sacre Scritture e dei Padri che "sogliono illuminare le menti umane, e pascerle del soavissimo cibo della verità, dimostrandoli quante siano le tenebre di tutte le mondane non scienze, ma inscipienze" (Ann. Camald. ..., IX, col. 544) e costante riflessione sulla caducità delle cose terrene, di cui le vicissitudini della Repubblica offrivano quotidiana testimonianza. Queste posizioni condurranno presto il Giustiniani a farsi eremita. Una decisione che porrà alcuni fra i suoi amici di fronte all'alternativa se imitarne l'esempio o rimanere nel secolo e darà inizio ad un ìntenso commercio epistolare fra Venezia e Camaldoli, dove alla fine del 1510 il Giustiniani si era ritirato e dove, nel novembre successivo, lo raggiungeranno Sebastiano Giorgi e Vincenzo Querini.
Profondamente scosso dall'esempio degli amici e dai prepotenti richiami del Giustiniani, ma fermamente convinto a non seguirli, il C. cercherà una "sua" via alla salvezza. Il suo carteggio con gli amici eremiti, protrattosi per oltre un decennio (1511-1523), delinea l'itinerario tormentato di un laico alla ricerca di un "modo medio" nel mondo e riflette il costante sforzo di emanciparsi dalla forte personalità del Giustiniani attraverso la sofferta elaborazione delle basi teoriche su cui fare poggiare la propria scelta di vita.
Trattasi di un dialogo serrato, privo di concessioni alla retorica, povero di riferimenti testuali, vivo e palpitante per il totale impegno degli interlocutori, in cui alla superiorità della vocazione monastica asserita dal Giustiniani, il C., pur riaffermando la legittimità di questa vocazione, opporrà una concezione religiosa della vita umanisticamente intesa come impegno civile e politico e come dedizione al prossimo e, contro l'accento posto dal Giustiniani sulla gerarchia tra le varie forme di vita, insisterà sulla loro equivalenza, sulla inesistenza di una condizione di vita privilegiata all'interno del cristianesimo. Inoltre, contro il radicale rifiuto degli studi classici invocato dal Giustiniani come mezzo alternativo di salvezza per chi volesse rimanere nel mondo, il C. rivendicherà il valore della cultura classica in cui ravvisava "quella moralità, la qual li philosophi hanno vista con el lume naturale, el qual è etiam dono grande di Dio".
Tuttavia, nella difesa da parte del C. dei valori terreni, in cui la sensibilità umanistica s'innestava sulla mentalità mercantile del patriziato, confluirono anche motivi profondamente religiosi, maturati, oltre che nel rapporto co! Giustiniani, anche a contatto, nel monastero di S. Giorgio Maggiore, con la spiritualità impregnata di motivi ascetico-mistici della devotio moderna della congregazione benedettina riformata di S. Giustina (non a caso nell'aprile del 1514 corse la voce, immediatamente smentita, che il C. si era fatto monaco a Praglia) ed acuiti dalla generale crisi di sfiducia di fronte allo sgretolamento morale e materiale della classe dirigente della Repubblica e delle sue istituzioni in quegli anni.
La scelta dei C. di cercare la salvezza nel mondo servendo la patria, la famiglia e gli amici, non era infatti solamente determinata dalla rivalutazione dei valori terreni e dalla rivendicazione della natura sociale dell'uomo, ma era profondamente condizionata dalla sua evoluzione religiosa, che muoveva da una problematica, per certi versi, analoga a quella dei giovane Lutero, impemiata intorno al tema della misericordia divina, tema ricorrente nella predicazione e nella letteratura di pietà dell'epoca: la sfiducia nella capacità dell'uomo di salvarsi con le proprie forze, la convinzione che nessuna penitenza umana, nel mondo come nell'eremo, fosse sufficiente a soddisfare la giustizia di Dio. Momentaneo sollievo allo stato di prostrazione derivante da queste considerazioni gli venne il sabato santo del 1511 dalle parole di un confessore il quale cercò di convincerlo che la via della salvezza era più larga di quanto solitamente ritenuto. Rimeditando quelle parole egli comprese che tutte le opere di penitenza cui si fosse sottoposto non avrebbero mai potuto cancellare le colpe passate, che le proprie forze non avrebbero mai potuto soddisfare il debito contratto e che a tal uopo Dio aveva mandato il suo figlio unigenito la cui passione era stata sufficiente a compensare i peccati commessi dall'uomo per la sua fragilità.A quella "illuminazione" del sabato santo destinata ad avere un peso determinante sul suo futuro atteggiamento nel confronti dei protestanti, non riuscì allora a dare una sistemazione teologica cui potersi ancorare nella difficile ricerca di una pace interiore. Due anni dopo s'infrangeva definitivamente la fiducia nella capacità dell'uomo di concorrere alla propria salvezza ed era s. Paolo (2Cor. 1, 5) a dargli la certezza che "nui da per nui non semo sufficienti... pur di pensar non che di operar cosa che buona sia" (Jedin, C. und Camaldoli, p. 39). Occorrerà giungere al 1523 per riscontrare nel C. un interesse specifico per la dottrina della giustificazione e per verificare inequivocabilmente una sua dimestichezza con gli scritti di Lutero.
Scrivendo al Giustiniani da Valladolid egli sembra riassumere la sua evoluzione religiosa nell'arco di un decennio: "son venuto in questa firma conclusione, la quale, benché prima l'havesse lecta et l'havesse saputo dire, niente di meno ora per la experientia io la penetro benissimo con lo intellecto mio, cioè che niuno per le opere sue se puol iustificare over purgare lo animo da li affecti, ma bisogna rincorrere a la divina gratia la quale se ha per la fede in Iesu Christo, come dice Sancto Paulo, et con lui dire: Beatus, cui non imputavit Dominus peccatum, sine operibus... Onde concludo quod universa vanitas omnis horno vivens, et che bisogna che se iustificamo per la iustitia de altrui, cioè de Christo, al quale coniungendose, la iustitia sua se fa nostra, né de nui stessi fidarsi in un minimo puncto, ma dire: A nobis retulimus responsum mortis" (ibid., p. 67).
L'anno 1515, con il miglioramento della sua salute, segna una svolta nella vita dei C., il quale sembra voler reagire a una troppo prolungata "melancolia", adoperandosi più attivamente per entrare nella amministrazione pubblica, viaggiando, e soprattutto dedicandosi ad una feconda attività letteraria. Nella primavera si recò a Camaldoli a rendere la visita da tempo promessa al Giustiniani e di lì proseguì per Firenze dove ebbe modo di conoscere Francesco Cattani da Diacceto, Raffaele e Alfonso Pitti, Marcello Virgilio Adriani, e un "messer Rucellai" da identificare con ogni verosimiglianza con Cosimino, anima delle riunioni del secondo decennio dei Cinquecento degli Orti Oricellari.
Per il Diacceto il C. dimostrerà "summa veneratione" e si adopererà per fargli ottenere un insegnamento nello Studio patavino. È probabile che per suo tramite il C. fosse introdotto alle riunioni degli Orti Oricellari e partecipasse alle vivaci discussioni intorno alle istituzioni politiche degli antichi, alla miglior forma di governo, alla costituzione veneziana. A quegli incontri si può fare risalire l'interesse del C. per le istituzioni della patria che si concreterà nel De magistratibus et Republica Venetorum. A Firenze e a Camaldoli entrò, inoltre, in contatto con gli ambienti savonaroliani, stringendo rapporti con il carnaldolese Michelangelo. Bonaventura de' Pini e con Pier Francesco da Gagliano, futuro seguace di santa Caterina de' Ricci, con il quale progettò un viaggio, poi non realizzato, in Terrasanta. Dai rapporti con gli epigoni del movimento savonaroliano il C. fu indotto a leggere l'opera del frate ferrarese ed a formulare, il 18 sett. 1516 su richiesta del Giustiniani, un importante "consiglio" sulla questione della scomunica e del Profetismo del Savonarola. In esso egli approva il rifiuto savonaroliano di assoggettarsi alle censure pontificie ritenute contrarie al "praecepto della charità" e rifiuta di considerare eretica l'interpretazione profetica della Scrittura data dal domenicano - ritenendo che non tutti "li sensi della scriptura" ci sono noti -, affermando che ben al di là del profetismo, la renovatio ecclesiae era imposta dalla "ragione naturale et divina".
Nell'autunno del 1516 apparve a Bologna il De immortalitate animae di Pietro Pomponazzi, in cui il filosofo negava la possibilità di dimostrare razionalmente la immortalità dell'anima. Allarmato dallo scalpore che la diffusione del trattato suscitò a Venezia, Pomponazzi ne inviò un esemplare all'antico discepolo, rinnovandogli la stima già dimostratagli nel 1515 con la dedica del De reactione, ed invitandolo a esprimere il suo parere sulla questione. Nella replica, dell'estate del 1517, il C., che negli anni padovani aveva aderito all'interpretazione alessandristica, mutava completamente la sua posizione e, contro la tesi dei maestro, sosteneva, ricalcando, sia pure correggendole, le orme di Avicenna ed ispirandosi al suo neoplatonismo, che l'immortalità dell'anima poteva essere dimostrata razionalmente e poteva enuelearsi dai testi aristotelici. Nonostante le sostanziali divergenze delle loro posizioni non soltantosul nesso fra materia e spirito, ma sul punto fonclamentale del rapporto tra fede e ragione, i rilievi del C. furono quelli che il Pompanazzi prese in maggiore considerazione.
A quello stesso periodo - l'estate del 1517 - risale il De officio viri boni ac probi episcopi - più noto col titolo abbreviato di De officio episcopi - che il C. scrisse per il tredicenne Pietro Lippomano, nominato vescovo di Bergamo.
Mentre nel primo dei due libri in cui si articola il trattato egli delinea le virtù umane e cristiane di cui deve essere dotato il buon vescovo, nel secondo esamina gli specifici doveri del pastore, suddividendoli in quattro gruppi: il servizio divino, il governo e la cura dei gregge, la beneficenza e l'amministrazione dei beni ecclesiastici. La scarsa originalità del primo libro contrasta con la ricchezza dei motivi ispiratori del secondo, in cui campeggia la figura esemplare dei vescovo di Padova, Pietro Barozzi, mentre sono riconducibili a tematiche savonaroliane ed erasmiane e soprattutto al Libellus ad Leonom X (l'audace programma di riforma redatto da Giustiniani e Querini per il V concilio lateranense nel 1513) le severe critiche alla non residenza dei vescovi, allo sfarzo dei prelati, all'ignoranza dei clero, alla superstizione del popolo fomentata dagli Ordini mendicanti, alla corruzione dei monasteri femminili, all'abbandono della predicazione da parte degli ordinari. Tuttavia, la preminente preoccupazione di formare un vescovo pio e dotto piuttosto che di elevare il livello morale e religioso dei fedeli - riflesso dell'esperienza religiosa del patrizio assillato dal problema soteriologico individuale e meno permeato da un senso escatologico collettivo - rendeva la raffigurazione del vescovo-tipo di scarsa efficacia sul piano pratico. D'altro canto, nonostante l'attenzione rivolta alla realtà politico-sociale veneziana, sembra siano stati sopravalutati gli intenti politici del trattato con l'attribuzione al C. di asserzioni che furono invece introdotte dai censori post-tridentini. Il trattato, peraltro, segna una tappa importante nell'itinerario spirituale e pratico che condurrà il C. al cardinalato. In esso, infatti, non soltanto sono nettamente individuabili i presupposti della futura azione riformatrice e le tematiche che troveranno concreta espressione nel Consilium de emendanda ecclesia, ma è anche implicita una dichiarazione di disponibilità a servire la patria nel governo di una diocesi. Per il patrizio veneziano infatti la devozione alla patria poteva configurarsi, senza contraddizione, come servizio, nella Chiesa o nello Stato.
Questo breve, ma intenso periodo di operosità letteraria fu interrotto dall'ingresso nell'ottobre del 1518 nell'amministrazione dello Stato come "provevador sora la Camera de Imprestidi", ufficio che lo Portò ripetutamente fuori Venezia, a Rovigo, nel Bassanese e nel Padovano, per attendere alla misurazione ed al prosciugamento dei terreni di bonifica lungo il corso del Po, per risolvere problemi di irrigazione e per porre rimedio allo straripamento dell'Adige. Nonostante il suo ufficio spirasse nel febbraio del 1520, gli fu richiesto di tornare nella primavera e nell'estate nel Polesine. Il 24 sett. 1520 veniva eletto oratore a Carlo V, ma non si mise in viaggio prima del 16 marzo 1521, trattenuto fra l'altro dal matrimonio della sorella Paola - cui vennero assegnati 8.000 ducati di dote - con Matteo Dandolo. Giunto a Worms il 20 apr. 1521 fu ricevuto, del resto assai benevolmente, solo il 25, da Carlo V, impegnato insieme ai principi elettori nel problema luterano.
Il C., che aveva esternato ad amici e parenti prima di lasciare Venezia il desiderio di conoscere il monaco ribelle, per motivi di opportunità preferì non incontrarlo. Riferiva, tuttavia, il contegno di Lutero davanti alla Dieta in alcune lettere private in cui, alla lucida e preoccupata analisi delle dimensioni che stava assumendo la rivolta, si accompag na un senso di disappunto per l'avventatezza del frate, per il quale, prima di giungere in Germania, doveva aver nutrito qualche interesse suscitato dalla lettura delle sue opere diffuse a Venezia già nel 1520: "Se Costui fusse stato prudente et fusse stato su le prime cose, nè se havesse implicato in manifesti errori di la fede, saria, non dico favorito, ma adorato da tutta la Germania" (a N. Tiepolo, Worms, 25 apr. 1521, in M. Sanuto, XXX, col. 2 16).
Nei primi mesi della sua missione i contatti con dotti grecisti e latinisti, con i rappresentanti della diplomazia europea, la stessa vita di corte con i suntuosi banchetti, i tornei, le cacce, le joyeuses entrées lo confermano nella bontà della sua scelta: "perché tal vita è bellissima et honoratissima sirnillima a quella di studi, se non che questa è maggiore" (ibid.). Questo entusiasmo iniziale era però destinato ad attenuarsi con lo scoppio del conflitto fra Carlo V e Francesco I, alleato di Venezia, con le ingenti spese, le fatiche ed i disagi sopportati seguendo nei suoi continui spostamenti la corte imperiale (che dalla Germania passò nelle Fiandre da dove, attraverso l'Inghilterra, raggiunse la Spagna) con il senso di isolamento dalla patria, dalla quale spesso per lunghi mesi rimaneva senza istruzioni e nella stessa corte "fugendomi cadauno per non esser tolti suspecti da la maa ces. havendome per franzese". Abbandonata definitivamente, dopo Agnadello, ogni residua velleità espansionistica, la Repubblica aveva scelto la linea della salvaguardia dell'integrità territoriale e della conservazione del plurisecolare dominio adriatico, affidando ad una esperta rete diplomatica il difficile compito d'impedire una decisiva preponderanza della Francia o della Spagna in Italia. Nella lunga ambasceria - il cui inizio coincise con la morte di Chièvres e con le minacciose dichiarazioni dell'imperatore "over il Re di Franza mi ruinerà del mondo, o quel farò il più picol principe dela Europa" (Magonza, 3 giugno 1521, in Venezia, Bibl. naz. Marc., Mss. It., cl. VII, 1009 [= 7447], f. 26r) e che si concluse con la sua visita a Francesco I prigioniero a Madrid - il C. si dimostrò, oltre che vigile osservatore ed d'ccorto informatore, abile mediatore nei momenti di maggiore tensione tra Carlo V e Venezia, che ora si schierava accanto alle truppe di Francesco 1 contro quelle di Carlo V, ora negava il passaggio sul proprio territorio agli eserciti imperiali o fermava i corrieri imperiali, ora offriva alla Francia sostanziali aiuti finanziari, ora si rifiutava, nonostante la alleanza conclusa il 29 luglio 1523 con lo imperatore, di impegnarsi militarmente nella battaglia di Pavia.
Se le vicende politico-militari di quegli anni sono al centro delle preoccupazioni del C. (attento anche alla politica dinastica e alle difficoltà economiche che angustiavano Carlo V), egli non trascura - e per un forte interesse scientifico personale e per gli interessi veneziani ancora preminentemente legati ai traffici e ai commerci marittimi - di registrare le notizie e l'arrivo di prodotti provenienti dal Nuovo Mondo e di riferire sulle spedizioni geografiche. Durante la sua missione, ad istanza della Signoria, cercò cautamente di assoldare Sebastiano Caboto al servizio di Venezia per una progettata, poi non realizzata, spedizione veneziana in America. Fu, inoltre, il solo alla corte di Carlo V in grado di spiegare la divergenza tra la data registrata nel diario di bordo dell'unica nave superstite della spedizione di Magellano e la data effettiva dell'arrivo a Siviglia. Mentre un'eco solo distante giungeva alla corte spagnola del diffondersi del movimento luterano in Germania, il C. dovette fare i conti con l'Inquisizione spagnola per l'imprudenza di alcuni mercanti veneziani, fra i quali suo fratello Andrea, tratti in arresto per aver venduto bibbie ebraiche latine e caldee nonché libri luterani. Presentatosi il 4 febbraio 1524 dinanzi al Consiglio dell'Inquisizione per difendere la causa dei prigionieri, si rese conto che "questa inquisitione in questi regni è una cosa terribilissima" (Sanuto, XXXVIII, col. 202) - il che dovette condizionare non poco il suo futuro atteggiamento nei riguardi della repressione dell'eresia.
Nonostante gli impegni della sua missione, il C. riuscì a dedicarsi agli studi. In Spagna scrisse la sua opera filosofica di maggiore impegno, il Primae philosophiae compendium (riveduta nel 1526-1527), dedicata a Tommaso Giustiniani, in cui ritorna sul rapporto fede-ragione, già affrontato nel De immortalitate animae, ribadendo che all'intelletto umano, per i limiti stessi della sua natura, è preclusa la conoscenza dei misteri divini, anche se la ragione, purificando l'uomo dai suoi affetti, lo avvicina a Dio, e delinea la sua concezione dell'ordine dell'universo visto come una struttura gerarchica rigorosamente graduata, con al vertice Dio, fonte di ogni forza spirituale, seguito dagli angeli, i corpi celesti, gli uomini, gli animali, le piante, i metalli e gli elementi. Concezione che veniva ripresa relativamente alla società e agli istituti dello Stato nel De magistratibus et Republica Venetorum, l'opera che affermando e diffondendo attraverso l'Europa dei Cinque e Seicento il mito di Venezia, assicurò al suo autore quella fama che, forse, né la porpora, né gli scritti teologici gli avrebbero garantito.
Iniziato intorno al 1524-25, ma terminato a Venezia solo tra il 1531-341, il trattato descrive con precisione le istituzioni della Repubblica a lettori non veneziani. Se l'opera nasceva sull'onda di sollecitazioni difficilmente precisabili - ma non sono trascurabili in tal senso l'incontro con Thomas More in Fiandra e in Inghilterra nel 1521 e nel 1522 ed il rinnovato contatto con la discussione politica fiorentina attraverso l'oratore in Spagna Giovanni Corsi, allievo del Diacceto, biografo del Ficino, frequentatore degli Orti Oricellari - le sue più profonde radici affondavano negli anni cruciali di Agnadello, rimeditati dal patrizio alla luce della sua esperienza diplomatica, che, conducendolo a collocare Venezia in un contesto europeo, gli aveva consentito di misurare il progressivo scemare della sua effettiva potenza. Donde la necessità di esaltare nefla patria la più perfetta organizzazione politica della storia e nella sua costituzione l'esemplare realizzazione dello Stato misto, in cui, nel mirabile combinarsi di vertice dogale, magistrature ristrette e base allargata del Maggior Consiglio, si fondono monarchia, aristocrazia e democrazia. I riferimenti, che pur non mancavano, a tematiche politiche e sociali ampiamente dibattute a Venezia in quegli anni, l'auspicio di un ritorno alle vecchie tradizioni di sobrietà e di semplicità dei padri fondatori della Repubblica - analogo auspicio era stato espresso per le istituzioni ecclesiastiche nel De officio episcopi -, trasfigurati ed idealizzati a fini propagandistici, non turbavano l'immagine mitica della "saggezza" politica di Venezia, della "santità" delle sue leggi, della sua stabilità, retaggio morale e culturale, che il trattato tramanderà nei secoli del declino della Serenissima.
Il 15 nov. 1525 il C. era rientrato a Venezia. Presa licenza da Carlo V a Toledo l'8 agosto, si era fermato a Lione, dove il 14 ottobre era stato ricevuto da Luisa di Savoia reggente di Francia ed a Milano, dove aveva visitato il marchese di Pescara. Il 16 novembre egli lesse la sua relazione in Pregadi, e dichiarò di aver speso di suo oltre 4.000 ducati. Fu proposto di lasciargli, contrariamente all'uso, i 1.000 ducati d'oro che gli erano stati donati dall'imperatore, ma la "parte" fu respinta. In sua assenza il C.: era stato eletto savio dì Terraferma, dei Pregadi e capitano di Brescia. Il 20 novembre entrò per la prima volta in Collegio come savio di Terraferma. Rimase in carica fino a fine marzo 1526, occupandosi prevalentemente della vendita degli uffici. Avrebbe dovuto poi recarsi capitano a Brescia, reggimento a cui era stato eletto il 19 marzo 1525 e che gli era stato riservato in attesa dei suo ritorno dalla Spagna. Sebbene vi siano accenni alla sua imminente partenza già nell'aprile 1526 e all'invio delle sue "robbe" nel maggio 1527, rifiutò il reggimento di Brescia nellapprendere del sacco di Roma. Possibile conseguenza di tale rifiuto fu un periodo di breve allontanamento dalle cariche pubbliche che gli consentì di dedicarsi agli studi e alla frequentazione, tra Venezia e Padova, di dotti amici come Giovanni Battista e Raimondo della Torre, Girolamo Fracastoro e Agostino da Pesaro. Tuttavia, nel gennaio del 1527 il Consiglio dei dieci, evidentemente consapevole di un suo interesse e di una sua competenza in materia religiosa, gli affidò l'esame dell'opera di A. Cinzio, Della origine delli volgari proverbii (1526), contro cui era stata sporta denuncia per eresia ed indecenza. Tale denuncia portò all'introduzione dell'imprimatur a Venezia e all'ingiunzione all'autore da parte dei censori di espurgare il suo poema.
Eletto (30 sett. 1527) tra i Sessanta della zonta, il 25 ottobre veniva designato oratore al duca di Ferrara per farlo aderire alla lega di Cognac contro Carlo V. Partito il 27 ottobre, concluse l'accordo con Alfonso d'Este il 14 novembre e il 22 rientrò a Venezia.
Il 16 genn. 1528, a seguito del rifiuto di Marco Dandolo, eletto oratore presso Clemente VII, il C. ne prese il posto. La sua partenza fu, tuttavia, differita fino a maggio, da un canto per i dissensi in seno al Collegio circa l'opportunità di inviare un oratore al pontefice in quel momento, dall'altro, per la morte del fratello Andrea.
La missione che gli veniva affidata era di estrema difficoltà. Posta di fronte alla prospettiva della totale preponderanza spagnola in Italia dopo la clamorosa sconfitta di Pavia e il sacco di Roma, Venezia sperava, tramite il suo oratore, di convincere Clemente VII ad entrare nella lega contro Carlo V. Il C. avrebbe dovuto, tuttavia, negare la restituzione di CeMa e Ravenna. Partito da Venezia il 24 maggio e giunto a Viterbo, dove si era rifugiata la corte, il 4 giugno il C. fu ricevuto da Clemente VII con le parole: "Sicome la persona vostra mi è molto gratta, cosi l'ambasciata mi è molto ingrata" (Dittrich, Regesten, p. 29).
L'atteggiamento del pontefice rimarrà immutato nel corso di tutta la missione del C., anche se i dispacci testimoniano dello stabilirsi, sul piano umano, di un rapporto personale tra l'oratore e il pontefice. La natura collerica e violenta dei papa si attutisce di fronte alla mite fermezza dell'ormai consumatissimo diplomatico, anche se la situazione internazionaie, sempre più sfavorevole agli interessi veneziani, portò ad un progressivo irrigidimento delle parti. I ripetuti insuccessi militari degli eserciti francese e dei collegati nel Regno di Napoli, l'insorgere di una pestilenza nelle truppe francesi, la morte del Lautrec, la defezione di Andrea Doria spinsero Clemente VII ad abbandonare la neutralità ed a concludere a Barcellona (29 giugno 1529) un trattato di pace con Carlo V che s'impegnava fra l'altro a far restituire allo Stato Pontificio Cervia e Ravenna, oltre che a restaurare i Medici a Firenze. Abbandonata anche da Francesco I, che conclude il 3 agosto a Cambrai la pace con l'imperatore, Venezia è alla mercé di Clemente VII e di Carlo V, il quale, deciso a dare un assetto definitivo alle cose italiane e a cingere la corona imperiale, giunse in Italia. Fu scelto come luogo dell'abboccamento con il pontefice Bologna, dove il C. giungeva il 24 ottobre insieme alla corte. Cominciava la parte più delicata della missione.
Le trattative di pace, complicate dai contrasti in seno alla classe dirigente lagunare, furono lunghe e laboriose. Se Venezia, dopo due anni di strenua opposizione, si vedeva costretta a restituire Cervia e Ravenna al pontefice e all'imperatore i porti delle Puglie, riusciva però a far restituire il ducato di Milano a Francesco II Sforza, evitando ancora per qualche anno la presenza spagnola ai suoi confini. E di questa sua ultima vittoria politica nelle vicende italiane l'abilità e l'esperienza diplomatica del C. furono le principali protagoniste. Il trattato di pace tra Venezia, Carlo V, Ferdinando I e Clemente VII fu concluso il 23 dicembre e ratificato il 5 genn. 1530, ma il C. si trattenne ancora a Bologna per assistere all'incoronazione dell'ìmperatore, dal quale prese licenza il 26 febbraio.
Preceduto da lettere che testimoniavano "quanto laudabilmente et con satisfaction universale si sia in questa sua legatione portato" e come fosse "homo degno di veneratione per le bone opere fatte" (Sanuto, LII, coll. 476, 544), il C. giungeva a Venezia il 3 marzo e faceva la sua relazione in Pregadi l'8. Le sue benemerenze verso la patria se, da un canto, non impedirono che, ancora una volta, gli fosse imposto di versare all'erario i 1.500 ducati donatigli da Carlo V, dall'altrò non evitarono serie critiche al suo operato.
L'introduzione nelle capitolazioni dì pace di un riferimento "contra il Turco" - rivelatasi presto opera di un amanuense distratto - suscitò l'11 marzo 1530 un violento dibattito in Pregadi, dove il C. venne accusato di aver disatteso le istruzioni ricevute, non rispettando la posizione veneziana di astensione dalla grande lega voluta da Carlo V a Bologna contro l'infedele. Francesco Foscari, consigliere ducale, giunse a chiedere che il C. fosse "comesso a li Avogadori, li quali debino far diligente inquisition di questa materia" (ibid., col. 24). La discussione toccò il punto più drammatico quando, in sua assenza, il fratello Tommaso "andò a la Signoria cridando, se so fradelo ha fato mal felo apicar, ma prima aldirlo; non ha colpa alcuna" (ibid., col. 25).
Il 1° aprile il C. entrava in Collegio come savio del Consiglio, ufficio cui era stato eletto il 31 dic. 1529. Secondo Matteo Dandolo era il più giovane savio grande eletto da molti anni. La sua ascesa ai vertici dell'amministrazione veneziana non avrebbe più conosciuto battute d'arresto. Il 1° sett. 1530 entrò nel Consiglio dei dieci, l'organo più delicato della costituzione della Repubblica, di cui fu ripetutamente uno dei "cai" e di cui tornerà a fare parte il 1° luglio 1533. Il 3 ott. 1530 (ibid., LIV, col. 12) e il 15 dic. 1530 fu nominato, insieme ad Andrea Trevisan, revisore delle casse (sebbene il Sanuto osservasse "nulla faranno, per non esser apti niun di loro a veder conti, né libri", ibid., LIV, col. 12) e, sempre il 15 dic. 1530, fu eletto per due annì riformatore dello Studio di Padova. Savio grande per un periodo di tre mesi dal 1° genn. 1532 (tornerà a ricoprire questa carica nel gennaio 1534), il 14 apr. 1532 fu eletto consigliere ducale, ufficio che assumerà di nuovo il 1° febbr. del 1534 e che deteneva per la terza volta nel maggio del 1535, quando Paolo III lo elevò alla porpora cardinalizia. Il 19 ott. 1534 era stato eletto ambasciatore insieme ad altri patrizi col compito di portare al neo-eletto papa Farnese le congratulazioni della Repubblica, ma dovette rinunciare.
Sebbene non sia facile individuare nel complesso delle attività svolte dal Consiglio dei dieci e dal Collegio durante questi anni la parte avuta dal C., sembra, tuttavia, si possa distinguere - quanto ai problemi connessi con la giurisdizione ecclesiastica - il perseguimento di una linea di moderazione e prudenza tesa a non inasprire i difficili rapporti tra la Repubblica e Clemente VII. Se questa linea non fu ritenuta sufficientemente cedevole alle pretese della Sede apostolica dall'Aleandro tanto da fargli paventare, nel giugno del 1533. la sua elezione ad oratore a Roma, essa non mancò di suscitare aTinterno della classe dirigente veneziana vivaci contrasti.
Un violento diverbio si ebbe il 6 apr. 1530 quando fu proposto in Collegio di conferire il possesso dell'arcivescovado di Corfú a persona nominata da Clemente VII. Alvise Mocenigo, tenace difensore dei diritti di nomina ai benefici del Dominio, si oppose con "gran vehementia" al C. il quale sosteneva non si dovesse irritare il pontefice, che aveva accettato non venissero menzionate nelle capitolazioni di Bologna le rinunce a quei diritti cui Venezia era stata costretta da Giulio II nel 1510, dietro la sua promessa che la Repubblica le avrebbe rispettate. Il Mocenigo investì il C. - "Messer Gasparo, fosse vu esser papa et zentilhomo de qui, come è papa Clemente?" (Sanuto, LII, col. 125) -, contestando che un oratore potesse promettere alcunché e minacciando l'appello al futuro concilio. Né più rigido si dimostrò il C. nella annosa controversia tra il governo veneziano e il patriarca Girolamo Querini. Ancora, nell'aprile del 1534, nella discussione sul prestito richiesto al clero per le spese militari, a chi sostenne che non si dovesse chiedere la autorizzazione pontificia, "rispose molto catholicamente messer Gaspare Contarino et ottenne che si supplicasse S. S.tà" (Nunziature, I, p. 210). Non pago dei suo intervento in Pregadi contro Sebastiano Foscarin, in quella circostanza il C. compose il De potestate pontificis quod divinitus sit tradita, dedicandolo significativamente a Nicolò Tiepolo, accusato in passato dal Giustiniani di "negare... la podestà del vicario di Cristo, opponersi, contendere e disputare contro il sommo pontefice, affermar non solo che non ci potea scomunicare, ma che non era pontefice" (a N. Tiepolo e G. Contarini, febbraio 1512, in Annales Camaldulenses..., IX, coll. 548s.). L'argomentata difesa dell'origine divina del primato romano non mancò di soddisfare l'Aleandro che giudicò l'autore "degno di esser amato assai" (Nunziature, I, p. 211). D'altro canto, anche nel definire la politica di Venezia verso gli Stati europei ed italiani e verso il Turco, il C. adotterà una linea ispirata a prudenza, a riflessione, a temporeggiamenti, che, se lo porrà spesso in urto con lo irruente Alvise Mocenigo, gli guadagnerà stima e seguito nel patriziato e lo porterà a svolgere un ruolo di primo piano negli organi ristretti digoverno.
I molteplici e gravosi impegni, di cui si lamentava spesso, non gli impedirono di coltivare vecchie e nuove amicizie e di attendere ad una feconda attività letteraria. Infatti in questi anni si rafforzano o nascono rapporti con ecclesiastici e laici, destinati a svolgere nell'immediato futuro un ruolo di primo piano nella vita religiosa italiana e più largamente europea. Tra questi i più duraturi - anche per il comune sentimento religioso - furono quelli con Reginald Pole, con Alvise Priuli, inseparabile compagno del Pole; con il poeta e futuro coautore del Beneficio di Cristo, Marc'Antonio Flaminio; con il vescovo riformatore della diocesi di Verona, G. M. Giberti; con il bolognese Ludovico Beccadelli che insieme al giovane vescovo di Fano, Cosimo Gheri, studiava a Padova e che diverrà in seguito suo segretario. Rapporti ebbe anche con gli ambienti dei Divino Amore e dei chierici regolari e in particolare con G. P. Carafa, di cui, se non poteva condividere le posizioni rigide in materia di repressione dell'eresia, certamente apprezzava l'anelito ad una radicale riforma delle istituzioni ecclesiastiche, di cui era, del resto, permeato il suo giovanile trattato sui doveri del vescovo, che in molti brani - soppressi o manomessi dai censori - conteneva condanne degli abusi in termini non meno aspri di quelli usati dal Carafa nel Memoriale del 1532 (non a caso una delle copie manoscritte del De officio episcopi pervenutaci apparteneva al futuro Paolo IV). Il C. entrò anche in contatto con ambienti e personaggi che la diffusa inquietudine religiosa - suscitata sia dal penetrare di idee riformate sia dalle discussioni filosofiche padovane - condurrà, in alcuni casi, su posizioni ereticali. Ma soprattutto risale a questo periodo un più intenso rapporto con il mondo benedettino, frequentato dal C. nei conventi della Congregazione cassinese di S. Giorgio Maggiore - di cui dal 1532 era abate Gregorio Cortese e nei cui giardini Antonio Brucioli ambientò uno dei suoi Dialoghi sulla filosofia morale di cui il C. era protagonista -, di S. Giustina di Padova e di Praglia, dove strinse rapporti con il monaco Marco da Cremona e con Isidoro Chiari.
Le conversazioni con gli amici, specialmente con coloro che si muovevano nell'ambiente dello Studio patavino, offrirono al C. l'occasione di ritornare agli interessi filosofici della giovinezza e di intervenire su terni largamente dibattuti in quegli anni. A Trifone Gabriel diresse rispettivamente il 24 dic. 1530, il 10 genn. 1531 e il 13 dic. 1532, tre trattatelli in cui espose la differenza tra mente e intelletto, il rapporto tra volontà ed intelletto e quello tra scienze speculative e virtù morali. Nelle ultime due lettere troviamo enunciate a livello filosofico le tesi spirituali e teologiche dibattute vent'anni prima con il Giustiniani. Se intelletto e volontà sono entrambe vie alla felicità, egli torna a mostrare una chiara predilezione per un "modo medio" tra contemplazione ed azione e, rifacendosi a Dionigi l'Arcopagita, fa consistere la vera felicità nel congiungersi di tutto l'essere umano in Dio, sicché "chi è penetrato in quel centro, in quella requie, cessa dell'operation sua; l'operation dello intelletto, l'operation della volontà, ma è absorto nella Requie, nella Verità, et essere Divino" (Quattro lettere..., p. 17). Ugualmente, pur riconoscendo la superiorità delle scienze sulle virtù morali, egli ritiene che quest'ultime "quantunque più imperfette assolutamente" siano da prediligere "imperoché ogniun dee più tosto eleggere il Bene, che convien propriamente alla sua natura, che 'l maggiore con la privatione del suo naturale" e concludeva "la virtù morale, è la vita attiva, è propria allo huomo, la contempiativa sopra l'huomo. Adunque è più appetibile, la Virtù propria nostra, con la privation della superiore, che la superior con la privation della propria nostra" (ibid., p. 38). A Oddo degli Oddi, intorno al 1534, indirizzò un trattatello di logica Non dari quartam figuram syllogismorumsocundum opinionem Galeni, mentre i suoi interessi astronomici vennero espressi, nello aprile del 1531, nel commento alla Homocentrica dei celebre medico e filosofo Girolamo Fracastoro.
Ma l'opera di maggior respiro di questi anni è il trattato De elementis et eorum mixtionibus libri quinque, dedicato al cognato Matteo Dandolo, in cui il C. si rifà alle dottrine di Aristotele e di Galeno, piuttosto che a quelle dei pit.agorici e degli atomisti. Egli, inoltre, sferra un attacco contro l'astrologia divinatoria cui rimprovera di dedurre le cause e le ragioni di tutti gli effetti dai corpi celesti e quindi di ritenere che tutto accade di necessità, mentre egli accetta la privazione o l'imperfezione o il non-ens come spiegazione della fortuna, del caso e dell'eventus per accidens.
L'opera che dovette peraltro metterlo in maggior luce negli ambienti ecclesiastici fu la Confutatio articulorum seu quaestionum lutheranorum in cui prese posizione sugli articoli della Confessio Augustana del 1530 redatti da Melantone, dimostrando una buona conoscenza delle dottrine luterane.
Interessante in questo trattato controversistico è l'assenza di toni polemici, specialmente riguardo alla dottrina della giustificazione che egli si preoccupa di integrare con la dottrina cattolica piuttosto che condannarla con formulazioni negative. L'analisi delle divergenze dottrinali si conclude con un appello alla concordia, che se contrasta per la sua ispirazione irenica con la letteratura controversistica coeva, rivela anche tutta la debolezza di un atteggiamento dettato da un radicalismo moralistico preoccupato solo della riforma dei costumi e privo della consapevolezza della necessità di una integrale innovazione delle dottrine e delle istituzioni: "Non est opus concilio, non disputationibus et syllogismis, non locis ex sacra scriptura excerptis ad sedandos hos Lutheranorum motus... opus est, ut deponamus avaritiam, fastuni magnum rerum omnium, et cuiuscumque generis rerum domesticarum apparatum, magnas familias, contrahamusque nos ad ca, quae nobis in Evangelio praccepta sunt" (Opera, p. 580).
Il 21 maggio 1535 il C. venne eletto alla porpora cardinalizia da Paolo III che intendeva avvalersi della sua dottrina teologica, della sua esperienza politico-diplomatica e della stima di cui godeva presso Carlo V, in vista della convocazione di quel concilio che proprio il C. riteneva superfluo.
La notizia della sua nomina - che aveva incontrato resistenze in ambienti di Curia - giunse inattesa a Venezia durante una riunione del Gran Consiglio, suscitando stupito entusiasmo nel patriziato e perplessità nel Contarini. Le sue frequentazioni con gli ambienti ecclesiastici, la sua produzione letteraria, il suo costante interesse per la problematica religiosa, le pressioni indirette sulla Curia perché fosse elevato alla dignità cardinalizia (si pensi alla lettera di Ludovico Canossa a G. M. Giberti del 1526 circa), molti fattori concorrono a postulare se non una ricerca da parte del patrizio di dignità ecclesiastiche, quanto meno una sostanziale disponibilità ad ottenerle. Probabilmente non sgradita, l'elevazione al cardinalato giungeva, tuttavia, ad un'età in cui non sarebbe stato facile adattarsi ad un cambiamento radicale di vita.
Ricevuta la tonsura e gli ordini minori da G. P. Carafa, il C. trascorse l'estate a Venezia e solo nel settembre raggiunse la corte a Perugia, dove il 15 settembre fu ammesso alla presenza di Paolo III che lo annoverò tra i cardinali preti mutando il titolo di cardinale diacono di S. Maria in Aquiro concessogli il 31 maggio con quello di S. Vitale (verrà in seguito trasferito al titolo di S. Balbina, 15 genn. 1537; di S. Apollinare, 9 nov. 1539; di S. Prassede, 15 febbr. 1542). Solo due dopo, nel giugno 1537, dirà la sua pnma messa.
Giunto a Roma, dove si era diffusa la voce che sarebbe stato il futuro "papa Angelico" il C. fu alloggiato nel palazzo pontificio e gli venne concessa, oltre agli emolumenti del cappello, una "provvisione" di 200 scudi mensili che verrà sostituita nel 1540 con una pensione perpetua di pari valore sulla legazione di Bologna, entrate che, a detta del suo primo segretario, Girolamo Negri, non gli consentivano di vivere all'altezza dei suo rango, non riuscendo a mantenere più di 40 bocche e 20 cavalli. La concessione di una pensione di 800 scudi sulla diocesi di Pamplona da parte di Carlo V nell'aprile del 1536 dovette migliorare la sua situazione finanziaria, che, peraltro, non fu mai prospera, obbligandolo spesso a ricorrere all'aiuto della famiglia.
Durante i primi mesi del soggiorno romano il C. non sembra abbia partecipato intensamente alle attività politico-diplomatiche della S. Sede, mentre continuò adedicarsi agli studi, nei quali ebbe per compagno, a partire dal novembre, il bolognese Ludovico Beccadelli, il quale, qualche mese dopo sarà assecondato in questa funzione dall'ebraista fianuningo Johann van Kampen e dal francese Pierre Danès, simpatizzante delle idee riformate. In questo periodo intervenne nella controversia sorta tra Iacopo Sadoleto e Tommaso Badia, maestro del Sacro Palazzo, che nell'estate del 1535 aveva proibito la pubblicazione dei In Pauli Epistolam ad Romanos Commentariorum libri tres. Il C. - chepur rimproverava al Sadoleto di aver attribuito all'uomo un ruolo troppo determinante nel processo della propria rigenerazione, dando scarsissimo peso alla gratia praeveniens, e di essersi troppo allontanato dalla dottrina agostiniana della giustificazione - si adoperò perché il Badia trovasse una soluzione che fosse meno lesiva dell'onore dei Sadoleto. Da Roma seguì inoltre, con consigli e suggerimenti, il Pole nella composizione dei Pro ecclesiasticae unitatis defensione, in cui era condannata l'usurpazione da parte di Enrico VIII del titolo di capo supremo della Chiesa d'Inghilterra e ribadito il primato romano.
Nella primavera del 1537 il C. interverrà con il Cortese nel dibattito suscitato dalle censure del Badia riguardo agli Insacram scripturam problemata del francescano Francesco Zorzi, apparsi nel 1536, e si associerà alla condanna dell'opera, in cui per l'insistenza sull'auctoritas degli esegeti e cabalisti ebrei e per le forti tendenze spiritualistiche, esoteriche ed escatologiche, ravvisò gravi errori dottrinali assimilabili a precise deviazioni ereticali (Ad apologiam fratris Francisci Georgii contra ea, quae adnotaverat Magister S. Palatii in eius problematis). I rapporti con il van Kampen e con lo Zorzi e l'interesse per i loro scritti rivelano, peraltro, l'indubbia attenzione del C. per la cultura cabalistica ed ebraizzante.
L'incontro a Roma (5-18 apr. 1536) tra Paolo III e Carlo V, reduce dall'impresa di Tunisi, con il concretizzarsi del progetto di convocazione del concilio, dà un nuovo impulso agli sforzi della diplomazia pontificia per portare la pace tra i principi cristiani - condizione indispensabile per la riunione del concilio - ed all'attività riformatrice già avviata da papa Farnese. Nel concistoro dell'8 apr. 1536 venne infatti costituita una commissione di cui fece parte il C. per preparare il concilio. Deciso, da un canto, ad avviare la riforma ecclesiastica prima dell'inizio del concilio, dall'altro, a predisporre un chiaro programma da proporre come base delle discussioni conciliari, Paolo III nominò una speciale deputazione, e su proposta del C., cui fu affidata la direzione dei lavori, invitò a farne parte alcuni decisi fautori della riforma: G. P. Carafa, J. Sadoleto, R. Pole, F. Fregoso, G. M. Giberti, G. Aleandro, T. Badia e G. Cortese.
In attesa che i membri della comniissione giungessero a Roma a metà novembre del 1536, il C., con l'aiuto degli amici veneziani Giambattista Ramusio e Giambattista Egnazio, e dell'abate G. Cortese, che esplorarono tutte le biblioteche di Venezia per rintracciare atti degli antichi concili, cominciò a raccogliere il materiale per la sua Conciliorum magis illustrium summa, cuidovette lavorare anche durante l'anno successivo.
Terminata nell'autunno del 1537, la Summa fu dedicata a Paolo III, cui offriva un elenco dei concili che avevano preceduto quello da lui convocato, paragonato agli anteniceni. Mentre, in una visione essenzialmente politica della situazione presente, il C. sorvolava rapidamente sui concili di Costanza e di Basilea, evitando in tal modo la scottante questione della supremazia conciliare ivi enunciata, si soffermava sul carattere ecumenico del concilio di Firenze.
In questo periodo - contraddistinto da un cattivo stato di salute e da una profonda amarezza, aggravata dalla lontananza dei Beccadelli, rientrato a Padova e sostituito dal modenese Filippo Valentini, che qualche anno dopo andrà esule nei Grigioni per sfuggire all'Inquisizione - scrisse un trattatello in forma di lettera Del libero arbitrio (13 nov. 1536), dedicato a Vittoria Colonna, in cui il problema, largamente dibattuto in quegli anni, viene analizzato sotto il duplice profilo filosofico e teologico.
Il 23 ott. 1536 il C. veniva nominato da Paolo III vescovo di Cividale di Belluno, ma solo il 24 maggio 1537, dopo numerosi interventi del nunzio Verallo, caddero gli ostacoli frapposti dalla Signoria - che ancora una volta vedeva conculcati i suoi diritti di nomina ai benefici ecclesiastici del dominio - alla concessione del "possesso" della diocesi, che venne condizionata all'autorizzazione pontificia all'imposizione della decima al clero veneto. Lo stesso C., dapprima reticente ad assumere la cura di una diocesi nella quale sapeva di non poter risiedere, finì coll'accettare, forse mosso da esigenze economiche (sebbene Belluno fosse tra le più povere diocesi del dominio, con un'entrata annua che doveva aggirarsi intorno ai 1.500ducati) e da una lungimirante politica familiare (la diocesi passerà alla sua morte al nipote Giulio Contarini), suscitando critiche non solo negli ambienti di Curia a lui ostili, ma anche fra i suoi stessi familiari e amici.
Il C., peraltro, mostrò grande sollecitudine per la sua Chiesa, affidandone il governo a vicari generali capaci, quali Giovanni Antonio de Egregiis, Paolo Vasio, Girolamo Negri. Egli stesso vi si recò al ritorno dal convegnodi Nizza e vi fece l'ingresso solenne il 29 luglio 1538. Attraverso l'azione efficace dei vicari cercò di riformare i costumi dissoluti del clero parrocchiale, di promuoverne l'istruzione e di riportare ordine nei monasteri femminili, imponendo il rispetto della clausura. Cure particolari dedicò ai predicatori della sua diocesi per i quali alla fine del 1538 redasse il Modus concionandi, in cui raccomandava un tipo di sermone semplice e chiaro, privo degli ornamenti retorici e degli avviluppamenti filosofico-teologici, accessibile al popolo; ricordava la necessità di rendere cosciente il peccatore della imbecillitatis humanae per la quale "neque remissionem peccatorum impetrare per se sufficit... neque potest a peccato resurgere, nisi auxilio et ope dei"; ma li esortava anche a non predicare la giustificazione senza le opere "nam quainvis haec vera sint, si recte intelligantur, non tamen perinde ac sunt, accipiuntur a populo, immo ex huiusmodi praedicatione populus fiet segnior ad bene agendum, tanquam nihili sint nostra opera" ed a non ripetere che "nostrum arbitrium infirinum esse ac non posse bonum velle, nisi fucrit a deo motum", poiché, anche se ciò era vero, avrebbe indotto il popolo ignorante "ad torporem quendam" (F. Dittrich, Regesten..., p. 308).
A metà novembre 1536 il gruppo deputato a predisporre un progetto di riforma iniziò i suoi lavori che si conclusero con la presentazione a Paolo III il 9 marzo 1537 del Consilium de emendanda ecclesia.
Se la parte dei C. nell'elaborazione del progetto non è precisabile, molti dei motivi ispiratori del documento erano maturati in ambiente veneziano fin dagli anni lontani del Libellus ad Leonem X di Giustiniani e Querini, la cui esigenza di trasformazione della Chiesa in una Chiesa di cura d'anime, sganciata dagli interessi politici, trova nel Consilium una più incisiva formulazione. E forse al C. si deve l'attenuazione dell'uso polemico, proprio di un Aleandro o d'un Carafa, della condanna degli abusi e della restaurazione della disciplina in funzione antiprotestante. E programma tracciato nel Consilium, in cui venivano a fondersi esigenze politiche anticuriali ed esigenze etiche di riforma dei costumi, sollevò opposizioni e perplessità tali da indurre Paolo III ad affiancare ai cardinali prescelti nella fase di attuazione quei canonisti di Curia, che totalmente estromessi dall'elaborazione del Consilium, avrebbero potuto con la loro preparazione tecnicogiuridica e con la loro conoscenza delle strutture centrali, frenare e correggere gli orientamenti utopistici del progetto.
Insieme al C. e al Carafa, elevato alla porpora con il Pole e il Sadoleto nel dicembre precedente ad istanza del C., furono deputati, il 20aprile, da Paolo III per la riforma della Dataria anche Ghinucci e Simonetta. In una serie di discorsi e di memoriali, di cui è difficile stabilire la cronologia, il C. dichiarava le composizioni della Dataria per regressi, coadiutorie e dispense matrimoniali inconciljabili con i principli fondamentali del diritto e dell'onestà e quindi simoniache, e definiva quanto meno discutibili quelle relative alla riserva di entrate di benefici e di pensioni.
In seno alla commissione, allargata in un momento imprecisabile al Badia e all'Aleandro, tali posizioni suscitarono vivaci contrasti confutati dal C., Carafa, Badia e Aleandro nel Consilium quattuor delectorum, dell'autunno del 1537, in cui venivano esposte le opinioni del partito riformatore in materia di composizioni e respinto l'argomento secondo cui, col condannare i precedenti pontefici cui si doveva l'introduzione delle composizioni, si offriva un'arma ai luterani.
Ulteriori pressioni cercò di esercitare il C. sul pontefice indirizzandogli la De potestate pontificis in compositionibus epistola, probabilmente composta nell'estate del 1538 - in cui pur tornando a denunciare gli eccessi e gli abusi introdotti dai canonisti curiali nel passato, ribadiva che il suo attacco ai fautori estremisti del potere pontificio non mirava affatto a mettere in discussione l'autorità pontificia, che, peraltro, riteneva soggetta alla "potentia rationis" -, e il De usu potestatis clavium. Se in un colloquio con il C. ad Ostia nel novembre del 1538, Paolo III mostrò di condividere le posizioni del cardinale, nel marzo del 1539 già si verificava una divergenza nella concezione della riforma della Dataria tra il C. e il Carafa, schieratosi su posizioni meno intrasigenti.
Ben presto, con i successivi rinvii della apertura dei concilio, alla commissione, dapprima deputata alla sola riforma della Dataria, venne assegnata anche la riforma degli altri dicasteri curiali, con un graduale aumento dei numero dei suoi componenti: nel marzo del 1539 ne erano membri insieme al C., al Carafa, al Ghinucci, al Simonetta, anche Campeggi, Cupis, Cesarini e Ridolfi. Nella distribuzione dei dicasteri la Penitenzieria fu assegnata al C. e al Carafa.
Nonostante l'agente mantovano osservasse "la povera madonna Penitentieria sta a male mani et sotto a barbieri che l'escusaranno pelerella" (Pastor, V, p. 124), essi trovarono un ostacolo insormontabile nell'astuto gran penitenziere Antonio Pucci, il quale dovette non poco avvantaggiarsi del dissenso presto sorto tra il Carafa e il C., che già nel luglio del 1540 era rimasto solo a combattere "a spada tratta" (Jedin, Storia..., I, p. 364). Varato il 6 agosto il progetto di riforma della Penitenzieria, il 27 Paolo III deputava, per seguirne l'attuazione, oltre che gli stessi Carafa e C., Dionisio Laurerio, il quale si era già dichiarato nella Compositionum defmsio contro orientamenti troppo radicali. In tal modo - non avendo, inoltre, retto l'intesa con il Carafa all'elaborazione del progetto di riforma della Penitenzieria - il C. si sarebbe venuto a trovare in minoranza.
Mentre gli sforzi di riforma fatti dalla Curia perseguivano lo scopo di sottrarre la parte più scabrosa della reformatio in capite al programma dei concilio, questo subiva varie proroghe e solo allorché Venezia acconsentì alla sua convocazione a Vicenza per il 1° maggio 1538, Paolo III costituì (7 genn. 1538) un'apposita commissione pro rebus ad concilium pertinentibus:vi furono deputati Cupis, Campeggio, Simonetta, Carafa, Sadoleto, Cesarini, Pole e il Contarini. Oltre a partecipare alle frequenti riunioni collegiali dei nove cardinali, il C., cui era stato assegnato l'esame delle materie di fede da trattare al concilio, presiedeva una sottocommissione di teologi. Scrivendo al Gonzaga, dimostrava un atteggiamento misto di disarmante ottimismo e di scarsa percezione della reale situazione politico-religiosa della Germania, dichiarandosi fiducioso che "si ogniuno porterà bona voluntà, non ci serà poi tante cose" (W. Friedensburg, p. 188).
Gli sforzi del pontefice per procurare una pace duratura tra Carlo V e Francesco I affinché costui entrasse nella lega santa stipulata tra Venezia, l'imperatore, Ferdinando I e la Sede apostolica l'8 febbr. 1538 contro il Turco e per poter poi sanare i dissidi religiosi in Germania e convocare il concilio, si concretarono nel convegno di Nizza. Il pontefice, accompagnato da alcuni cardinali tra cui il C., lasciò Roma il 23 marzo e giunse a Nizza il 17 maggio dove si trattenne fino al 20 giugno, riuscendo ad ottenere dai due sovrani solo un armistizio decennale, invece di quella pace defiriitiva che avrebbe permesso di realizzare il concilio.
Al rientro da Nizza, il C. - che vi aveva svolto un ruolo di qualche rilievo nella mediazione tra i sovrani e che fu accolto con particolare cordialità da Margherita di Navarra - si recò a Venezia con istruzioni del pontefice di usare della sua influenza affmché l'Avogaria fosse richiamata al rispetto dei diritti della Sede apostolica in materia di imposizione di decime al clero. Si adoperò anche a nome di Carlo V per ottenere l'aiuto della Signoria nella guerra contro il Turco. A fine luglio si recò nella sua diocesi di Belluno dove, in compagnia del fratello Tommaso, del cognato Matteo Dandolo e di Alvise Priuli trascorse due mesi. Rientrato a Venezia a fine settembre, dopo una breve sosta a Treville presso il Pole, s'incamminerà con quest'ultimo verso Roma ai primi di ottobre.
I molteplici impegni di riformatore e di uomo di Curia se non distolsero il C. in questi anni dai suoi studi, certamente rallentarono la sua produzione letteraria, mentre la prospettata apertura del concilio con i dibattiti che vi si sarebbero svolti in materia di fede e la sempre più estesa e capillare penetrazione delle idee riformate nella penisola, lo indussero a concentrarsi prevalentemente su tematiche teologiche. Allarmato dalla sempre più diffusa tendenza dei predicatori a sottolineare da un canto, in contrasto con la dottrina luterana, le possibilità dell'uomo di salvarsi con i mezzi propri ed a minimizzare, se non a cancellare, l'intervento della grazia nel processo della salvezza, dall'altro, in conformità con le tesi più radicalmente agostiniane, a porre in evidenza la profonda corruzione della natura umana dopo il peccato originale e la necessità di un intervento divino rivolto ai soli predestinati ai fini della salvezza, il C., che già nel giugno dell'anno 1537 era intervenuto in difesa dei benedettino Marco da Cremona (le cui "letture" a S. Giustina sul tema della misericordia divina e della infermità della natura umana avevano suscitato grande scalpore), affrontò sul volgere di quell'anno, in una lunga lettera-trattato al senese Lattanzio Tolomei, la dottrina Della predestinazione, dando inizio ad un vivace dibattito protrattosi per vari mesi che ebbe fra i principali protagonisti il Crispoldi, Timoteo de' Giusti, il Flaminio e il Seripando.
Anticipando alcune ternatiche dei Modus concionandi dell'anno successivo - la lettera, infatti, si rivolge indirettamente ai predicatori - ilC. taccia di "pelegianesimo" coloro che "inalzano l'homo et abasano la gratia di Christo" dimenticando che l'essere cristiano consiste nel "cognoscere lo essere suo infirmissimo et ricorrere a Christo per fede, in tutto despicandosi dalla confidentia in nui et ponendola tutta in lui", mentre né il libero arbitrio, servo del peccato, né le opere, ma solo Cristo "può liberare il libero arbitrio da questa servitù" (A. Stella, La lettera..., p. 427), ma si scaglia anche, non risparmiando critiche allo stesso Agostino, contro i più rigidi interpreti della dottrina agostiniana della predestinazione, dichiarando che la grazia preveniente viene concessa anche aì reprobi, dal cui libero arbitrio dipende l'accettarla o meno.
Ma più che nella trattatistica è attraverso la sua corrispondenza che il C. interviene nelle controversie teologiche che agitano la Cristianità, portando in luce i profondi dissensi anche in campo cattolico su dottrine fondamentali e mettendo a nudo una certa inclinazione per costruzioni dottrinali e interpretazioni scritturali e dogmatiche tanto eleganti ed ingegnose, quanto spesso artificiose, e certamente disancorate dall'esperienza religiosa giovanile, ben altrimenti vissuta.
Tuttavia i suoi carteggi - specialmente quelli più ricchi con il Pole, il Gonzaga, il Sadoleto, il Fiaminio e quelli con i controversisti cattolici tedeschi, l'Eck e il Cocleo - non riflettono soltanto i suoi interessi di teologo, ma testimoniano anche delle preoccupazioni dell'uomo di governo per la situazione politica internazionale, e forniscono abbondanti notizie circa il suo diretto coinvolgimento nella riforma in membris delle strutture ecclesiastiche. L'attenzione per i problemi pastorali non rimane confinata nei suoi scritti, ma si concretizza, oltre che nelle istruzioni al suo vicario di Belluno, anche nella cura che ha della diocesi di Verona in assenza del Giberti, e nei consigli al Gonzaga per la sua diocesi di Mantova e all'Accolti per quella di Ravenna. Un ruolo di primo piano svolge inoltre nella fondazione della Compagnia di Gesù. Ammiratore degli Esercizispirituali, il C., che già si era adoperato a favore dei Loyola e dei suoi compagni durante fi processo romano (1538), si preoccupò di ottenere l'approvazione pontificia dell'abbozzo di costituzioni del nuovo Ordine e di mediare tra Paolo III e il Ghinucci - redattore della bolla di fondazione - il quale sollevava obiezioni circa la formulazione di alcuni capitoli.
Salvo la breve parentesi dei convegno di Nizza, le qualità eminentemente diplomatiche del C., che la Signoria aveva saputo così ben sfruttare, non erano state utilizzate dalla Curia, dove sembra invece che il suo, talvolta maldestro, procedere nell'attuazione della riforma degli organi curiali avesse irritato non pochi prelati.
La "politica d'intesa" scelta dagli Asburgo in alternativa alla convocazione del concilio propugnata da Roma doveva inevitabilmente, nella penuria di prelati ad un tempo accetti all'imperatore, in quanto non filo francesi né intransigenti sul piano dottrinale, e conoscitori della teologia protestante, porre in primo piano sia alla corte imperiale sia in Curia la persona del Contarini. Dopo una iniziale dichiarata opposizione ai colloqui con cui l'imperatore voleva riportare la pace religiosa in Germania e garantirsi i sussidi per la guerra contro il Turco, Roma, nel timore di essere accusata di aver sabotato il tentativo dì riconciliazione della Cristianità, si vide costretta in linea di principio all'invio di un legato, ma, decisa a salvaguardare il proprio prestigio e la dignità dei propri rappresentanti, cercò di temporeggiare. Se il 17 apr. 1540 il card. Famese da Gand, sollecitando l'invio a Spira di un cardinale "de' meglio dei collegio et più atti a questa difficil impresa", proponeva il C. 0 il Pole, il 24 Carlo V faceva esplicitamente il nome del C., Cui il 21 maggio, non senza contrasti all'intemo dei Collegio cardinalizio, verrà affidata la legazione. Il C., che, come il Pole, fin dal giugno del '39, aveva palesato una profonda avversione per i colloqui di religione, comunicando il 29 Maggio al card. Gonzaga la sua ìmminente partenza, dichiarava "io so che per ragione humana la impresa è impossibile" (Friedensburg, p. 209). Il 9 giugno, coi pretesto della tregua firmata tra Venezia e il Turco, la partenza fu rinviata, provocando amarezza e delusione nel C., cui parve "essere stato burlato". La pubblicazione dei recesso di Hagenau (28 luglio) con l'indizione di una "conferenza cristiana" a Worms (28 ottobre), seguita dalla Dieta imperiale, ripropose la questione dello invio di un legato, che il papa demandò a una commissione composta da Aleandro, Ghinucci e dallo stesso Contarini. Riconfermata la scelta dei C., pronto a partire il 6 settembre, all'ultimo momento fu preferito l'invio di un nunzio (T. Campeggi) al posto dei legato. Disorientato dall'incerto procedere della diplomazia curiale nel perseguimento dei disegno - peraltro chiaro - di far fallire la politica imperiale d'unione, il C. non sembra ancora vittima di quel clima di sospetto in merito alla sua ortodossia che si stava creando in quei mesi e che doveva probabilmente alimentarsi anche dei dissensi sorti con il Carafa e il Laurerio sulla concezione dell'autorità pontificia in relazione alla riforma dei dicasteri curiali: tra i teologi, che avrebbero dovuto accompagnarlo e sui cui nomi si erano trovati d'accordo anche Ghinucci e Aleandro, figuravano infatti non soltanto il Badia e il Cortese, ma anche il Flaminio e Pietro Martire Vermigli, mentre solo sulla scelta di Pietro Ortiz il C. si sarebbe trovato in minoranza.
Fu solo a seguito dell'indizione della Dieta a Ratisbona che Roma si decise a fare partire un legato. La scelta cadde anche questa volta sul Contarini. Nominato legato a latere il 10gennaio, il 28 lasciava Roma accompagnato da Girolamo Negri, Ludovico Beccadelli, Trifone Benci, Vincenzo Parpaglia, Adarno Fumano e Filippo Gheri.
Se era assai diffusa l'opinione che avesse accettato un incarico dal quale era "cosa più divina che humana... uscirne con honore" (Pastor, V, p. 805), lo stesso C., pur convinto che sul piano teologico la frattura potesse essere facilmente ricomposta, non si nascondeva le difficoltà di ordine politico. Infatti, oltre alla radicata diffidenza della Sede apostolica - palese anche nelle istruzioni che in pratica impedivano qualsiasi autonoma iniziativa del legato - e a quella dei protestanti, si trattava di vincere l'ostilità alla concordia dei principi e di alcuni teologi cattolici tedeschi e di fare i conti con Fra ncesco I, che nulla risparmiò per far fallire il colloquio. Dalle istruzioni in tal senso ai suoi rappresentanti alla Dieta, alla tempestiva distribuzione di pingui benefici ecclesiastici tra i cardinali residenti in Curia perché assecondassero la sua politica, alla probabile sollecitazione dei Catarino, allora in Francia al seguito dei card. Niccolò Gaddi, perché scrivesse il trattatello De perfecta instificatione - apparso alla vigilia delle discussioni di Ratisbona nell'intento di condizionare in qualche modo i margini di azione del legato - l'azione politica della Francia appare decisiva anche nell'orientare alcuni settori del Collegio cardinalizio in senso munte ostile all'azione irenica dei Contarini.
Giunto a Ratisbona il 12 marzo, accolto da grida di "Benedictus qui venit in nomine Domini", durante il primo mese del suo soggiorno, il C. portò avanti con successo i delicati negoziati con i duchi di Baviera e di Brunswick e con il vescovo di Magonza, ostili alla politica d'intesa di Carlo V, perché non si opponestero allo svolgimento del colloquio, e con l'imperatore e il Granvelle perché menzionassero, nel modus procedendi da presentare alla Dieta, la Sede apostolica ed i suoi rappresentanti come sole autorità competenti a decidere in materia di fede. Apertasi la Dieta il 5 aprile, il 21 Carlo V rese nota la lista dei teologi cui era stato affidato il compito di trovare una via alla concordia: per parte protestante Melantone, Butzer e Pistorio; per parte cattolica Pflug, Gropper e Eck. Come testo base delle discussioni fu proposto il cosidetto Libro di Ratisbona elaborato da Butzer e da Gropper, cui Morone, Badia e il C. insieme ai teologi cattolici tedeschi apportarono non poche modifiche.
Il 27 aprile vi fu il primo incontro dei sei teologi i quali si trovarono d'accordo sui primi quattro articoli: stato primordiale dello uomo, libero arbitrio, causa dei peccato e peccato originale. Occorsero invece lunghe trattative per giungere il 2 maggio ad un accordo circa l'art. quinto sulla giustificazione, nella formula elaborata dal C., Badia, Morone, Eck, Gropper, Pflug e Cocleo. Le speranze suscitate da questo inatteso accordo furono di breve durata. Ci si avvide presto che la vera ed insanabile frattura verteva sul carattere sacramentale della Chiesa e sulla sua costituzione gerarchica. Le discussioni intorno all'art. nono sull'autorità dei concili nella interpretazione della Scrittura fecero infatti riaffiorare la tesi protestante che i concili possono errare in materia di fede. Il C., da un canto consapevole della mancanza di chiarezza in campo cattolico circa l'estensione dell'autorità primaziale e dei suoi rapporti con il concilio generale, dall'altro intenzionato a non fare naufragare il colloquio sulla questione del primato, volle che la discussione fosse differita alla fine e che, comunque, nella formulazione definitiva dell'articolo non si entrasse nei particolari - perché "entreremo in un chaos, dal quale Dio sa come si potremo esplicare" (L. von Pastor, Die Correspondenz..., p. 380) - ma ci si limitasse ad esigere il riconoscimento del primato di giurisdizione e della suprema autorità dei concili in materia di fede. Tuttavia, nonostante gli sforzi del C. e dei suoi collaboratori per evitare la rottura, questa apparve inevitabile allorché venne discusso il sacramento dell'eucarestia. Di fronte al rifiuto dei protestanti di accettare il concetto di transustanziazione, il C. - che si rivelerà impreparato sulla concezione sacramentale dei protestanti, nonostante le pressioni politiche da parte imperiale e la propensione di Pflug e Gropper per una soluzione di compromesso -, opponendosi drasticamente a qualsiasi formula che omettesse il riferimento alla transustanziazione, decretò il fallimento delle trattative. Il colloquio, tuttavia, proseguì pur fra ostacoli insormontabili (arficoli sulla penitenza e sull'ordine gerarchico della Chiesa) che portarono alla sua conclusione il 22 maggio, mentre la Dieta continuerà fino al 29 luglio.
Quei due mesi furono occupati dalla contesa per la convalida degli articoli del Libro di Ratisbona. Contro i tentativi di Carlo V di giungerealla pace religiosa a qualsiasi costo, ottenendo l'approvazione degli Stati sugli articoli concordati e garantendo ai protestanti la tolleranza fino al concilio sugli articoli su cui non si era raggiunto un accordo, il C. dovette ripetutamente ribadire che anche l'approvazione degli articoli concordati doveva essere riservata al pontefice e al concilio, e opporsi con forza alla politica di tolleranza di Carlo V. Il suo atteggiamento s'irrigidì ancora più dopo l'arrivo, l'8 giugno, di istruzioni romane (Ardinghelli e Farnese) in risposta ai dispacci con cui il legato aveva comunicato la raggiunta concordia sull'articolo della giustificazione e sottoposto al giudizio della S. Sede l'abbozzo della formula da lui preparata sul primato e sull'autorità dei concili nell'interpretazione delle Scritture.
Se le reazioni romane furono inequivocabilmente durissime, è difficile nel complesso degli appunti che venivano mossi per le vie ufficiali al C. discernere, al di là dell'evidente proposito di fare fallire le trattative, quali aspetti dell'operato dei legato avessero maggiormente preoccupato Roma. Si è voluto - anche sulla base di corrispondenze private da Roma (specialmente del Bembo e dei Priuli) e delle stesse reazioni del C. - dare un'importanza preponderante alle critìche mosse alla formula della giustificazione, dimenticando che all'elaborazione di quella formula avevano contribuito anche il Badia ed il Morone i quali, l'anno seguente, sarebbero stati elevati al cardinalato. Se è indubbio che le autorità romane - sulle quali aveva esercitato forti pressioni un settore delCollegio cardinalizio ostile tanto al C. quanto alla politica imperiale, di cui lo si riteneva fautore, e pronto a strumentalizzare per fini politici l'ambiguità teologica dell'accordo - manifestarono perplessità circa la formula della duplice giustificazione, altri e forse più pesanti rimproveri venivano mossi al legato. Innanzitutto il grave errore commesso dal C. il quale - nell'intento di raccogliere il massimo consenso sulla formula concordata, contro le prevedibili obiezioni di alcuni membri dei Collegio cardinalito - fece pervenire a molti suoi sostenitori copia dell'articolo concordato insieme ad una "scheda" esplicativa e divulgò notizie circa l'andamento delle trattative, infrangendo i limiti della prescritta riservatezza. Quindi la mancata osservanza delle istruzioni pontificie che gli vietavano di approvare alcunché senza averlo prima sottoposto al giudizio della Sede apostolica e l'aver proposto formule, sull'autorità primaziale e su quella dei concili in materia di fede, del tutto insoddisfacenti. L'essere, infine, troppo cedevole verso la politica imperiale di concordia ad ogni costo.
Contestato, quindi, non solo sul piano teologico (e, comunque, oltre che per la formula della duplice giustificazione anche per gli altri due articoli), ma anche a livello di azione diplomatica, il C. fu'chiamato a difendersi su due fronti. Da un canto si vide costretto ad assumere un atteggiamento più rigido nei confronti di Carlo V, non riuscendo peraltro, nonostante l'energica azione dispiegata in tal senso, né ad ottenere che nella redazione definitiva del recesso della Dieta del 29 luglio tutta la questione religiosa venisse rimessa al concilio generale (che il pontefice fin dal 15 giugno si era impegnato a convocare senza indugio), né ad impedire che vi si facesse riferimento alla convocazione dei concilio in Germania. Né poté evitare che in una dichiarazione segreta Carlo V concedesse ai protestanti, in cambio dei sussidio contro i Turchi, di potersi attenere all'interpretazione dei loro teologi circa gli articoli concordati fino al definitivo regolamento della questione. Carlo V inoltre, contro l'espressa volontà del C., timoroso dell'umiliazione che si sarebbe arrecata all'episcopato tedesco, presentò alla Dieta il testo dell'anunonimento rivolto il 7 luglio dal legato, ad istanza dell'imperatore, ai vescovi tedeschi. La riforma dell'episcopato, incentrata sullo obbligo della residenza e della visita pastorale, sulla scelta oculata di predicatori dotti e pii, sull'istituzione di scuole per la gioventù, non vi era più concepita in fimiione dell'unione, ma come arma da usare per contrastare l'avanzata del protestantesimo: per la prima volta il C. prendeva atto dell'esistenza di una vera e propria "chiesa", con una sua solida organizzazione che minacciava la vita stessa del cattolicesimo. La politica d'intesa era decisamente fallita anche per il C., che solo dopo un rapporto diretto e prolungato con il mondo protestante aveva potuto rendersi conto delle reali dimensioni e dello spessore teologico del fenomeno religioso protestante.
Ma Ratisbona, con l'ampio dibattito suscitato dalla formula della duplice giustizia, aveva anche messo più chiaramente in luce il profondo dissenso dottrinale tra gli stessi cattolici e la necessità di più rigide definizioni. Se, tra i cardinali, Bembo, Fregoso, Cortese e Pole avevano difeso l'accordo raggiunto, Aleandro, Carafa e Laurerio non celavano le proprie perplessità, mentre anche da ambienti meno sospettabili di animosità verso il C. o di ostilità alla politica d'intesa, venivano mosse serie obiezioni all'art. quinto. Prim'ancora che da Roma, le critiche giungevano da Mantova da parte dei teologo del card. Gonzaga, messer Angelo, alle cui obiezioni il C. replicava immediatamente con la Epistula de iustificatione, terminata il 25maggio 1541, in cui spiegava che la speranza nella salvezza doveva fondarsi solo sulla giustizia di Cristo, e non sulla giustizia inerente all'uomo, imperfetta ed inadeguata se non perfezionata dalla giustizia imputata di Cristo. Ignaro circa l'autore dell'Epistula, da Carpentras scendeva in campo anche il card. Sadoleto che nel trattatello De iustitia nobis inhaerente, et de iustitia Christi imputata, giudicava la dottrina della duplice giustificazione più vicina alle posizioni luterane che a quelle cattoliche e, contro la svalu, tazione delle opere, ribadiva la capacità dell'uomo di cooperare con la grazia alla propria salvezza.
In questa situazione di fluidità dottrinale, non era difficile diffondere voci circa l'eterodossia dei C. e del Badia, insinuando anche l'accusa persino più grave che, pur di accordarsi con i protestanti, essi avessero violato le prerogative del pontefice firmando l'accordo. Queste voci, che gli erano pervenute in Germania attutite dalla distanza, accolsero il C. al rientro in Italia con tutta la loro violenza, provocando la sua immediata indignazione, che dei resto seguiva lo stupore già manifestato per le esagerate polemiche intomo all'articolo, della giustificazione "come se 'l fosse un articolo essentiale della fede, cioè De Trinitate o cosa simile" (il C. ad un cardinale ignoto, Ratisbona, 22 luglio 1541, in Morandi, Monumenti... Beccadelli, I, 2, pp. 186 s.).
Non sembra tuttavia che le accuse di eresia e di disubbidienza alle direttive pontificie avessero immediate ripercussioni sui rapporti del C. con i Farnese, i quali, anzi, proprio in quel periodo si dichiaravano dispostissimi a concedere al nipote Giulio quell'entrata di 200 scudi su qualche beneficio ecclesiastico che il C. riteneva non potesse essergli rifiutata perché "mai quella Sancta Sede mancò di provedere a nepoti di cardinali, di molto maggior cosa, di questa, che ricerco io". Partito da Ratisbona alla fine di luglio insieme a Carlo V, dal quale si congedò a Trento il 12 agosto, il 17 il C. ricevette istruzioni di raggiungere l'imperatore a Milano e di accompagnarlo all'incontro con Paolo III a Lucca. Giuntovi il 6 settembre, l'indomani il C. presentò al concistoro la sua relazione sulla Dieta. Alloggiato nel convento di S. Frediano, il C. ebbe modo di intrattenersi con Pietro Martire Vermigli, il cammico lateranense che meno di un anno dopo, citato a comparire dinanzi al tribunale dell'Inquisizione, avrebbe scelto la via dell'esilio.
Del tenore delle conversazioni del C. con il Vermigli e, qualche giorno dopo, con il Pole a Viterbo, dove sostò all'inizio di ottobre, non si hanno testimonianze, ma si può congetturare che verressero sull'elaborazione di una comune linea difensiva da opporre ai molteplici attacchi che da più parti avevano cercato di screditare sia sul piano teologico sia sul piano politico l'azione dei C. e dei Badia a Ratisbona, costituendo gnia seria minaccia per i sostenitori delle posizioni contariniane.
Il 5 ottobre il card. Farnese ingiungeva al C. di recarsi immediatamente a Roma per predisporre un piano per la convocazione del concilio, per attendere alla scelta di uomini adeguati da inviare in Germania con il compito di riformare quella Chiesa e per preparare istruzioni per i predicatori tedeschi ed italiani. In un memoriale compilato alla metà di ottobre il C. ribadiva la necessità di convocare il concilio a qualsiasi costo, indicava come sola sede accettabile Mantova e come data la domenica successiva alla Pasqua dei '42. In relazione alla riforma in Germania suggeriva che si inviasse il Morone, associandogli lo scozzese Vauchop, e due membri della Compagnia di Gesù. Quanto alla Instructio propraedicatoribus - ilcui confronto con il Modus concionandi del 1538 evidenzia l'audacia teologica del C. prima di Ratisbona e il successivo ripiegamento su posizioni moderate - già il 20 ottobre veniva sottoposta all'esame del Pole, le cui obiezioni raccolte in uno smarrito trattatello Del modo di predicare, suscitarono le critiche del gesuita Bobadilla.
I mesi successivi furono impegnati nella riforma dell'episcopato, che era stato al centro della concezione ecclesiologica del C. fin dai tempi del De officio episcopi (1517) e su cui era tornato nel 1540 indirizzando ai vescovi il De sacramentis christianae legis et catholicae ecclesiae, un manuale per coloro che non avendo una formazione teologica adeguata desiderassero apprendere le fondamentali concezioni sacramentali della Chiesa. Il C. collaborò alla stesura della bolla Superni dispositionis arbitrio, che, attraverso una serie di concessioni, doveva facilitare e promuovere la residenza dei vescovi, ma che non venne pubblicata per le resistenze degli Ordini religiosi esenti e dei principi.
Il 27 genn. 1542 il C. veniva designato legato di Bologna, nomina che parve al Pole assolutamente insperata, date le circostanze. Tuttavia, pur se l'ufficio era prestigioso ed avrebbe comportato un notevole incremento delle sue entrate, nell'entourage del cardinale tale nomina fu interpretata come un allontanamento dalla Curia, dove stavano acquistando spazio gruppi a lui ostili.
Dopo una sosta presso la Casa di Loreto di cui era protettore, il 25 marzo il C. giungeva a Bologna, dove lo attendevano problemi per lui totalmente nuovi. Le controversie con le magistrature locali per la tassa sul sale, con il duca di Ferrara per la deviazione del Reno, le difficoltà nel governare una città in cui le lotte fra fazioni nemiche non erano sopite e violenze venivano perpetrate quotidianamente, le accuse di eccessiva indulgenza, le difficili condizioni economiche, angustiarono gli ultimi mesi di vita del cardinale che nella sua corrispondenza spesso diede segni di stanchezza e di insofferenza per quella carica "piena di molta fatica" e quella "vita molto diversa dalla sua di Roma" (A. Casadei, p. 112) - stato d'animo riflesso in maniera ancora più evidente dal Beccadelli che non esitava a definire la legazione un vero "inferno". Non poco sollievo dovettero arrecargli in quel periodo le visite del Sadoleto e del Morone, l'intenso commercio epistolare con il Pole attraverso il quale contribuì alla confatazione da parte del Flaminio delle tesi sostenute dal Catarino sulla dottrina della giustificazione, nonché il doversi occupare dei problema della penetrazione delle idee riformate fra i membri dell'Accademia e del ceto dirigente modenese. Redatto dal C. il Formulario di fede apparve il risultato d'un compromesso, ma, pur nella sua ambiguità e contraddittorietà - che avevano suscitato da un canto le critiche del Cortese, che era desideroso che la meritorietà delle opere fosse maggiormente esplicitata, e dall'altro del Pole che sulla penitenza sosteneva posizioni più radicali che provocarono la replica del C. nel De poenitentia - ottennel'approvazione di Roma, grazie all'intervento del Pole, e venne sottoscritto nel settembre del 1542 dai sospetti eterodossi. Onde evitare il ripetersi dell'increscioso episodio di Ratisbona, Pole suggerì che il C. inviasse una copia del Formulario a Paolo III pregandolo di sottoporla al Badia, maestro del Sacro Palazzo, e che Morone a sua volta chiedesse il parere del Carafa, del Burgos e del Cervini. Dal canto suo, Pole si era preoccupato di garantire la neutralità del Sadoleto, che riteneva il più temibile dei quattro cardinali. Ma ad una rapida soluzione, sia pure di compromesso, dovette essere favorevole anche il Carafa, timoroso che le sempre più allarmate voci sulla diffusione dell'eresia non solo a Modena e a Lucca, ma anche a Napoli, provocassero l'introduzione dell'Inquisizione spagnola nel Regno.
Se quel timore accelerò forse la riorganizzazione dell'Inquisizione romana, l'elevazione al cardinalato, il 2 giugno 1542, di Morone, Badia e Cortese, tutti difensori dell'azione teologica e diplomatica del C. a Ratisbona, dimostrava che il gruppo dei moderati non aveva ancora perso la sua influenza politica. Del resto anche per il C., cui veniva affidata, il 7 agosto, la missione di pace a Carlo V, si profilava un ritorno fra i protagonisti della politica di Paolo III. Se i suoi amici considerarono quella legazione una vera riabilitazione, lo stesso pontefice in quell'occasione ribadì la sua convinzione che - contrariamente ai rimproveri che gli erano stati mossi - il C. a Ratisbona non avesse favorito gli interessi imperiali, ma si fosse dimostrato fedele difensore di quelli della Chiesa.
Il 17 agosto, in coincidenza con il passaggio da Bologna dell'Ochino, che si recava a Roma citato a comparire dinanzi all'Inquisizione, il C. si ammalò. La malattia non gli impedì tuttavia di intrattenersi con il frate, che dichiarerà in seguito di essere stato incoraggiato alla fuga proprio dal Contarini. Se non è possibile stabilirne l'effettivo ruolo nella decisione del generale dei cappuccini, l'atmosfera carica di tensione e di sospetto che il C. aveva trovato a Roma al rientro da Ratisbona dovette suggerirgli considerazioni tali da indurre l'Ochino a riflettere sull'opportunità di una fuga, che avrebbe, fra l'altro, messo gli "spirituali" al riparo da rivelazioni tanto più pericolose in quanto proprio in quei mesi il gruppo contariniano stava riacquistando influenza a Roma.
Il C. morì a Bologna il 24 ag. 1542 e venne sepolto nella chiesa benedettina di S. Procolo, da dove, nel 1563, verrà traslato nella cappella di famiglia nella chiesa della Madonna dell'Orto, a Venezia.
Alla sua morte lasciava una biblioteca che A. Zeno annovererà tra le più insigni che Venezia avesse posseduto ed una serie di scritti di cui neppure il cognato era in grado di fornire un elenco preciso e completo. Fin dal 1554 i Contarini, progettando un'edizione delle opere dei cardinale, avevano affidato a G. Della Casa il compito di scriverne la biografia (rimasta incompiuta, fu terminata dal Vettori nel 1561) e nel 1558 ne chiedevano una seconda al Beccadelli. Ma solo sotto Pio IV venne dato dal Morone nuovo impulso al progetto che doveva iscriversi nel più ampio disegno di rivalutazione degli "spirituali". Su suo suggerimento gli scritti del C. furono affidati, nel novembre del 1563 perché li rivedesse, ad Egidio Foscarari, il quale, per aver condiviso le posizioni teologiche del C. ed aver preso attiva parte al concilio di Trento, era tra le persone più idonee ad individuare, a "correggere", o ad eliminare i passi non più accettabili alla luce delle definizioni tridentine. Gli impegni nella correzione del breviario, del messale e del catechismo romano e la morte, sopravvenuta nel dicembre del 1564, dovettero impedire al Foscarari la revisione, ritardando la pubblicazione delle opere del C. che vedranno la luce solo nel 1571 a cura dei nipote Alvise Contarini presso l'editore parigino S. Nivelle. Né la revisione di chi certamente sostituì il Foscarari, né le censure della facoltà teologica parigina furono sufficienti a garantire la circolazione dell'edizione, di cui fu vietata dal card. Rebiba la vendita nel febbraio del 1572. Sottoposte all'ulteriore censura del domenicano Marco Medici, le opere venivano ripubblicate nel 1578 a Venezia da Aldo Manuzio.
Opere: Nella prima ediz. delle opere dei C., Gasparis Contareni cardinalis Opera, Parisiis, apud Sebastianum Nivellium, 1571, e nelle due edizioni veneziane del 1578 (Aldo Manuzio) e del 1589 (Damiano Zenario) furono pubbl. i seguenti scritti: De elementis et eorum mixtionibus libri V, dedicati a Matteo Dandolo, scritto fra il 1530 e il '35 (1a ed. Parisiis, per Nicolaum Divitem, 1548); Primae philosophiae compendium, dedicato a Paolo Giustiniani il 30 agosto 1527 (il, ed. Parisiis, ex typ. Gulielmi Nigri, 1556); De immortalitate animae libri II, a Pietro Pomponazzi (il primo libro apparve anonimo in Apologia magistri Petri Pomponatii..., Bononiae, per mag. Iustinianum Leonardi Ruberiensem, 1518, die 3 feb., e col nome dell'autore, autonomamente, Venetiis, apud haeredes Octaviani Scoti, 1525; il secondo libro apparve per la prima volta nell'ed. del 1571); Non dari quartam figuram syllogismorum secundum opinionem Galeni, a Oddo degli Oddi, 1534 circa; De Homocentris, commento alla Homocentrica sive de stellis di G. Fracastoro, aprile 1531; De ratione anni, due lettere a J. G. de Sepulveda, Roma, 1° maggio 1539 e 5 febbr. 1540 (prima ed. in Epistolae clarorum virorum, Lugduni, apud haeredes Sebastiani Gryphii, 1561, pp. 26-39); De magistratibus et Republica Venetorum libri V, scritto tra il 1524 e il 1534 (prima ed. latina Parisiis, ex officina Michaelis Vascosani, 1543; va ed. franc. Paris, Galiot du Pré, 1544, tr. di J. Charrier; 1a ed. it. Venezia, Girolamo Scotto, 1544, tr. di E. Anditimi; 1a ed. ingl. London, John Windet for Edmund Mattes, 1599, tr. di Lewes Lewkenor); De sacramentis christianae legis et catholicae Ecclesiae libri IV, scritti nell'inverno 1539-40 (1a ed. Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1553); Scholia in epistolas divi Pauli, del 1542; De officio episcopi libri II, del 1517 (la lettera dedicatoria a Pietro Lippomano, assente nelle ediz. del 1571, 1578 e 1589, in G. Fragnito, Cultura umanistica..., pp. 185-187); Katechesis sive christiana instructio, si tratta del Formulario di fede redatto per gli eterodossi modenesi nel 1542 (1a ed. Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1553; stesso stampatore, stessa data, trad. it. Instruttion Christiana volgare di monsignor G. Contarino); Conciliorum magis illustrium summa, a Paolo III del 1537 (1a ed. Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1553); Confutazio articulorum seu questionum Lutheran., del 1530 (ed. critica a cura di F. Hünermann, G. Contarini, Gegerireformatorische Schrifien (1530 c.-1542), Münster 1923 (Corpus Catholic., VII, pp. 122); De potestate pontificis, quod divinitus sit tradita, a N. Tiepolo, dell'aprile 1534 (1a ed. Florentiae, apud Laurentium Torrentinum, 1553; ed. critica in F. Hünermann, op. cit., pp. 35-43, da integrare con F. Gaeta, Sul "De potestate pontificis" di G. C., in Rivista di storia della Chiesa in Italia, XIII[1959], pp. 391-396); De iustificazione, a messer Angelo, teologo di Ercole Gonzaga, 25 maggio 1541 (ed. critica in F. Hünermann, op. cit., pp. 23-34 e in Concilium Tridentinum, XII, Friburgo Br. 1966, pp. 314-22); De libero arbitrio, scritto per Vittoria Colonna il 13 nov. 1536 (1a ed. del testo orig. italiano in Quattro lettere di mons. G. Contarini card., Firenze, appresso Lorenzo Torrentino, 1558, pp. 5776); De praedestinatione, a Lattanzio Tolomei della fine del 1537 (ed. critica in F. Hünermann, op. cit., pp. 44-67. Il testo originale italiano è stato edito da A. Stella, La lettera del cardinale C. sulla predestinazione, in Rivista di storia della Chiesa in Italia, XV[1961], pp. 421-41); Explanatio in Ps. Ad te levavi oculos meos, di epoca incerta, per la sorella suor Serafina. Fra gli scritti che non furono inclusi nelle edizioni del 1571, 1578 e 1589: Consiglio facto sopra le cose dei Rev.do padre Fra Hieronimo Savonarola, del 1516, edito da F. Gilbert, C. on Savortarola: an unknown document of 1516, in Archiv für Reformationsgeschichte, LIX (1968), pp. 145-50; la lettera a Trifone Gabriel del 24 dic. 1530 sulla differenza tra mente e intelletto in Delle lettere volgari di diversi nobilissimi huomini et eccellenti ingegni..., Venezia 1544, pp. 110-14; le altre lettere a T. Gabriel del 10 genn. 1531 e 13 dic. 1532 sul rapporto tra volontà e intelletto e tra scienze speculative e virtù morali, in Quattro lettere di mons. G. Contarini card., Firenze, L. Torrentino, 1558, pp. 9-40, che contengono la lettera del libero arbitrio alla Colonna ed una lettera (la terza) erroneamente attribuita al C.; Ad apolog. fr. Francisci Georgii ..., della primavera del 1537, in F. Dittrich, Regesten und Briefe des Card. G. C., Braunsberg 1881, pp. 271-77; Orario ad depuratos de reformanda ecclesia habita, del1537, in Concilium Tridentinton, XII, pp. 153-55, De usu potestatis clavium, a Paolo III, del 1538, ibid., pp. 151-53; De potestate pontificis in compositionibus epistola, a Paolo III, del 1538, in J. Le Plat, Monumentorum ad historiam Concilii Tridentini... illustrandani... amplissima collectio, 2, Lovanio 1784, pp. 608-15; Modus condonandi, per i predicatori della diocesi di Belluno, della fine del 1538, in F. Dittrich, Regesten..., pp. 305-309; l'esortazione ai vescovi tedeschi del 1541 in G. B. Morandi, Monumenti di varia letter. tratti dai manoscritti originali di mons. Ludovico Beccadelli, arcivescovo di Ragusa, I, 2, Bologna 1799, pp. 197 ss.; la De concilii celebratione sententia, dell'ottobre 1541, in Concilium Tridentintan, IV, pp. 208 ss.; Instructio pro praedicatoribus, dell'ottobre 1541, erroneamente attribuita dal Querini a R. Pole, in Epistolarum Poli, III, 1, pp. 75-82; De poenitentia, al card. Pole, del luglio 1542, in Dittrich, Regesten, pp. 353-61; i memoriali cui il C. collaborò: Consilium de emendanda ecclesia, in Concilium Tridentinum, XII, pp. 131-45, e Consilium quattuor delectorum, dell'autunno del 1537, ibid., pp. 208-15.
Fonti e Bibl.: Manca un'ediz. critica delle lettere del C. e al C., molte delle quali sono ancora inedite in numerose biblioteche ed archivi italiani (alcune indicaz. in P. O. Kristeller, Iter Italicum, ad Indicem). Solouna piccola parte dei carteggi fu pubbl. da F. Dittrich, Regesten..., cit., il quale, inoltre, regestò molte lettere edite da A. M. Querini, Epistolarum Reginaldi Poli S. R. E. cardinalis et aliorum ad ipsum collectio, I-III, Brixiae 1744-48, e da G. B. Morandi, Monumenti..., cit., I, 2, pp. 61-216, con interventi censori e non poche sviste. I dati relativi alle fonti per la biografia del C. e alle lettere forniti dal Dittrich vanno integrati con: Arch. di Stato di Venezia, Segretario alle voci, Pregadi, reg. I, ff. 1v, 26v, 43v, 78r; Ibid., Segretario alle voci, Maggior Consiglio, reg. I, f. 1v; Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It., cl. VII, 818 (= 8897); Raccolta Consegi, ff. 122r, 293r; Ibid., Mss. It., cl. VII, 819 (= 8898), f. 293r; Ibid., Mss. It., cl. VII, 820 (= 8899). ff. 39r, 61v; Ibid., Mss. It., VII, 925 (= 8594): M. Barbaro, Geneal., f. 274r; Ibid., Mss. It., cl. VII, 156 (= 8866): M. Barbaro, Nozze di nobili, ff. 66v-67r, 127v-128r; Ibid., G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio Veneto, I, f. 303v; Ibid., Mss. It., cl. VII, 1009 (= 7447), ff. 477 (dispacci durante l'ambasceria a Carlo V); Mss. It., cl. VII, 1043 (= 7616), ff. 341 (dispacci durante l'ambasceria a Clemente VII); Annales Camaldulenses, a cura di G. Mittarelli-A. Costadoni, IX, Venetiis 1773, coll. 446-599; L. v. Pastor, Die Correspondenz des Cardinals C. während seiner deutschen Legation (1541), in Historisches Jahrbuch der Görres-Gesellschaft, I (1880), pp. 321-92, 473-501; Die Nuntiaturberichte Morones vom Reichstag zu Regensburg 1541, ibid., IV (1883), pp. 395-402, 618-97;M. Sanuto, Diarii, XV-LVIII, Venezia 1879-1903, ad Indices;F. Dittrich, Nachrräge zur Biographie G. C., in Histor. Jahrbuch d. Gares-Gesellsch.. VIII (1887), pp. 271-83;J. Rainieri, Diario bolognese, a cura di C. Ricci-O. Guerrini, Bologna 1887, pp. 72 s.; W. Friedensburg, Der Briefwechiel G. C. mit Ercolo Gonzaga, in Quellen und Forich. aus italien. Archiven..., II (1899), pp. 161-222; E. Solmi, Lettere inedite del cardinale G. C. nel cartegio del cardinale Ercole Gonzaga, in NuovoArchivio veneto, n. s., VII (1904), pp. 245-274; Id., G. C. alla Dieta di Ratisbona secondo i docum. inediti dell'Arch. Gonzaga di Mantova, ibid., XIII (1907), pp. 5-33, 69-93; Nuntiaturborichto aus Deutschland, s. 1, 1533-59, V-VII, a cura di L. Cardauns, Gotha 1909-12, ad Indices;H. Jedin, C. und Camaldoli, Roma 1953 (estratto pubblicato separatamente dall'Arch. ital. per la storia della pietà, II [1953], pp. 59-118); P. Giovio, Lettere, a cura di G. G. Ferrero, I, Roma 1956, pp. 126, 166, 225, 236, 264, 291 ; II, ibid. 1958, pp. 154, 205; Nunziature di Venezia, I-II, a cura di F. Gaeta, Roma 1958-1960, in Fonti per la storia d'Italia, ad Indices;A. Casadei, Lettere del cardinale G. C. durante la sua legaz. di Bologna, in Arch. stor. ital., CXVIII (1960), pp. 77-130, 220-285; Concilium Tridentinum, ed. Soc. Goerresiana, I-XII, Friburgi Br. 1965-1980, ad Indices; Acta graduum academicorum Gymnasii Paravini ab anno 1500, a cura di E. Martelozzo Forin, III, 1, Padova 1969, pp. 49, 84, 103, 154; J. Pflug, Correspondance, a cura di J. V. Pollet, I-II, Leiden 1969-73, ad Indices;M. A. Flaminio, Lettere, a cura di A. Pastore, Roma 1978, ad Indicem. Tutt'ora indispensabile F. Dittrich, G. C., 1483-1542, Eine Monographie, Braunsberg 1885, al quale si rinvia per i riferimenti bibliogr. precedenti il 1885, da integrare con: W. Braun, Kardinal G. C. oder der Reformkatholizismus unserer Tage im Lichte der Geschichre, Leipzig 1903; F. Hünermann, Die Rechsferrigungslehre des Kardinal G. C., in Theologische Quartalschrift, CII (1926), pp. 1-22; H. Rückert, Die theologische Entivicklung G. C., Bonn 1926; H. 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