MORARDO, Gaspare
MORARDO, Gaspare. – Nacque a Oneglia il 7 marzo 1736 (ma nello Stato di servizio dei professori dell’Università di Torino l’anno di nascita risulta essere il 1738).
Allievo delle Scuole Pie della sua città, entrò nell’Ordine degli scolopi e fu consacrato sacerdote. Docente di latino e italiano a Genova nel 1758 e a Milano nel 1761, tra il 1763 e il 1766 insegnò filosofia e retorica nel collegio scolopico di Oneglia. Dalla città natale – dove fu tra i docenti della giurista Maria Pellegrina Amoretti, una delle prime italiane a conseguire la laurea – partì nel 1773 per Praga, dove rimase sino al 1780 come direttore della facoltà teologica: qui, «giuseppinista, giansenista e gallicano» (Casati, 1939, p. 269), compose un trattato in lingua tedesca sulla riforma delle scuole teologiche. Tornato in Italia, dopo aver insegnato filosofia a Voghera, Susa e Fossano, nel 1788 approdò all’Università di Torino come professore onorario di filosofia morale. Nella capitale sabauda manifestò pienamente la sua natura di versatile poligrafo, che lo portò a comporre diverse decine di opere di argomento assai variegato: dalla pedagogia femminile alla morale, dall’educazione militare alla religione (il catalogo delle opere, pubblicate anche anonime, è nella seconda parte della sua Memoria ragionata di fatti memorandi relativi all’Ateneo di Torino..., Torino 1804). Dopo alcune riflessioni di carattere apologetico espresse in L’uomo guidato dalla ragione etica dimostrativa (Torino 1780), dove definiva «sovrumana e celeste» la «dignità e l’eminenza del carattere» del papa «e di tutti i vescovi uniti alla Chiesa romana» (cit. in Stella, 1958, p. 36 n. 165), rivolse i suoi eclettici interessi all’Arte di viver sano e lungamente (Torino 1782), e alla formazione dei militari e delle giovani donne.
Fra il 1785 e il 1786 uscirono infatti a Torino i tre volumi della sua Filosofia militare, una dotta opera «nella quale confluivano molti di quelli che erano stati gli oggetti della politica di riforma settecentesca» del mestiere delle armi (Bianchi, 2002, p. 283). Morardo, intenzionato a colmare la lacuna di un testo di morale esplicitamente diretto ai militari, paventava che soldati e ufficiali, qualora non avessero avuto la possibilità di esercitare «la vera e soda scienza intorno a tutto ciò che all’armi, alla guerra e al militare governo appartiensi», sarebbero caduti nella condizione di «passare vilmente in ozio i giorni» tradendo così il loro mandato, presentato dallo scolopio «come l’equivalente, cambiato di segno, della missione di un uomo di Chiesa» (cit. ibid., p. 284). Pubblicò quindi La damigella istruita (Torino 1787), opera nella quale cercava di combinare «in un’ottica muratoriana, rigorismo e benignismo» (Guerci, 1988, p. 131). Per Morardo la fanciulla, che fuori dalla famiglia si ritrovava pericolosamente esposta all’empietà dei «libertini», all’immoralità degli «increduli » e alle insidie dei seguaci dei philosophes francesi, avrebbe potuto trovare sostegno e guida solamente nei genitori, ai quali si sarebbe dovuta affidare con totale sottomissione.
Entrato in contatto con le più significative personalità del giurisdizionalismo e del giansenismo che, sullo scorcio del XVIII secolo, dominavano l’Ateneo torinese, Morardo iniziò a elaborare nuove concezioni (in ambito sia etico e religioso, sia politico e sociale), che, dopo il 1789, lo portarono ad abbracciare apertamente la causa rivoluzionaria, di cui si proclamò «primo apostolo » in Piemonte. «Tutto preso dalle nuove idee» e mostrando il suo animo «inquieto e indipendente» (Venturi, 1984, p. 540), profuse le sue energie in un’abbondante produzione letteraria che la Chiesa avrebbe messo all’Indice nel 1821.
I primi problemi con le autorità ecclesiastiche e civili erano, però, già nati con il De’ testamenti, un’opera «politico morale» pubblicata a Torino nel 1790 con un parte aggiunta surrettiziamente dopo l’imprimatur del vicario torinese del S. Uffizio, la quale provocò forti proteste della Sede apostolica presso il governo sabaudo.
Morardo aveva infatti affermato che «le ricchezze lasciate dai testatori alle chiese, ai corpi ecclesiastici e regolari e alle opere pie» erano da considerarsi beni lasciati «a benefizio del pubblico e di cui il pubblico dee sentirne i vantaggi ». Ne derivava il diritto del sovrano (cui spettava il governo delle ricchezze pubbliche) di «regolare» l’uso di tali beni «come richiede la maggiore prosperità dei suoi stati», anche alla luce dell’«utilità» che i diversi uffici ecclesiastici potevano garantire alla società (De’ testamenti, p. 234).
Su pressione della curia romana, Vittorio Amedeo III lo allontanò da Torino e Morardo, non essendo stato accettato nei collegi scolopici degli Stati sardi (quelli di Oneglia e di Voghera) «per il subbuglio che aveva altrevolte sucitato» (Stella, 1958, p. 37), si trasferì a Vercelli dove, accolto con una certa simpatia dalle élites ecclesiastiche della città, soggiornò nel convento degli agostiniani. Dopo un altro breve periodo di esilio ad Alessandria, alla fine del 1791 poté fare ritorno a Torino, ma nel 1794 lo si ritrova a Belmonte, relegato per due mesi nel convento dei cappuccini «per sola opinione politica» (G. Morardo, La famosa causa dell’assalitore di G. M. agitata innanzi al tribunale criminal speciale de’ Dipartimenti del Po e della Dora li 30 di ventoso l’anno XII della Rep. Fr., Torino 1804, p. 13). Negli anni successivi Morardo, che intanto era entrato nell’Accademia degli Unanimi (un sodalizio letterario torinese dove aveva assunto il nome di ‘Raccolto’, con il quale nel 1795 aveva pubblicato a Torino Dell’emigrazione de’ popoli nell’invasion de’ nemici) e nell’Accademia delle scienze, espresse la sua crescente insofferenza verso il papato, la Chiesa e la tradizione cattolica che, manifestatasi insieme con una grave crisi interiore, lo portarono nel 1798 a deporre l’abito religioso.
Nella sua nuova visione – esplicitata dal violento libello Del culto religioso e de’ suoi ministri (Torino 1799), dedicato a Pierre-Lois Ginguené, già ambasciatore della Francia repubblicana a Torino – il cristianesimo, depurato dalle superstizioni che avevano incrostato l’«originaria semplicità e purezza» del suo messaggio salvifico e liberato dalle pastoie nelle quali era stato costretto «dall’avarizia e dall’orgoglio dei preti» nel corso dei secoli, avrebbe ritrovato la sua intima essenza: quella di «religione della natura», di «religione degna dell’uomo» in quanto «vera teofilantropia». Questa nuova religione avrebbe dovuto avere un ruolo fondamentale anche nel regime democratico e republicano di cui l’ex scolopio si propugnò entusiasta fautore. «Il repubblicano governo» non avrebbe dovuto tollerare l’ateismo o qualunque «scuola di ateismo»: proprio Cristo, «perfettissimo rivoluzionario» che aveva lottato «contro i grandi, contro i potenti, contro i principi de’ sacerdoti, contro gli oppressori», risultava essere il vero «capo dei democratici» e «perfettamente democratica» la sua religione. La Chiesa del regime democratico e repubblicano non avrebbe certo potuto tollerare le iniquità e le storture del passato: da qui l’abolizione del «perniciosissimo» celibato ecclesiastico, «in contraddizione con le leggi e con le mire della natura», e la riconversione dei beni e delle ricchezze accumulate nei secoli dal clero «in dominio della nazione» (cit. in Venturi, 1984, pp. 542-544).
Abbracciata apertamente la causa repubblicana, Morardo si schierò colla fazione che sosteneva la necessità dell’annessione alla Francia, giudicata come unico modo per realizzare anche in Piemonte la democrazia. Durante la prima occupazione francese (1798-99), divenuto intanto il pricipale redattore del periodico femminile la Vera repubblicana (nel quale, oltre a condannare la vita dissipata delle donne benestanti, denunciava la protezione accordata dalla legge a mariti adulteri e violenti, dai quali le mogli non potevano divorziare), si segnalò per posizioni (come quelle apertamente favorevoli all’emancipazione degli ebrei) che lo misero in rotta di collisione con i suoi antichi compagni.
Nel 1799 il governo provvisorio lo inviò nella natia Oneglia con l’incarico di riorganizzare la municipalità locale. Il compito si rilevò arduo e gli attirò critiche e inimicizie che non furono forse estranee all’arresto e detenzione nelle carceri senatorie a cui sarebbe stato sottoposto durante la «piccola restaurazione». All’inizio della seconda occupazione francese riprese un’intensa attività politica: non solo osteggiò fortemente la Commissione ecclesiastica (istituita nel luglio 1800 dal governo provvisorio e soppressa pochi mesi dopo da Napoleone) accusando i suoi maggiori esponenti (per lo più di tendenze giansenistiche) di adesione strumentale alla repubblica, ma si pose anche in forte conflitto con alcune rilevanti personalità del mondo politico e culturale torinese (in particolare con gli anti-annessionisti), che miravano a salvaguardare l’italianità del Piemonte.
Molto aspra risultò la polemica scoppiata fra Morardo e due figure di spicco del governo provvisorio degli anni 1798-99: l’abate Innocenzo Maurizio Baudisson e il conte Giuseppe Cavalli d’Olivola, che egli accusò di aver condotto contro di lui «una guerra spietata», volta a infangarne la reputazione per estrometterlo dall’ateneo torinese. Ribatté alle pesanti accuse di malversazione relative al periodo durante il quale era stato commissario dell’Università (rivoltegli da un’apposita commissione presieduta proprio da Cavalli) con una vigorosa autodifesa (Memoria ragionata..., cit.), in cui rivendicava la sua ineccepibile correttezza, l’ormai decennale impegno nell’ateneo e le numerose attestazioni di stima che aveva raccolto nel lungo servizio. A una «brutale cospirazione» ordita dai suoi nemici fece risalire le «dicerie insane» e i «maligni attentati» di cui fu oggetto, come l’oscura vicenda occorsa nel 1804, quando dovette difendersi dall’accusa di aver molestato una donna dieci anni prima, al tempo in cui aveva soggiornato nel convento di Belmonte (La famosa causa, cit., pp. 4, 8, 13).
In quegli anni intrecciò anche significativi contatti con gli esponenti del mondo valdese – dal colonnello Giacomo Marauda al moderatore Rodolfo Peyran – più propensi all’annessione del Piemonte alla Francia. La sua produzione pubblicistica di questo periodo fu assai intensa e proficua. Fra le molte opere pubblicate (anche in forma anonima) meritano una segnalazione la Confessione di Carlo Emanuele per grazia de’ buoni sardi re di Sardegna e abusivamente re di Cipro e di Gerusalemme al popolo piemontese umiliata a papa Pio VII (Roma 1800), uno dei più aspri e violenti pamphlets anti-sabaudi apparsi allora a Torino, e il trattato L’arte di conservare ed accrescere la bellezza delle donne (Torino, 1800-01), nel quale riprendeva le antiche tesi sull’educazione femminile, teorizzando un modello di donna democratica e repubblicana, di cui proponeva esempi viventi fra le principali donne torinesi dell’epoca.
Altrettanto intensa fu l’attività come membro dell’Accademia delle scienze di Torino, dove sin dal maggio 1801 aveva proposto, tuttavia senza successo, la realizzazione di un Dizionario storico degli illustri piemontesi e dove tra 1802 e 1804 si distinse nella lettura di trattati e di composizioni poetiche. Pur partecipando assiduamente ai lavori dell’istituzione culturale torinese non riuscì a ricoprire alcuna carica direttiva in seno all’Accademia, nella quale la sua presenza si fece sempre più sporadica a partire dal 1805.
L’ultima fase della vita di Morardo coincide con un periodo di inoperosità tanto più sorprendente se messa a confronto con la vivacità che aveva caratterizzato la giovinezza e la maturità di questo prolifico ed eclettico pensatore. La sensazione che in lui, ormai anziano, fosse intervenuta una nuova crisi di coscienza, così profonda da allontanarlo dalla produzione letteraria e filosofica, potrebbe avvalorare l’ipotesi (riportata da Marinangeli, 1979, p. 89 ma priva di ulteriori conferme) di un suo tardivo ritorno alla vita religiosa.
Espulso dall’Accademia delle scienze di Torino nel giugno 1814 e allontanato da ogni incarico ufficiale, morì a Torino nel 1817.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Corte, Materie militari, Levata di milizie, mz. 1 d’add., c. 7; Ibid., Corte, Carte epoca francese,Nota de’ detenuti il 29 luglio 1799, s.1., mz. 3, c. n.n.; Torino, Biblioteca reale, ms. Misc. 29, n. 19: Stati di servizio di professori nell’Università di Torino e dottori di collegio nel principio del secolo XIX, c. 234r, n. 41: Nota dei professori nell’Università di Torino dal 1720 in poi autori di opere stampate, c. 274v; L. Grillo, Elogio di liguri illustri, I, Genova 1846, pp. 60, 64, 158; G. Casati, L’Indice dei libri proibiti: saggi e commenti, III, Roma 1939, p. 269; P. Stella, Giurisdizionalismo e giansenismo all’Università di Torino nel secolo XVIII, Torino 1958, pp. 35-41; N. Marinangeli, Imperiesi nella storia, Oneglia 1979, pp. 86-89; L. Guerci, La discussione sulla donna nell’Italia del Settecento: aspetti e problemi, Torino 1988, pp. 131 s.; F. Venturi, Adalberto Radicati tra giansenisti e teofilantropi, in Rivista storica Italiana, XCVI (1984), p. 540; G. Spini, Risorgimento e protestanti, Torino 1998, p. 52; G. Tuninetti, Organizzazione ecclesiastica, confraternite e vita religiosa, in Storia di Torino, VI, La città nel Risorgimento (1798-1864), a cura di U. Levra, Torino 2000, p. 239; L. Braida, Editoria e circolazione del libro, ibid., V, Dalla città razionale alla crisi dello Stato di Antico Regime (1730-1798), a cura di G. Ricuperati, Torino 2002, pp. 337 s.; P. Bianchi, Onore e mestiere. Le riforme militari nel Piemonte del Settecento, Torino 2002, pp. 283-286; E. Strumia, Tra Lumi e Rivoluzione: i giornali per le donne nell’Italia del Settecento, in Donne e giornalismo. Percorsi e presenze di una storia di genere, a cura di S. Franchini - S. Soldani, Milano 2004, pp. 203 s.; P. Grossi, Pierre-Louis Ginguné, historien de le littérature italienne, Bern 2006, pp. 79 s.; A. Merlotti, Il dibattito sull’emacipazione ebraica in Piemonte alla fine del Settecento, in Ebrei, Via Vico. Mondovì XV-XX secolo, a cura di A. Cavaglion, Torino 2010, pp. 212 s.