CAPONE, Gaspare
Nacque a Napoli l'11 apr. 1767, in una ricca e illustre famiglia di giuristi. Il padre Nicola lo indirizzò agli studi umanistici, che svolse sotto la guida dell'abate Foti; ma frequentò anche i corsi di filosofia presso la scuola privata del De Marziis. Solo dopo aver acquisito una notevole cultura letteraria e filosofica, com'era d'uso nella migliore tradizione del foro napoletano, intraprese gli studi giuridici sotto la direzione di Carmine Fimiani, di cui però il C. seguì i corsi privati e non quelli universitari: è caratteristico di questo periodo della storia della cultura napoletana proprio il languire dell'insegnamento pubblico e lo sviluppo di quello privato, che trae impulso dall'opera di insigni maestri non sempre legati al mondo accademico. Seguì anche i corsi di Giuseppe Pasquale Cirillo, ma fu soprattutto l'insegnamento del Fimiani che seppe destargli un vivo interesse per la storia del diritto e delle istituzioni giuridiche. Pur non trascurando gli studi storici, iniziò la professione legale con grande successo, e alcune celebri cause, felicemente conclusesi per il giovane avvocato, gli procurarono una notevole fama nel foro napoletano. Per questo tramite ottenne anche alcune cariche pubbliche, sia pur modeste: fu segretario delle regie poste, segretario presso la Giunta de' banchi e segretario della Giunta della biblioteca borbonica, aperta al pubblico nel 1802.
Nel maggio del 1814, costituite quattro commissioni per l'elaborazione dei nuovi codici (civile, procedura civile, penale e procedura penale, commercio), il C., per la sua fama di storico e avvocato, è chiamato a far parte di quella per il codice civile. Proliferate inoltre, con l'abolizione della feudalità, le cause in materia feudale, il C., particolarmente richiesto come avvocato per la sua preparazione storica, ne sostenne di astruse e complesse, che gli procurarono però ingenti guadagni. Il suo vasto patrimonio si accrebbe in modo notevole ed egli poté così ampliare la già ricca biblioteca. Fu anche avvocato della Real Corona e delle più importanti ambasciate estere presso la corte borbonica. Nel dicembre del 1820 il C. sottoscrisse una difesa del conte Giuseppe Zurlo dopo che, partito il re, era stato proposto in Parlamento l'arresto degli ex ministri Zurlo, Campochiaro e Carrascosa. La sua posizione politica, sempre conservatrice e filoborbonica, e l'indiscusso prestigio di giurista, indurranno il re a chiamare il C., unico avvocato, a far parte della Consulta generale del Regno, supremo organo del contenzioso amministrativo, costituito nel giugno del 1824 sul modello francese e composto da 24 membri, presieduti da un ministro senza portafogli.
Nel 1826 il C. scrisse il Discorso sopra la storiadelle leggi patrie, stampato a Napoli nel 1829 e dedicato al principe ereditario Ferdinando, duca di Calabria.
L'opera, che doveva servire al principe per passare con maggior profitto dal completato studio del diritto romano a quello vigente nel Regno, ebbe una seconda edizione ampliata in due volumi nel 1840-45 e una terza, postuma, nel 1854. Ebbe molti elogi dal Guizot e il Todros ne fece un compendio in francese sulla seconda edizione, stampato a Parigi nel 1848.
Nella prima delle tre parti in cui l'opera è divisa il C. mostra acuta sensibilità di storico distaccandosi da quell'indirizzo erudito che delinea, secondo il Del Giudice, la produzione scientifica della prima metà del sec. XIX, dai caratteri quasi esclusivi di storia della legislazione o storia esterna. Il C. palesa unaricchezza notevole di letture: utilizza Cuiacio, Struvio, Sigonio, Gotofredo, Muratori, Gravina, Fimiani, ma cita anche Grozio, Pufendorf, Montesquieu, Hume, Leibniz, Bentham e gli economisti inglesi. Ampia trattazione è anche dedicata al diritto longobardo e a quello feudale: non pone in discussione la tesi vichiana sull'origine naturale della feudalità, ma di questa egli afferma risolutamente la matrice germanica, e in modo particolare franca, nel concreto della realtà storico-politica occidentale. Ciò che di essa sopravvive, nota il C., è una classe di nobiltà ereditaria, perpetuatasi per mezzo della successione "primogeniale", che ha svolto la funzione di sostegno e al contempo di temperamento del potere monarchico. Numerose sono anche le notizie che il C. fornisce sui giuristi meridionali, di cui mira peraltro, con una certa parzialità, a porre in evidenza doti intellettuali e meriti culturali.
La seconda parte dell'opera, Delle leggi che seguono la invasione del 1806, è di estremo interesse soprattutto per la storia dell'ordinamento amministrativo del Regnum, a cui il C. dedica un'esposizione accurata e compiuta derivante dall'indubbia competenza che possiede, quale membro del supremo organo amministrativo.
La terza parte è costituita da un saggio sulle differenze più notevoli fra il sistema giuridico derivante dai nuovi codici e quello preesistente: favorevole si mostra il C. al nuovo istituto della trascrizione, mentre critica aspramente il fatto di aver tolto alle autorità religiose la gestione degli atti dello stato civile. In realtà il C., ricco, regalista, profondamente religioso, rappresenta il tipico frutto del rinnovato ancien régime che realizza pienamente nella Restaurazione le istanze più mature della classe borghese. Egli conclude la sua opera affermando che la società civile si fonda sulla religione e sulle leggi, e queste ultime, qualora non raggiungessero altro scopo che quello di imprimere nelle coscienze "il rispetto inviolabile che al diritto della proprietà è dovuto", avrebbero già una degna ragion d'essere.
Benché malato di nervi, il C. è ancora operosissimo: intensa è l'attività consultiva; gli sono affidati inoltre importanti incarichi fra cui la delega dell'exequatur regio, ma, al contempo, continua a coltivare gli studi storici e filosofici. Con decreto reale del 21 sett. 1831 il C. è chiamato a succedere a Melchiorre Delfico nella R. Accademia delle scienze, ove tra il 1834 e il 1835 lesse cinque Memorie sul pensiero del Reid e sul suo influsso sulla filosofia francese.
Le Memorie, pubblicate postume negli Attidella R. Accademia delle scienze, VI, Napoli 1851, circolavano già nel 1846, forse per estratto, allorché Luigi Palmieri polemizzò col C. rivendicando al Galluppi il merito di aver propagato per primo le tesi degli scozzesi, coll'affermare che la filosofia doveva fondarsi sullo studio dei fatti di coscienza.
Nel pensiero del C., sotto molti aspetti eclettico, confluiscono sia l'utilitarismo del Bentham, sia il sensismo del Condillac, di cui egli peraltro opera unastrenua difesa contro le degenerazioni materialistiche dei suoi seguaci, sia, infine, la filosofia del senso comune di Tommaso Reid e della scuola scozzese, a cui il C. riconosce il merito di aver saputo arginare in Inghilterra la propagazione delle tesi idealistiche, e, al contempo, di aver depresso in Francia il "dilagante materialismo".
Assunse indubbiamente un posto di rilievo nel mondo culturale dell'epoca: allorché alcuni intellettuali piemontesi e toscani presero contatto nel 1838 con l'ambiente meridionale furono da Giacomo Savarese indirizzati al C. e al Winspeare, quali esponenti più significativi e di maggior prestigio della cultura napoletana.
Gli avvenimenti del 1848, di seria minaccia a quel consolidato mondo di istituzioni e di idee che fu a fondamento di tutta la sua esistenza, lo videro polemicamente assente.
Il C. morì a Napoli il 6 genn. 1849.
Fonti e Bibl.: C. De Nicola, Diario napoletano (1798-1825), Napoli 1906, II, pp. 3823 730; III, p. 232; Elogio di G. C., in Atti della R. Accademia delle scienze, VI, Napoli 1851, pp. LXIX-LXXIV; P. Ulloa, Pensées et souvenirs sur la littérature contemporaine du Royaume de Naples, II, Genève 1860, p. 387; C. Dalbono, Commemorazione dei giureconsulti napoletani, in Scritti vari, Firenze 1891, pp. 19-32; A. Anzilotti, Un amico napoletano di G. P. Vieusseux (Il barone Giacomo Savarese), in Arch. stor. ital., LXXIX (1921), p. 346; P. Del Giudice, Storia del diritto italiano, II, Milano 1923, pp. 383 s.; G. Gentile, Storia della filosofia italiana dal Genovesi al Galluppi, Milano1930, II, pp. 4-6; F. L. Berra, Caponi G., in Novissimo Digesto ital., II, Torino 1964, p. 934.