MASTRILLO, Garzia
– Nacque a Palermo intorno al 1570 da Mario e da Aloisia Corbera.
Il padre, dottore in utroque iure, proveniva da una facoltosa famiglia originaria di Nola, che si era attestata a Napoli agli inizi del Cinquecento dando vita a una dinastia di potenti togati. Ottenuta la naturalizzazione per ductionem uxoris dopo il trasferimento nel capoluogo siciliano – forse in vista della riforma dei tribunali del 1569 –, intraprese una rapida carriera nelle magistrature isolane ricoprendo le cariche di uditore della cavalleria leggera, giudice della Corte pretoriana, del Concistoro della Sacra Regia Coscienza e della Gran Corte criminale, agevolato dalla nobile famiglia della consorte, che vantava rapporti di parentela nella feudalità e nelle alte magistrature (con famiglie come i De Gregorio, i Bologna, i Milanese, i Corsetto, i Giurba, i Migliaccio), e una presenza nel ceto senatorio di Palermo da circa un secolo. Oltre al M., ebbe almeno tre figli: Girolamo, erede del titolo nobiliare, Andrea, regio cappellano quindi arcivescovo di Messina, Antonio, cavaliere gerosolimitano e tenente della guardia alemanna del principe.
Il M. fu avviato agli studi giuridici e nel 1586 iniziò a patrocinare presso il tribunale cittadino. Si recò quindi a Napoli, dove frequentò lo Studium negli anni in cui i due zii paterni, Vincenzo e Pietro Antonio, ricoprivano rispettivamente la carica di presidente del Sacro Regio Consiglio e di avvocato fiscale della Gran Corte della Vicaria. Tra i suoi maestri, egli ricordava P. Alfano nello ius civile, G. Berlingero negli Instituta, C. De Curtis e G.F. De Ponte – suo consanguineo – nello ius feudale. Non poté tuttavia laurearsi a Napoli, perché la prammatica del 30 sett. 1591 ammise all’iscrizione nel Collegio dei dottori i soli cittadini. Con la protezione del viceré di Sicilia Enrique de Guzmán, conte d’Olivares, ottenne il consenso di discutere la prova finale presso lo Studio di Catania. Il 15 luglio 1592 conseguì il dottorato in utroque avendo come promotori G. Cumia, N. Costarella, O. Colle.
Nel 1593 patrocinò una causa presso il tribunale del S. Uffizio, di cui era divenuto forista, quindi fece ritorno a Napoli, dove dimorò tre anni per consolidare, presso De Curtis, la sua formazione nel diritto feudale. Rientrato a Palermo nel 1596, si unì in matrimonio con una figlia di Giulio Valdibella, esponente del ceto senatorio cittadino. L’8 settembre di quell’anno l’elezione a governatore della Compagnia di S. Maria della Consolazione sotto titolo della Pace sancì il suo ingresso nei ranghi del patriziato cittadino.
Nello stesso periodo intraprese la pubblicazione degli scritti ancora inediti del suo avo P. De Gregorio, giurista messinese, iniziando dal trattato giovanile De vita et militia, de dote de paragio, de iudiciis causarum feudalium (Palermo, G.A. de Franceschi, 1596).
L’opera fu corredata di additiones della letteratura napoletana e siciliana successiva alla morte di De Gregorio (1533) al fine di aggiornare la disciplina ivi contenuta dopo la pubblicazione di una prammatica del viceré Ferrante Gonzaga che rendeva inappellabili le sentenze sulle controversie in materia. Con il supporto di M. D’Afflitto, S. Loffredo, M. Freccia, C. Salerno, e dei suoi maestri V. D’Anna, V. De Franchis, De Ponte, il M. avanzava una tesi che avrebbe sviluppato negli scritti successivi, cioè la necessità di modellare il Concistoro della Sacra Regia Coscienza siciliano sulla struttura del Collaterale napoletano.
In quel periodo continuò a frequentare Napoli come patrocinatore presso il Collaterale e nel 1598 ottenne quell’iscrizione al Collegio dei dottori negatagli negli anni precedenti. Nello stesso anno fu eletto giudice della Corte pretoriana di Palermo e diede inizio a una carriera parallela e speculare a quella del padre, alternandosi a lui nelle stesse cariche per circa un decennio. Sempre nel 1598, la madre acquistò il feudo di Tortorici e il M. pubblicò il trattato De concessione feudorum di P. De Gregorio (Palermo, G.A. de Franceschi).
Le additiones del M. rafforzavano le teorie enunciate da De Gregorio sull’origine del feudalesimo e sulle preminenze della potestà baronale nei suoi rapporti con i vassalli e con il monarca. Alla citazione degli autori napoletani e siciliani (sopra tutti il De subfeudis baronum di M. Freccia), egli aggiunse i richiami ai Commentarii in Consuetudines Parisienses di C. Du Moulin, sia pure in edizione espurgata e priva dell’eretico nome, e al De feudis di U. Zasio, segno di un’attenzione per le dottrine d’Oltralpe, che gli derivava dalla formazione napoletana, e per le teorie sul carattere patrimoniale del feudo.
Nell’autunno del 1599 fu ancora a Napoli in veste di patrocinatore presso il Collaterale e per l’occasione compose alcune perdute Allegationes. In vista dell’elezione a giudice del Concistoro, rinunciò definitivamente a una carriera nel Regno citra, ma non alla vivace cultura giuridica dell’ambiente togato napoletano del tempo, di cui fu senza dubbio il tramite primario in Sicilia. Nel 1600, a seguito della controversia intentata contro la madre dagli officiali di Tortorici che si opponevano all’infeudazione del loro territorio e rivendicavano un diritto di prelazione, compose il Consilium unicum pro ill. d. Aloysia Mastrilli et Corbera baronissa terrae Tortoreti contra eius vassallos (in Decisiones consistorii…, Panhormi 1606), dove allegò numerose decisioni del Collaterale napoletano.
L’anno seguente, a Palermo, diede alle stampe un’altra opera di De Gregorio, Ad bullam apostolicam Nicolai V et regiam pragmaticam Alphonsi regis de Censibus commentaria, sui contratti di censo, ovvero la vendita delle rendite annue sui beni immobili, contratti istituiti a seguito dell’accordo tra il papa e Alfonso V d’Aragona nel 1452 per combattere il peccato di usura e controllarne gli eccessi.
Consapevole dei riflessi dell’istituto sul regime dei beni feudali e sulla prassi giudiziaria, ritenne utile proporre lo scritto, corredato di sue additiones, a seguito dell’emanazione della bolla di Pio V del 1569 (esecutoriata solo in parte in Sicilia), di quelle di Gregorio XIII del 1574 e del 1579, nonché delle prammatiche di Marcantonio Colonna del 10 marzo 1582 e di Filippo II del 13 luglio 1583 sulla stessa materia. L’opera, diversamente da ogni sua altra, fu impressa con l’approvazione del viceré Bernardino Cárdenas duca di Maqueda, del presidente della Gran Corte G.F. Rao, suo amico personale che allegò un memoriale, del vicario generale F. Bisso e del maestro dell’Ordine dei predicatori G.P. Cortese. L’imprimatur fu necessario poiché il M. non si era limitato ad aggiornare la disciplina dei censi bullali. In una lunga additio alla q. 5, quasi un autonomo trattato sulla natura dei contratti censuali, egli assumeva a fondamento delle sue tesi gli scritti – da lui posseduti – degli umanisti transalpini F. Connan, B. Chasseneux, P. Rebuffi, J. Cujas, L. Charondas, F. Duaren, H. Doneau, F. Baudouin, F. Hotman, noti a Napoli, certo allora non altrettanto in Sicilia, per il loro tentativo di realizzare l’autonomia concettuale delle figure del pegno e dell’ipoteca e di proporre un’interpretazione dei diritti di garanzia più aderente alla realtà giuridico-economica del tempo e priva di valenze teologiche: a tale visione pragmatica il M. mostrava di aderire anche nel rivendicare firmissime al foro laico la competenza in materia.
Tra il 1601 e il 1604 fu giudice del tribunale del Concistoro; nel frattempo il viceré Gómez Suárez de Figueroa, duca di Feria, lo nominò membro stabile del Sacro Regio Consiglio e gli affidò l’incarico di protettore del Banco Balsamo. Nello stesso periodo compose le additiones all’indulto generale concesso da Filippo III per le sue nozze il 1° ott. 1600 (Palermo 1604) in cui affrontò la materia del diritto criminale sub specie delle competenze del foro baronale in rapporto con la giurisdizione regia, con ampi stralci in lingua originale dai Commentaria ad Consuetudines Ducatus Burgundiae di B. Chasseneux. Ebbe a modello il commento di G. Claro sull’indulto generale di Filippo II concesso in occasione della pace di Cateau Cambrésis (1559) e l’analisi di V. De Franchis, S. Rovito, De Ponte alle prammatiche relative all’analogo provvedimento per la vittoria di Lepanto del 1572.
Nel 1606 pubblicò a Palermo le prime 100 Decisiones Consistorii S.R. Conscientiae Regni Siciliae, relative agli anni 1599-1601, cui aggiunse il Consilium unicum a favore della madre. Il secondo volume, contenente altre 100 sentenze del periodo 1604-08, fu impresso nel 1609 sempre a Palermo. Il terzo, con i primi due e ulteriori 100 sentenze (ibid. 1621), fu aggiornato dal M. con la giurisprudenza dei tribunali del Regno fino al dicembre 1619 e pubblicato postumo così come il quarto (Palermo-Venezia 1624), recante solo 10 sentenze in aggiunta agli altri tre volumi.
La raccolta di Decisiones del Concistoro del 1606 fu la prima a vedere la luce in Sicilia. Genere letterario ormai affermato a Napoli sin dal tempo di D’Afflitto, in Sicilia la decisionistica registrava solo le recenti Auree decisiones della Regia Gran Corte di F. Milanese e di N. Intrigliolo: né in avvenire, salvo nobili eccezioni, avrebbe avuto pari fortuna. Per contro, il ceto togato napoletano, forte di una secolare tradizione che guardava al modello francese come paradigma istituzionale da emulare nella dialettica sovrano-apparati, dopo aver estromesso i baroni dalle grandi magistrature e consolidato il proprio ruolo politico di elemento mediatore, aveva puntato, con uno stylus costante, a conferire al precedente giudiziale una forza equivalente a quella della legge, sia pure nel rispetto formale della gerarchia delle fonti. L’autorevolezza dell’estensore e l’autorità del Sacro Regio Consiglio accreditavano alla decisio un valore teoretico intrinseco – che il puntuale richiamo alla ratio esaltava – e al contempo assicuravano ai ministri togati il pieno controllo della prassi.
Il M. non ignorava che analoghi tentativi, sotto il profilo del modello istituzionale e della normatività delle sentenze, in Sicilia erano sistematicamente falliti; e tuttavia, mentre affermava il carattere provvidenziale della funzione magistratuale, esaminava gli styli delle grandi corti italiane e le raccolte degli arrêtistes e sottolineava il valore dell’omogeneità dei giudici delle corti ai fini della certezza del diritto. Era pertanto un’opzione politico-culturale tanto la proposta in Sicilia di una raccolta di decisiones, quanto l’esaltazione dell’attività giurisprudenziale, non scientia né ars ma «virtus, prudentiae pars» (Decisiones, 1606, indirizzo al lettore di P. Corsetto).
Nel 1607 fu nominato giudice della Gran Corte nella sala criminale (con P. Corsetto nella sala civile), piazza che tenne fino al 1619, salvo l’annuale vacatio durante la quale esercitò l’avvocatura. Dal 1605 operava in Sicilia il visitatore generale O. de Luyando e il M. fu accusato di negligenza in atti d’ufficio per non aver patrocinato con il dovuto zelo gli interessi del Regio Fisco.
Egli addusse a suo discarico una tesi in cui ribadiva l’orientamento garantista, già manifestato nelle Decisiones, secondo cui il Fisco, per il principio dell’utilitas Fisci, era in partenza avvantaggiato rispetto all’altro litigante, e fu condannato alla modesta somma di 300 scudi, essendo l’amico Corsetto l’avvocato fiscale di Luyando. Fu un trascurabile incidente di percorso, poiché in seguito i viceré gli affidarono numerosi incarichi in varie città del Regno. L’episodio tuttavia lo convinse ad avversare il rito sommario, il «secreto modo» di procedere del visitatore, la prassi di notificare agli inquisiti le accuse e non i nomi degli accusatori, l’inappellabilità delle sentenze emesse dalla Giunta delle visite a Madrid in assenza dei difensori, poiché rilevava nel procedimento principî contrari al diritto naturale e anomalie rispetto all’istituto del sindacato, strumento ordinario di controllo.
Dal 1608 il M. fu più volte in Parlamento nel braccio militare in rappresentanza della madre, appena investita del titolo di marchesa di Tortorici da Filippo III. L’esperienza lo deluse non poco e ne ricavò la certezza che quella sede, anziché promuovere il bene pubblico e il servizio del re, fosse teatro di dispute di scarso rilievo o volte al privato interesse. Il Parlamento di quell’anno fu comunque il primo di una serie di adunanze in cui assisté alla riproposta del tentativo della Corona d’introdurre ministri spagnoli nella presidenza dei tribunali centrali del Regno al fine di assicurare un più efficace sistema accentratore. Il M., come gran parte del braccio militare, fu tenace assertore del privilegio della nazionalità e insinuò che il progetto fosse caldeggiato da alcuni nobili più per odio di parte che per reale utilità, lasciando intravedere un conflitto tra fazioni. La proposta del Parlamento del 1615, poi non realizzata, di istituire un Collaterale siciliano analogo a quello napoletano nei poteri e nelle funzioni, ma composto da togati e baroni anziché da soli tecnici, sembrava invece dar voce all’auspicio più volte manifestato nei suoi scritti.
Nel 1616, mentre era giudice della Gran Corte criminale, diede alle stampe, a Palermo, il De magistratibus, eorum imperio et iurisdictione tractatus, opera a cui lavorò per oltre quattro anni e che dedicò a Filippo III. Aggiunse un Consilium di B. Joppolo, composto nel 1606 a favore della madre a seguito di un nuovo ricorso intentato dai sindaci di Tortorici avverso l’infeudazione del loro territorio, e in appendice le additiones all’indulto del 1600, corredate delle decisioni della Gran Corte cui aveva partecipato fino al 1613.
Il trattato, che tra XVIII e XIX secolo avrebbe subito le severe e prevedibili critiche metodologiche di Gregorio e di La Mantia, ma che per essere il primo – e per molti anni l’unico – del genere in Sicilia avrebbe costituito una fonte ineludibile per la cognizione delle magistrature isolane, ebbe immediata fortuna. L’argomento, di gusto umanistico, era anch’esso un genere letterario da tempo patrimonio intellettuale dei giurisperiti napoletani. Nei primi cinque capitoli, l’opera si articolava secondo lo schema del trattato politico consolidato da D’Afflitto, M.A. Sorgente, S. Capece, G.B. De Leonardis: la potestà sovrana di creare magistrati, la loro origine, le qualità, le prerogative, la giurisdizione dei principi, dei baroni, dei magistrati. Un sesto capitolo era dedicato all’istituto del sindacato, preferito per più aspetti a quello straordinario della visita, tanto più che una prammatica del viceré Marcantonio Colonna aveva assegnato ai magistrati isolani la responsabilità del reciproco controllo sull’attività svolta. Nel delineare gli aspetti deontologici della funzione magistratuale e nell’affermare la sacralità di tale funzione con il suo corollario, il principio dell’irresponsabilità, il M. puntava a individuare nuovi limiti alla potestà viceregia, tratto comune agli analoghi scritti dei napoletani, seppure con diversa visione politica degli equilibri di potere. L’aspetto peculiare dell’opera stava piuttosto nella capacità del M., tramite fra le culture dei due Regni citra e ultra pharum, sostenitore del baronaggio e magistrato, di cogliere più di altri la diseguale forza politica dei rispettivi tribunali, delle magistrature e del ceto che li esprimeva. Dell’inapplicabilità alla Sicilia del modello napoletano, egli riteneva primo responsabile il capitolo Volentes, con cui Federico III aveva concesso nel 1296 ai baroni isolani la dispensa dall’assenso regio nell’alienazione dei feudi rendendo di fatto autonoma dal potere sovrano la nobiltà di spada (specie dopo la vendita generalizzata del mero e misto imperio nel 1610) e fondata su diversi presupposti la mediazione ministeriale. A Napoli, egli ricordava, era in vigore la prammatica di Carlo V detta «delli nove capi» del 17 ott. 1531, che aveva abrogato la Recognoscimus e concedeva la potestà di assenso al viceré pro tempore e al Collaterale salvo in nove casi riservati al sovrano. Di qui la centralità che egli assegnava all’ordinamento feudale e alla giurisdizione baronale, al punto da progettare un saggio su quel capitolo, il che forse fu il motivo della rapida circolazione delle sue opere nella Germania dei Länder. Egli ricorreva ancora agli scritti degli Ultramontani (U. Zasio, J. Cuacio, C. Seyssel, P. Grégoire, J. Bodin e, su tutti, H. Vulteio), specie quelli di argomento feudale, che gli fornivano il canone ermeneutico per riflettere sull’essenza della sovranità in termini ben concreti. Nell’assimilare i consiglieri regi ai senatori romani, il M. non rinunciava peraltro a esibire l’erudizione elegante, che era anche ideale etico, di A. Manuzio e di G. Lipsio.
Negli anni successivi fu nuovamente giudice della Gran Corte criminale e con i colleghi M. Muta e G.F. Del Castillo, autori anch’essi di raccolte di decisiones, auspicò che in Sicilia si introducesse il criterio della vis legis per le sentenze, con largo uso di citazioni incrociate e una dichiarata tensione all’uniformità.
L’estrazione feudale ex parte matris, comune alla maggior parte dei magistrati siciliani del tempo, la qualità di forista e di consultore del S. Uffizio gli imposero una visione aristocratica della società siciliana nella quale lo status di togato e di barone dovessero non contrapporsi ma convivere con reciproco vantaggio. Fu invece tenace assertore della necessità di limitare la competenza del foro ecclesiastico nel temporale sulla scorta degli anticurialisti spagnoli, francesi e napoletani, ritenendo più efficace al buon andamento della giustizia il «gladio ultore» delle corti civili piuttosto che la pietas dei tribunali ecclesiastici.
Il M. morì a Palermo il 20 dic. 1620, quando ricopriva l’officio perpetuo di avvocato fiscale della Gran Corte, e fu sepolto nella chiesa domenicana di S. Cita.
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