LANCIA (Lanza), Galvano
Nipote ex fratre, piuttosto che figlio (come sostengono alcuni), di Manfredi (II) Lancia, marchese di Busca; certo figlio di una Beatrice, signora di Paternò, della quale si ignora la famiglia di provenienza; fratello maggiore di Federico, nacque prima del 1220, non è possibile dire se in Piemonte o nell'Italia meridionale. Era sicuramente già adulto nel 1240, allorché Federico II di Svevia ordinò ripetutamente al giustiziere di Sicilia "citra flumen Salsum" di retribuire con 9 once d'oro una prestazione militare da lui effettuata con 7 cavalli.
Nell'aprile 1242 l'imperatore lo destinò a ricoprire la carica di podestà di Padova, cui era congiunto il vicariato dell'Impero dal fiume Oglio sino a Trento e per tutta la Marca trevigiana. Egli assunse l'incarico l'11 luglio e lo conservò sino al febbraio 1244, ma sembra che per tutto questo periodo la sua presenza fosse sostanzialmente servita da copertura ufficiale per Ezzelino da Romano, che deteneva di fatto il potere. Ezzelino aveva sposato in terze nozze Isolda (Isotta), sorella (o forse cugina) del Lancia.
Il L. presiedette l'11 nov. 1243 il Consiglio generale di Padova nel quale vennero assegnati a nuovi proprietari i beni confiscati ai traditori della parte imperiale. Nel febbraio 1244 Ezzelino, dopo avere ripudiato Isolda, rimosse il L. dalla carica e lo sostituì con persona di propria fiducia obbligandolo a restituire una notevole somma di denaro che diceva sottratta abusivamente alle casse del Comune: se questo non fu un semplice pretesto, si dimostrerebbe che la tendenza a una certa rapacità contraddistingueva il L. sin dalla giovinezza.
Lo ritroviamo nell'agosto 1249 al servizio dell'Impero in veste di vicario generale da Amelia a Corneto e nel comitato aldobrandesco e per tutta la Maremma; in tale veste nel dicembre 1250 egli si mostrò pronto ad approfittare della situazione per favorire Manfredi di Svevia nella acquisizione del Regno di Sicilia.
Il 31 dic. 1250, pur essendo certamente già al corrente della morte di Federico II, avvenuta il 13 dicembre, ordinò di annettere il comitato aldobrandesco a Siena e di tutelarlo a nome dell'imperatore e di suo figlio Manfredi, e in modo analogo agì il 27 gennaio successivo nei riguardi di Orvieto, evidentemente nell'intento di stabilire le basi per un futuro dominio di Manfredi nell'Italia centrale.
Fallita per il momento tale iniziativa, il L. fu chiamato da Manfredi, che agiva in quanto reggente e "balio" del fratellastro Corrado IV, circondandosi dei suoi parenti e affini di parte materna; da allora il L. sarà il primo fra tutti costoro diventando il più ascoltato dei consiglieri e impegnando ogni sua risorsa nel tentativo di assicurare a Manfredi il trono di Sicilia, mentre l'erede designato era ancora lontano. A tale scopo sin dal luglio 1251 (in accordo con Bertoldo di Hohenburg, tutore di Manfredi e imparentato con il L. attraverso il matrimonio con Isolda) entrò in trattative con Innocenzo IV proponendo di separare il Regno di Sicilia dall'Impero, ma per l'intransigenza del papa ogni accordo fallì.
Corrado IV, giunto in Italia nel gennaio 1252, si propose immediatamente di ridimensionare il ruolo assunto da Manfredi nella politica meridionale (Pispisa, 1991, p. 226) decretando l'espulsione del L., del fratello Federico e di tutti gli altri "consanguinei e affini" del fratellastro, mentre parallelamente in Lombardia sostituì Manfredi Lancia con Oberto Pelavicino. I parenti materni di Manfredi nel 1253 furono così costretti a rifugiarsi presso la corte dell'imperatore di Nicea Giovanni Ducas Vataze che aveva sposato Costanza sorella di Manfredi, ma Corrado IV provvide a farli scacciare anche di là; solo dopo la sua scomparsa (maggio 1254) essi poterono tornare a occupare i loro posti. Da questo momento il L., con la sua abilità di fine diplomatico e una grande capacità di sfruttare ogni favorevole occasione, divenne l'anima stessa delle decisioni politiche di Manfredi per il raggiungimento del potere e per l'elaborazione degli strumenti di governo.
Il pontefice accettò nuovamente di trattare con lo Svevo ad Anagni nel luglio 1254, ma non si giunse nemmeno allora a un accordo. Il L. non tralasciò di rimproverare a Bertoldo di Hohenburg di avere abbandonato il suo pupillo per attendere unicamente ai propri interessi in un momento in cui il Regno era minacciato dagli eserciti papali. In settembre il L., inviato ad Anagni come ambasciatore, mostrò la sua abilità di mediatore ottenendo dal pontefice la remissione delle colpe per Manfredi, per se stesso e per suo fratello Federico, nonché la conferma dei feudi calabresi e siciliani dei quali era stata investita sua madre, e la liberazione dall'interdetto cui era stato in precedenza sottoposto.
Gli avvenimenti precipitarono dopo il 18 ottobre, in seguito all'uccisione di Borrello di Anglona da parte dei fedeli di Manfredi: questi fu costretto a rifugiarsi ad Acerra e pochi giorni dopo inviò il L. e Riccardo Filangieri a Capua, con l'incarico di scagionarlo. Essi trattarono direttamente con il papa provocando la dura reazione di Bertoldo di Hohenburg che si vide scavalcato dalla loro iniziativa. Nel corso delle infruttuose trattative il L. fece giungere a Manfredi, insieme con la notizia del loro fallimento, l'invito a eseguire rapidamente il piano che era stato fra loro concordato: mentre egli rimaneva presso il papa per non destare sospetti, Manfredi, mediante un'accorta e pericolosa marcia notturna, si rifugiò a Lucera dove si trovavano il tesoro del Regno e le fedeli truppe saracene, risollevando così le sue sorti.
Allontanatosi in tempo dalla corte papale, il L. si rifugiò dapprima nella propria terra di Tolve, presso Potenza, e raggiunse in seguito Manfredi. Approfittando anche dello sconcerto provocato dall'improvvisa morte di Innocenzo IV, avvenuta a Napoli il 7 dic. 1254, si diede inizio alle operazioni per la riconquista militare del Regno. I saraceni di Lucera uccisero il traditore Giovanni Moro ad Acerenza e consegnarono questa città al Lancia. Nel gennaio, a Venosa, Manfredi rimise gli affari di guerra al L. che prese di forza la città di Rapolla e uccise i ribelli ivi rifugiati: l'esempio convinse alla resa anche Melfi, Trani e Bari, così che, prima il giustizierato che faceva capo a questa città e poi l'intera Puglia vennero all'obbedienza di Manfredi.
In seguito il L. ottenne da Manfredi il dominio di Rapolla, Moro, Calvello, Acerenza e Montalbano Ionico, nonché la contea di Butera in Sicilia e la restituzione di Paternò e di San Filippo di Argirò, che gli spettavano da parte di sua madre. Sbarcato nell'isola per prendere possesso dei feudi, ciò gli venne impedito da Pietro Ruffo, vicario in Sicilia, nominato a suo tempo da Manfredi, ma che ora, legatosi al papa, disattendeva i suoi ordini; egli sollevò contro il L. gli abitanti dei luoghi e istigò alla ribellione anche il popolo di Messina, costringendolo a ritornare sul continente a mani vuote.
Il 25 marzo 1255 il nuovo papa Alessandro IV minacciò il L. e il fratello Federico di scomunica, della privazione dei beni e di interdetto sui luoghi governati, se non avessero abbandonato il servizio di Manfredi. Questi, tra aprile e maggio, stava assediando Oria, mentre la Puglia era minacciata da un esercito papale; lasciò quindi al L. la condotta delle operazioni e il presidio di Melfi: molte città erano ancora ribelli, ma si intravedeva ormai come prossima la definitiva presa di possesso del Regno. Nell'autunno di quell'anno Manfredi, ammalato a San Gervasio, scriveva al L. confessando il suo timore di morire, ma poi, guarito, il 2 febbr. 1256 riunì a Barletta una solenne assemblea generale nella quale intendeva punire i nemici e premiare amici e sostenitori.
In quell'occasione vennero attribuite al L. le cariche di conte del Principato di Salerno, di grande maresciallo e capitano generale del Regno; altri importanti incarichi toccarono, oltre che a suo fratello Federico, anche ai "lombardi" che servivano Manfredi: Giordano di Agliano divenne coppiere e Bartolomeo Semplice gran siniscalco. Si trattava, in realtà, non solo di gratificare persone utili, ma di gettare le fondamenta di un nuovo corso politico che favoriva un certo decentramento del potere.
Nello stesso anno il L. ottenne da Manfredi anche la signoria del castello di Ocre, presso L'Aquila, fatto che è forse da collegare con il suo nuovo matrimonio. Rimasto probabilmente vedovo della prima moglie Gerolama Fieschi (Lancia, p. 61) il L., nel quadro di una politica matrimoniale che cercava di cementare i rapporti fra i maggiorenti del Regno, sposò Margherita di Ocre, appartenente alla famiglia di Gualtieri, cancelliere del Regno. Dalla prima moglie sarebbero nati Beatrice, andata sposa a Corrado d'Antiochia poco dopo l'incoronazione di Manfredi (1258), e forse anche Federico, Enrico e Galvano, dei quali parla Bartolomeo da Neocastro. Furono invece certamente figli della seconda moglie Galeotto e Costanza, dei quali, in un tempo di poco anteriore alla caduta di Manfredi (1266), vennero concordate le nozze rispettivamente con Cubitosa e Adenolfo, figli di Tommaso di Aquino conte di Acerra: le rispettive promesse spose erano certo ancora giovanissime poiché, in attesa del matrimonio, furono scambiate tra le due famiglie.
Il 3 febbr. 1257 il L., sedendo a Napoli come gran maresciallo del Regno e giudice, faceva restituire a nome di Manfredi certe terre a S. Maria dei cavalieri teutonici e attribuiva a essi altri beni in Canne. Nel settembre dello stesso anno sottoscrisse a San Gervasio l'importante privilegio con il quale Manfredi confermava i patti con Venezia; è in quell'occasione che risultano presenti con lui, quasi come in un "ritratto di famiglia" (Pispisa, 1991, p. 36), altri parenti e collaboratori del re. Il monastero di Cava ha conservato documenti nei quali gli anni sono conteggiati dal dominio del L. come conte del Principato di Salerno, il cui quinto anno cadeva nel 1260.
In questo periodo il L. consolidò la sua già importante condizione di grande signore del Regno soprattutto mediante acquisti forzosi ed espropri. In Messina e nei dintorni egli ebbe il fondo di Blava presso San Pier Niceto e in città una grande casa fatta edificare da Pietro Ruffo; in Terra di Lavoro e presso Salerno ottenne possessi a Giffoni, Conturri, Oletta (dove usurpò i diritti del monastero di Cava), Quaglietta, presso Avellino e Santa Cecilia, presso Eboli; in Basilicata dominò su Tolve, Rapolla, Muro Lucano, Montalbano Ionico e Acerenza nonché su Monticchio, tolto al monastero di S. Michele al Vulture. Egli contravvenne così in più di un caso alla politica di favore che Manfredi svolse nei confronti degli enti religiosi. Con i suoi possessi e le sue cariche il L. aveva di fatto creato un vero e proprio potere parallelo a quello regio, che all'occasione avrebbe potuto svuotare dei suoi contenuti (ibid., p. 47).
Nell'estate 1262 Corrado d'Antiochia, genero del L. e vicario nelle Marche per Manfredi, fu sconfitto dalle truppe papali e costretto a rifugiarsi nel castello di Montecchio dove venne imprigionato dagli abitanti passati all'obbedienza del papa; il L. intervenne con grandi forze per liberarlo, ma l'assedio fallì e, con il sopravvenire dell'inverno, fu costretto a ritirarsi. Il prigioniero riuscì nondimeno a evadere di propria iniziativa. Nell'aprile 1259 Alessandro IV aveva confermato l'interdetto contro il L. e suo fratello Federico, provvedimento che fu però mitigato nel gennaio 1264.
Secondo Saba Malaspina e altri cronisti, Manfredi nel febbraio 1266, prima della battaglia di Benevento, fu assistito dai suoi conti "lombardi" fra i quali si trovava il L., che ebbe poi il comando della prima schiera composta da cavalieri tedeschi, mentre a Giordano d'Agliano fu affidata la seconda, costituita dai ghibellini lombardi e toscani. Il re di Sicilia Carlo I d'Angiò, il 27 febbr. 1266, annunciando da Benevento la vittoria a papa Clemente IV, non aveva notizie sicure circa il L.: poteva essere caduto in battaglia, prigioniero o in fuga. Una lettera del papa dell'8 marzo successivo dà il L. ancora tra i caduti, ma da altre lettere del 22 e 25 marzo si apprende che egli si era invece messo in salvo in Abruzzo con Corrado d'Antiochia. Vi è quindi chi ha messo in dubbio la sua effettiva partecipazione al fatto d'armi di Benevento: secondo altre versioni egli e il figlio Galeotto sarebbero stati dapprima catturati e condannati e poi, in luglio, lasciati fuggire nella Marca.
Molto probabilmente nel novembre 1266 il L. e altri esuli siciliani e ghibellini toscani si recarono a sollecitare Corradino, ultimo degli Svevi, che era allora a Innsbruck, perché scendesse rapidamente in Italia a rivendicare il Regno di Sicilia, promettendogli il loro appoggio politico e finanziario.
Certo nel dicembre 1266 il pontefice scrisse a Carlo I d'Angiò raccomandando il L. e suo fratello Federico: essi - diceva - dopo essere stati assediati in Calabria erano giunti su una nave con bandiera angioina a Terracina e avevano dichiarato al maresciallo del re in quella città di essere disposti a far atto di sottomissione. Essi, forse solo per guadagnare tempo, chiesero di potersi presentare al papa a Viterbo e di essere sciolti dalla scomunica; questi rifiutò di riceverli, ma il 27 genn. 1267 incaricò il vescovo di Terracina di assolvere i due postulanti a condizione che promettessero di uscire entro 10 giorni dalle terre della Chiesa, andando a combattere a loro spese in Terrasanta per un anno con 12 cavalieri e 30 balestrieri; il vescovo eseguì tale ordine con una lettera del 5 febbraio. I due fratelli, invece, raggiunsero i ghibellini di Toscana.
Nella primavera 1267 Corradino designò i futuri dignitari del Regno ancora da conquistare, e fra essi il L. ricevette la carica di primo consigliere.
L'8 sett. 1267 Corradino partì da Augusta con il suo esercito verso l'Italia e inviò a Roma il L. che vi giunse il 12 ottobre e fu accolto entusiasticamente assicurandosi il concorso del senatore Enrico di Castiglia e l'alleanza del popolo romano. Il 18 ottobre il L. era intento ad arruolare truppe sotto la bandiera di Corradino; il 21 ottobre Clemente IV, da Viterbo, ordinò che il L. venisse citato davanti al tribunale e lo chiamava "damnationis filius"; con altri provvedimenti del 16 novembre e del 19 dicembre tornava a rimproverare aspramente il L. che, insieme con altri maggiorenti guadagnati alla causa sveva, organizzava un esercito per passare all'azione contro Carlo I d'Angiò.
Il 25 genn. 1268 il papa denunciò al re di Sicilia contatti fra il L. e i Tedeschi che erano ormai giunti a Siena e con solenni provvedimenti del 5 aprile e del 17 maggio Clemente IV colpì con la scomunica, insieme con Corradino e i suoi fautori, anche il L. e suo fratello Federico. Nei mesi successivi, sempre da Roma, il L. coordinava insieme con Corrado d'Antiochia e altri gli aiuti che provenivano da più parti intrattenendo, pare, anche rapporti con la Sicilia.
Dopo avere sconfitto il 25 luglio le forze guelfe presso il ponte sull'Arno vicino a Laterina, Corradino giunse a Roma e il 18 agosto lasciò la città con il L., diretto verso Sud, andando incontro alla sconfitta di Tagliacozzo, avvenuta il 23 agosto. Le fonti non consentono di sapere se il L. abbia partecipato di persona al combattimento; solo dopo la rotta egli viene segnalato presso Vicovaro, in fuga con il figlio Galeotto e lo stesso Corradino e una scorta di 500 cavalieri, diretto verso Roma, dove giunse il 28 agosto.
Accolti ostilmente nella città, essi non riuscirono a mantenervisi e due giorni dopo furono costretti a uscire di notte per rifugiarsi nel castello di Saracinesco, tenuto da Beatrice, moglie di Corrado d'Antiochia. Lasciate ivi le loro famiglie, i fuggiaschi si diressero il 7 settembre verso il porto di Astura, sulla costa tirrenica, dove noleggiarono una nave forse con l'intenzione di raggiungere la Sicilia, ma caddero nelle mani di Giovanni Frangipane, signore del luogo, che li condusse in catene a Nettuno, affidandoli poi a Giovanni Colonna il quale li accompagnò nel castello di San Pietro presso Palestrina e li consegnò all'ammiraglio angioino Roberto di Laveno, ivi accorso alla notizia della cattura.
Carlo I d'Angiò fece portare i prigionieri in sua presenza a Genazzano: rifiutando i lauti riscatti che essi offrivano per le loro vite e senza alcun processo (in quanto si trattava di persone ufficialmente già condannate), fra il 12 e il 13 sett. 1268 fece decapitare prima il figlio Galeotto e poi il L. stesso. Al supplizio seguirono la proscrizione dei familiari e la confisca dei beni.
Se il cronista filosvevo Nicolò de Jamsilla non perde occasione per celebrare le virtù del L., che egli dice "corde purus et ore moderatus", astuto e discreto, prudente e valoroso, tanto che Manfredi non poteva fare a meno dei suoi consigli, per il filopapale Saba Malaspina egli era invece superbo, avido e unicamente inteso ad arricchirsi spogliando gli altri delle loro ricchezze; due aspetti fortemente antitetici, ma forse complementari della sua ricca personalità.
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