Della Volpe, Galvano
Filosofo, nato a Imola il 24 settembre 1895 e morto a Roma il 13 luglio 1968. Il suo apporto a una riflessione teorico-critica sul cinema si rintraccia tanto nel suo contributo a un pensiero di stampo neomarxista, quanto in un originale percorso lungo l'asse di un'estetica filosofica in cui il cinema è visto nella sua specificità e autonomia d'arte. Laureatosi a Bologna, tenne la cattedra di Storia della filosofia presso la facoltà di Magistero dell'Università di Messina dal 1939 al 1965. Opponendosi a tutte le forme idealistiche di matrice hegeliana dedicò i suoi primi scritti filosofici a D. Hume (La filosofia dell'esperienza di David Hume, 2 voll., 1933-1935). Giunto al marxismo attraverso un cammino solitario e per una esperienza di cultura assolutamente originale, D. V. sviluppò la sua ricerca essenzialmente in tre direzioni: quella logico-filosofica, culminata nella Logica come scienza positiva (1950), quella critico-estetica, la cui espressione più alta è la Critica del gusto (1960) e quella di teoria politica, di cui Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica (1957) rappresenta il momento più significativo. Negli stessi anni D. V. affrontò i problemi dell'estetica cinematografica con scritti su "Rivista del cinema italiano" (diretta da Luigi Chiarini) e soprattutto su "Filmcritica" (diretta da Edoardo Bruno) di cui contribuì a formare l'asse teorico. Dalla raccolta di questi saggi nacque Il verosimile filmico e altri scritti di estetica (1954) ove, esaminando la questione dell'intellettualità dell'arte ovvero del suo valore conoscitivo, semanticamente differenziato dal valore conoscitivo della storia e della scienza in genere, D. V. si riferisce all'opera d'arte, e in particolare al film, come pensiero (razionalità, verità). Questo considerare l'arte come evento di pensiero, pur nella prospettiva estetica, introduce, nello sforzo ermeneutico, un elemento di ricerca della verità che non si esaurisce nel dettato poetico ma proprio nel penetrare il significato ontologico. Il che conferisce all'opera un'autonoma qualità di soggetto in sé. Questo rigoroso indirizzo teorico e di metodo, che ha come suo fine quello di inerire al modo stesso di guardare il film e di essere militanti nel vero e proprio senso della parola, spinse D. V. a non lasciarsi irretire in quel contenuto volgare, da lui definito "cascami del Neorealismo", e a disporsi a una lettura non contenutistica, che tenesse conto anche dei frammenti di valore meramente antologico (e cita, a questo proposito, la scena del ricevimento in casa del bidonista in Il bidone, 1955, e la processione del Divino Amore in Le notti di Cabiria, 1957, entrambi di Federico Fellini, alcune scene d'amore in L'uomo di paglia, 1958, di Pietro Germi e la scena del rock and roll in Le notti bianche, 1957, di Luchino Visconti). In fondo, la tendenza alle schegge, propria della giovane critica contemporanea, a individuare la parte per il tutto, può farsi risalire a questa intuizione di scoperta del particolare, del momento che determina la struttura, al di là del significato apparente. Il che naturalmente non indusse D. V. a trascurare l'indagine, il gusto, la struttura materiale, il significato traslato di opere considerate nel loro complesso, come nel caso di Biruma no tategoto (1956; L'arpa birmana) di Ichikawa Kon, Paths of glory (1957; Orizzonti di gloria) di Stanley Kubrick e altre, nelle quali "le bellezze particolari non hanno un valore (estetico) meramente antologico ma sono potenziate e definite e però sono trascese dalla bellezza significante dell'assieme" (Situazione 58, in "Filmcritica", 1958, 78-79, pp. 131-32). Mai strettamente normativa, mai diretta a tendere una rete di lacci interpretativi, la lezione di D. V. guarda alla creatività come all'elemento essenziale, come allo sconvolgimento di ogni schematismo. Nelle sue pagine teoriche, il cinema e la poesia in genere appaiono come modi di potenziamento del senso di realtà, anche nella componente dello statuto sociale, come materializzazione cioè di una realtà più vera di quella risultante dalla semplice percezione del reale; l'arte condensa, appunto, pensiero ed emozione, e si rivela così in grado di inseguire una "possibile fantasticazione" nella serie di costruzioni metaforiche che identificano il concetto dell'interpretazione, con la sottolineatura del valore polisenso della parola e dell'immagine. Muovendo, nel contempo, dai "presupposti più generali, filosofici" della poetica aristotelica e dalla più spregiudicata, in chiave antiromantica, "riconsiderazione e rivalutazione diretta delle più tipiche istanze estetiche dei maggiori commenti umanistici della prima poetica antiplatonica per eccellenza" (Poetica del Cinquecento, 1954, pp. 13-51), D. V., mutuando il concetto anche da G.E. Lessing, definisce la poesia più vera della storia e il pensiero più vero dell'esistente. Partendo dal postulato aristotelico per cui "riguardo alle esigenze della poesia bisogna tenere presente che cosa impossibile ma credibile è sempre da preferire a cosa incredibile anche se possibile" (pp. 22-23), introduce il concetto di verosimile filmico come fantastico possibile, come invenzione. Invenzione attraverso il recupero delle caratteristiche tecniche/semantiche e, quindi, delle specifiche peculiarità del film con le quali ricomporne il carattere discorsivo e intellettuale. D. V. ritiene che quanto più l'immagine è impregnata di senso tanto più è icastica, ovvero può definirsi immagine. E ciò vale sia per l'immagine letteraria, sia per quella fotografica, sia per quella filmica, in quanto la sistemazione di D. V. comprende tutte le forme di arte in vista della particolare incidenza gnoseologica della specificità delle tecniche. Nella Critica del gusto, D. V. giudica perdenti i tentativi di articolare una retorica dell'immagine attraverso trasposizioni, più o meno mediate, da un campo di ricerca, in questo caso quello linguistico, ad altri. Ma anche quando, negli ultimi anni Sessanta, veniva data al problema una pertinenza maggiore, proprio perché l'esigenza di un'operazione linguistica applicata al cinema (e alla critica filmica) sembrava preminente, D. V. in controcorrente, sulla base di un primato dell'interpretazione e quindi della necessità di identificare il senso nella forma, ribadiva che il problema doveva essere affrontato non tanto sul piano di una scelta di analisi testuale, quanto piuttosto su quello di una scelta filosofica complessiva e quindi anche estetica. Spetta all'estetica, infatti, riannodare il patto originario del sensibile e del senziente da cui affiora, a filo della percezione, il pensiero. Nella Critica dell'ideologia contemporanea (1967), nell'affrontare la questione del giudizio valutativo D. V. così traccia lo schema di parafrasi valutativa in cui identifica, appunto, la critica: valore poetico come categoria semantica e polisenso come senso in più. E conseguentemente il tramutarsi della 'lingua' in 'stile' implica un pensiero dell'opera stessa che si costituisce come un nuovo soggetto, un'alterità tecnico-formale capace di parlare al fruitore, e di interagire con lui in una forma di reciproca interrogazione. Considerare dunque l'opera come un qualcosa che significa oltre le intenzioni, dichiarate o espresse, dell'autore, tramite quello che D. V. chiama significato aggiunto, vuole dire sottolineare la capacità dell'opera di essere soggetto, di avere, cioè una sua capacità autonoma di riflessione e pensiero. L'esigenza di razionalità, molto sentita nell'estetica novecentesca, e già ribadita nelle pagine dedicate da D. V. a Vsevolod I. Pudovkin a proposito del montaggio, inteso come messa in ordine e tramite di pensiero in relazione alla struttura del film, consegue dalla aristotelica coerenza poetica che non esclude, sotto il profilo dell'intellettualità, la coerenza fantastica. Anche la metafora è per D. V. intellettualità, nesso, genere, concetto. L'insistenza dell'elemento concettuale e conoscitivo conferisce alla metafora il significato poetico ossia il suo valore polisenso di simbolo estetico, determinando così la conquista dell'autonomia e della positività dell'arte.
B. Accarino, Galvano Della Volpe, Bari 1977.
M. Modica, L'estetica di Galvano Della Volpe, Roma 1978.
L. De Castris, Croce, Lukács, Della Volpe. Estetica ed egemonia nella cultura del Novecento, Bari 1978.
E. Bruno, Galvano Della Volpe, Roma 1983.