Galilei, Galileo
Galileo Galilei nacque nel 1564 a Pisa, dove trascorse l’infanzia fino al 1574 e dove tornò dopo sette anni di studio nel monastero di Santa Maria di Vallombrosa, per i corsi universitari (1581-1585) e per gli inizi dell’insegnamento sulla cattedra di matematica dello Studio (1588-1592). ll padre Vincenzo, raffinato musicista e musicologo, aveva studiato a Venezia e aveva viaggiato a lungo, in Italia e all’estero. Il lascito familiare più importante, per Galileo, fu quello di una competenza linguistica che gli permise di modulare la comunicazione a tutti i livelli, in tutti i registri, in tutte le funzioni comunicative, con una naturalezza che scrittori non toscani dovevano faticosamente procurarsi con esiti spesso approssimativi.
Nei molti anni di insegnamento allo Studio padovano (1592-1610), la frequentazione di ambienti linguisticamente diversi da quello nativo, e aperti a un’intensa circolazione peninsulare e europea, permise a Galileo di percepire e neutralizzare tratti idiomatici della lingua nativa; oppure di usarli come elementi marcati. Un confronto di lettere scritte da Galileo con altre scritte da suoi corrispondenti toscani (gentiluomini di corte, amici colti, artisti con educazione umanistica) consente di rilevare nei secondi espressioni o tratti popolari che Galileo di solito evita o accompagna con formule giustificative («riguardi verbali»; Migliorini 1948: 57) che lo riscattano dalla scelta nel momento stesso in cui ne sfrutta la carica espressiva («ma perché ho veduto che il signor Simplicio prende gusto di certe arguzie da chiappar (come si dice) il compagno, gli voglio domandare se [...] egli ha difficultà nessuna in intender che quello è il vero tiro a perpendicolo»; VII, p. 200; tutti i riferimenti sono al volume e alla pagina dell’edizione nazionale delle Opere di Galileo, diretta da A. Favaro).
Nel Cinquecento e Seicento, il latino era la lingua ufficiale della scienza, e tale rimase in Italia, al di là della vicenda galileiana, fino agli ultimi decenni del Settecento. La scienza aveva però risvolti applicativi che interessano i tecnici o «meccanici», come venivano complessivamente definiti gli ingegneri, gli architetti, gli esperti di fortificazioni, di balistica, di idraulica, i proti dell’arsenale veneziano, spesso consultati da Galileo e – sul versante delle scienze mediche – i medici empirici, i medici militari, i chirurghi, le levatrici, ecc. Si capisce dunque che, al di sotto della letteratura scientifica di livello alto che si esprimeva in latino, si sviluppasse una produzione libraria in volgare o che traduceva in volgare opere latine o scritte in latino.
Fu compito e merito di Galileo superare il solco che da secoli divideva il livello speculativo della scienza da quello operativo. Lo fece identificando prima di tutto il pubblico a cui avrebbe indirizzato le sue opere: la «republica litteraria», come si legge in una lettera del 9 ottobre 1623 a Federico Cesi (XIII, 135): non dunque i «meccanici», che non avrebbero potuto capire per la loro inadeguatezza culturale, ma neppure quei «filosofi» che non avrebbero voluto capire e che Galileo chiama «dottori di memoria» (VII, 139) perché capaci solo di ripetere ciò che hanno letto in Aristotele e in altri autori canonici. I destinatari ideali di Galileo sono invece gli «intendenti», quelli che sono «capaci di ragione, e desiderosi di saper il vero» (X, 503-504), meglio se autorevoli o potenti, ad «aiutare la bottega» (XIV, 387), ma non solo tali. A questi destinatari vanno subordinate tutte le scelte, a partire dal rifiuto del latino scientifico, irto di termini il cui significato è spesso equivoco o autoreferenziale.
La grande novità è dunque la scelta di un volgare ‘letterario’, ben diverso da quello già adottato nei secoli precedenti da autori completamente assorbiti da problemi pratici o settoriali. Galileo è insomma il primo che unisce al genio matematico e all’ampiezza di interessi la convinzione che un rinnovamento culturale profondo si può svolgere solo su un piano letterariamente elevato a cui possano largamente accedere, oltre agli esperti del settore, persone colte intellettualmente disponibili.
È una scelta a cui egli rimase sempre fedele, con l’eccezione del Sidereus Nuncius (1610), scritto in latino per annunciare al mondo la scoperta dei pianeti di Giove, a prevenire eventuali plagi. In una lettera del 1640 (due anni prima della morte) indirizzata al principe Leopoldo di Toscana lo scienziato critica coloro
che troppo laconicamente vorrebbero vedere, nei più angusti spazii che possibil fusse ristretti i filosofici insegnamenti, sì che sempre si usasse quella rigida e concisa maniera, spogliata di qualsivoglia vaghezza ed ornamento, che è propria dei puri geometri, li quali né pure una parola proferiscono che dalla assoluta necessità non sia loro suggerita (VIII, 491)
Galileo è quindi consapevole del fatto che, se avesse scritto in latino le sue opere o avesse «laconicamente» ristretto i suoi «filosofici insegnamenti» chiudendoli «nei più angusti spazii che possibil fusse» (per es., rinunciando al dialogo per il trattato), avrebbe evitato il processo, l’abiura, la segregazione nella casa di Arcetri. Ma conferma la sua scelta perché sa che «dietro ogni parola si nasconde un mondo»; e sa che chi pratica le parole «mette in moto dei mondi», «scatena forze polivalenti» (Böll 1979).
Galileo si vantava di aver risolto in tutta la sua vita una «mezza dozzina di problemi fisici», «però con fatica grande» (VII, 289): partendo dal «dubbio», ponendo «questioni» a sé stesso e ad altri, disputando, sciogliendo «nodi» (Magalotti 1719, lettera IX). Suo modello è il Socrate dei dialoghi platonici, teso verso una verità mai globalmente esplorata e mai totalmente posseduta. Per questo Galileo rifiuta il sistema e, con esso, forme sistematiche di scrittura.
Il trattato (Trattato della sfera, 1692; Trattato di fortificazione, 1593; trattato de Le mecaniche, 1593) è una formula didatticamente e applicativamente motivata del periodo padovano che Galileo, rientrato a Firenze come «matematico e filosofo» di Cosimo II (1610), abbandona per il discorso (Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, 1612; Discorso del flusso e reflusso del mare, 1616; Discorso delle comete, 1619): una parola che, oltre al significato di un intellettuale discurrere, ospita anche quello di un affabile parlare che sposta verso l’oralità una scrittura già insofferente di registri troppo formali.
Nel frattempo era cominciata la fase delle lettere (a Benedetto Castelli, 1613; a Piero Dini, 1615; a Cristina di Lorena, 1615). Anche Il saggiatore (1623) avrebbe dovuto essere una «semplice lettera»: una scrittura non finalizzata alla stampa, che, oltre a implicare un interlocutore, era anche protettiva del mittente, sottraendolo ai rigori della censura. Ma è proprio Il saggiatore l’anello di congiunzione con il dialogo perché – come Galileo stesso avverte – «le cose degne di esser notate» gli si erano così «moltiplicate tra le mani da costringerlo a «passar i termini di una lettera» (VI, 220). E infatti il destinatario romano, Virginio Cesarini, è continuamente evocato da Galileo, interpellato e introdotto in scena («Or vegga V.S. Illustrissima»; «Si figuri V.S. Illustrissima d’esser lungo la marina»), oppure è accoppiato morfologicamente a Galileo nella prima persona plurale del verbo («Più in basso incontreremo»; «Che diremo dell’altra fallacia»). Ma c’è anche un terzo personaggio, Lotario Sarsi (pseudonimo di Orazio Grassi), autore del libro che Galileo e Cesarini commentano: da principio compare come argomento del discorso, ma gradualmente si materializza, entra in scena, gesticola e Galileo lo fa parlare con astuzia ventriloqua («qui si leva su il Sarsi e dice “Tutto sta bene ma è fuor del caso nostro”»; «Il Sarsi si leva su, e con mente alterata, cerca di provare»), fino addirittura a rivolgergli la parola («Che fate, Sig. Sarsi?»; «Voi dunque, Sig. Sarsi, mi tassate come cattivo sperimentatore», ecc.).
Nel Saggiatore, dunque, compare già la triangolazione comunicativa del Dialogo sopra i massimi sistemi (1632): sono delineati i ruoli di Salviati (Galileo stesso), Sagredo (Cesarini), Simplicio (Sarsi). Insomma, Galileo è già pronto, nel 1623, a passare dalla pagina alla scena, cioè dalla lettera al dialogo, un genere letterario di nobile tradizione greco-latina, umanistica e rinascimentale. Gli basterà trovare lo spazio reale di un palazzo patrizio sul Canal Grande; immaginare un Simplicio che arrivi in gondola, subito avvistato da Salviati e Sagredo che lo attendono alla finestra; introdurre la scansione temporale delle quattro «giornate»; perfezionare l’orchestrazione sonora e ritmica del parlato.
Naturalmente il dialogo è anche un genere letterario ben più libero del trattato: non esige conclusioni dimostrative, consente digressioni, ammette l’introduzione di un personaggio curioso, portatore di dubbi e di ipotesi rischiose. Ma c’è una motivazione più profonda alla scelta del dialogo. Il metodo galileiano privilegia il momento della ricerca su quello della scoperta e ha quindi bisogno di interlocutori attivi e reattivi che gli forniscano stimoli intellettuali. Il dialogo è il genere che più valorizza il dibattito che precede le conclusioni e che andrebbe perduto in un trattato concepito come esposizione sistematica dei risultati raggiunti.
La sintassi di Galileo si rivela particolarmente interessante come versante linguistico dell’operatività mentale che organizza logicamente il pensiero. È evidente che là dove sono presenti più interlocutori si ha forte varietà di moduli sintattici, non solo in rapporto al diverso ruolo dei protagonisti, ma anche alle diverse circostanze in cui questi si trovano ad agire e a reagire.
L’incipit del Dialogo sopra i massimi sistemi, affidato a Salviati (VII, 33) è caratterizzato da un andamento sintattico ampio, calmo, dignitoso, fortemente ipotattico, in contrasto con il «velocissimo discorso» (VII, 472) del patrizio veneziano Giovan Francesco Sagredo e con gli interventi sconclusionati di Simplicio, seguace di Aristotele. Si notano in particolare la funzione equilibrante e gli effetti fonico-ritmici di ‘coppie’ di parole coordinate, a esprimere un solo concetto (endiadi) o ad associare significati complementari: «la conclusione e l’appuntamento», «distintamente e particolarmente», «per l’una parte e per l’altra», «quale e quanta», «la forza e l’energia», «la celeste e la elementare», «impassibile ed immortale», «alterabile e caduca».
Il «lento filosofare» continua finché Simplicio, offeso per una critica rivolta da Salviati ad Aristotele, lo interrompe con bordate interrogative che rivelano la sua elementarità sintattica e mentale:
Mancano le dimostrazioni bellissime nel 2°, 3° e 4° testo, doppo la definizione del continuo? Non avete, primieramente, che oltre alle tre dimensioni non ve n’è altra, perché il tre è ogni cosa, e ’l tre è per tutte le bande? e ciò non vien egli confermato con l’autorità e dottrina de i Pittagorici, che dicono che tutte le cose son determinate da tre, principio, mezo e fine, che è il numero del tutto? (VII, 34)
Salviati, quando riprende la parola, cambia stile e registro: all’andamento lento e pacato del filosofo segue il discorso rapido e incisivo di un antagonista ironico che utilizza la «sentenza» come severa stoccata finale: «Meglio dunque era lasciar queste vaghezze a i retori e provar il suo intento con dimostrazione necessaria, ché così convien fare nelle scienze dimostrative» (VII, 35).
Mutamenti sintattici sono indotti anche dalle diverse circostanze in cui il personaggio si trova e dalle conseguenti tensioni emotive. La sintassi ipotattica del filosofo può subire accelerazioni, semplificazioni, cambiamenti di ritmo, per arrivare all’andamento paratattico, segmentato, incalzante, fino alla splendida similitudine finale in endecasillabo:
Siamo qui in Venezia, dove ora sono l’acque basse, ed il mar quieto e l’aria tranquilla: comincia l’acqua ad alzarsi, ed in termine di 5 o 6 ore ricresce dieci palmi e piú […] Trovatemi ora voi come e donde ell’è qua venuta. Son forse qui intorno voragini o meati nel fondo del mare, per le quali la Terra attragga e rinfonda l’acqua, respirando quasi immensa e smisurata balena? (VII, 448-449)
La sintassi rapida e segmentata compare spesso in luoghi polemici, che inseguono l’avversario fino a inchiodarlo con la conclusione sentenziosa. Ma il fenomeno più caratteristico della sintassi galileiana è la riduzione del ruolo verbale a vantaggio di quello nominale. Non si giunge alle soluzioni estreme che caratterizzano manifestazioni novecentesche del cosiddetto ➔ stile nominale; ma è frequente la delega al nome e a sintagmi nominali di funzioni abitualmente affidate al verbo. Sono numerose le ellissi del verbo; frequenti anche le subordinate nominali, cioè quelle in cui la congiunzione si applica a un nome, a un aggettivo o a un participio: «le parti di mezo, benché piene di valli e monti [...] rimarrebbero senz’ombre» (VII, 106).
Fra le varie soluzioni sintetiche è interessante quella realizzata con l’avverbio ecco (seguito talvolta da participio) nei vari suoi valori attualizzanti (presentativi, indicativi, ecc.): «Eccovi il pozzo [...]; eccovi i vapori grossi, dai quali è tolta l’invenzione de i cristalli; ed eccovi finalmente fortificata la vista» (VII, 135). La scrittura galileiana potenzia al massimo i participi, che consentono il risparmio di congiunzioni o di pronomi relativi: «Voi stimate [...] la Terra, per la sua asprezza, non potente a far simile recessione» (VII, 95). Il participio, inoltre, realizza accordi morfologici nominali che ‘tramano’ morfologicamente il testo, rafforzandone la coesione: «l’esperienze dell’artiglierie [...] non l’avete voi conosciute ed ammirate e confessate più concludenti di quelle d’Aristotele?». Né bisogna trascurare l’opportunità ‘terminologica’ che i participi offrono, con la loro possibile evoluzione in senso aggettivale o sostantivale. Questa è una delle procedure abituali con cui Galileo cristallizza una ‘parola’ in ‘termine’: «la linea tangente» diventa «la tangente»; «la linea secante» diventa «la secante», ecc. Le due fasi di questo processo si colgono in un brano del Dialogo, a proposito del participio ambiente:
non avete voi per voi stesso saputo che la Luna si mostra più luminosa assai la notte che il giorno, rispetto all’oscurità del campo ambiente? ed in conseguenza non venite voi a sapere in genere, che ogni corpo lucido si mostra più chiaro quanto l’ambiente è più oscuro? (VII, 115)
Ancora più frequente è l’uso del participio passato, che segnala anche il genere, oltre al numero, infittendo la trama morfologica del testo e, in certi casi, eliminando l’ambiguità del riferimento: «ma non è l’orbe lunare una delle celesti sfere, e, secondo il consenso loro, compresa nel mezo di tutte l’altre?» (VII, 292).
Corollario importante del privilegio accordato al participio passato è l’altissima frequenza della costruzione passiva, che consente a Galileo di delegare la funzione morfosintattica all’ausiliare essere e di cristallizzare il valore semantico del verbo caratterizzante nella forma nominale del participio. Il risultato è una forte semplificazione della morfologia verbale e una più salda cementazione delle unità nominali ricorrenti nel periodo: «problema che sin qui non credo che sia stato saputo da filosofo né da matematico alcuno, ancorché da filosofi, ed in particolare Peripatetici, sieno stati volumi intieri, e grandissimi, scritti intorno al moto» (VII, 189).
I vantaggi realizzati con la scelta della costruzione passiva sono evidenti. Essa privilegia gli oggetti sui soggetti, i fenomeni sui processi, trasforma in essere l’agire, blocca in situazioni gli eventi. Tutti effetti che male si conciliano con una scrittura narrativa, o con qualsiasi altro tipo di scrittura personalmente modulata, ma dei quali si avvantaggia la lingua scientifica, che tende ad appiattire la dimensione cronologica dell’evento nella definizione del fenomeno e che valorizza l’oggetto della ricerca più del soggetto che la conduce. Là dove l’azione scenica esige il recupero della persona che agisce, l’aspetto momentaneo degli eventi, il dinamismo dei tempi e la gamma affettiva dei modi, Salviati recupera la prima persona e la forma attiva: «Io dimostrerò il mio paradosso» (VIII, 452). Le osservazioni fatte a proposito dei participi valgono anche per gli aggettivi verbali, di cui Galileo fa uso intenso: «Gradiscano quelle due grand’anime, al cuor mio sempre venerabili, questo publico monumento del mio non mai morto amore» (VII, 31).
Lo stile nominale si manifesta anche come addensamento della presenza del nome. In effetti la scrittura di Galileo è fittissima di nomi, in particolare di nomi che esprimono un concetto verbale. Quando scrive: «E per più facile intelligenza, piglieremo carta e penna» (VIII, 36), evita una frase finale; quando dice che un fenomeno può essere sfuggito a Copernico «per mancamento di strumenti esatti» (VII, 399), risparmia una frase causale, e così via. Altri risparmi sono realizzati con l’uso di aggettivi che significano un’azione: «aria aperta e non seguace del corso della nave» (VII, 214). Ecco un brano, abbastanza ampio da consentire il rilievo della densità del nome: «E perch’io so che non avete dubbio in conceder che l’acquisto dell’impeto sia mediante l’allontanamento dal termine donde il mobile si parte e l’avvicinamento al centro dove tende il suo moto, arete voi difficoltà nel concedere che due mobili eguali, ancorché scendenti per diverse linee, senza veruno impedimento, facciano acquisto d’impeti eguali, tuttavolta che l’avvicinamento al centro sia eguale?» (VII, 47).
Il brano serve anche al rilievo di un’altra caratteristica della scrittura galileiana, e cioè l’associazione a nomi astratti di verbi fraseologici (➔ fraseologici, verbi): «non avete dubbio» (invece di non dubitate o non esitate); «facciano acquisto d’impeti eguali» (per acquistino impeti eguali), ecc. E altrove: «venire in cognizione» (VII, 41), «conservare memoria» (VII, 39), «porger l’assenso», «prestare assenso» (VII, 101, 207), e così via. Non sembrerebbe, a prima vista, una scelta economica, perché richiede due unità lessicali (facciano acquisto) invece di una (acquistino). Ma la base verbale offerta da fare, dare, venire, ecc., è così generica che consente l’associazione con un numero altissimo di sostantivi e quindi la realizzazione di un numero altissimo di significati. Per es., con il verbo fare, «far passaggio» (VII, 55), «fece fondamento» (VII, 75), «far discapito» (VII, 28), «fecero risoluzione» (VII, 31), «fare giudizio» (VII, 35), «fare stima» (VII, 355), «far guadagno» (VII, 355), ecc. Ne risulta anche un ampliamento della funzionalità sintattica del nome. Sintagmi quali avere opinione, avere sospetto, ecc. (per ritenere, sospettare) espongono e in progresso di tempo abilitano i nomi alla reggenza della subordinata seguente: «ho grande opinione che voi ancora non l’intendiate» (VII, 103); «L’errore di Aristotile [...] ha radice in quella fissa e inveterata impressione che la Terra sia ferma» (VII, 209). Il nome assume così forme di reggenza che, in secoli precedenti, erano specifiche del verbo.
La sintassi galileiana, pur disponibile a forme di semplificazione e di accelerazione, rimane però prevalentemente ipotattica. L’equilibrio, la chiarezza, l’evidenza, l’efficacia della scrittura di Galileo dipendono dalla coerenza logica e dalla coesione linguistica con cui le molte unità ospitate nel periodo sono gerarchicamente strutturate e saldate fra loro.
Quando Galileo comincia a scrivere, sono disponibili tre fonti terminologiche: quella magico-animistica, quella peripatetica, quella ‘meccanica’. Galileo rifiuta nettamente le prime due: per lui «il desiderio, l’appetito e ’l discorso» attribuiti alle cose inanimate si possono «assomigliare alle favole d’Esopo che fanno parlar le piante» (IV, 689).
Per le sue «sensate esperienze» Galileo non ebbe «bisogno di ricorrere a tante cause primarie, secondarie, instrumentarie, per sé, per accidente a viscosità, a flessibilità e durezze, a superficie in atto e scoperte, a dissensi e antipatie, a untuosità, a circostanze, a materie qualificate, a termini abili e a cent’altre chimere» (IV, 580) che sono «refugii» di filosofi aristotelici e di filosofi-maghi. Crolla l’impalcatura aristotelica delle opposizioni qualitative (grave / leggero, secco / umido, caldo / freddo, ecc.), che Galileo concepisce quantitativamente (come gradi diversi di una stessa scala di misurazione); o funzionalmente (in risposta a diverse esigenze).
Invece la terminologia ‘meccanica’, quella usata nelle officine, nei cantieri, negli arsenali, viene accettata da Galileo, che però ne accompagna l’uso con brevi commenti che ‘isolano’ quei termini, sottolineandone una certa estraneità: «un picciolo contrapeso, il quale adimandano romano» (II, 165); «robustissime funi, che mi par che domandino suste» (VIII, 58); «Inserto il legno, o vogliamolo chiamar zaffo» (VIII, 62); «i quali pesi mi pare che gli addimandino berte)» (VIII, 325). Evidentemente Galileo, rivolgendo le sue opere alla «republica litteraria» (XIII, 135), deve tenere alto il livello linguistico di esse e usare con distacco la terminologia artigianale.
Rimane da precisare l’atteggiamento personale di Galileo nei confronti della terminologia: non rifiuta i termini, se sono pure e semplici «abbreviazioni di parlare», introdotte per evitare «lo stento tedioso» di lunghe perifrasi. Egli stesso propone termini (che poi magari non usa): scodella, nastro circolare, rasoio rotondo (VIII, 74), ciambella (VIII, 187), ecc.; la cosa importante è che il significato di questi termini, una volta attribuito, rimanga sempre uguale: «le definizion de’ termini, sendo arbitrarie, non possono mai esser cattive; le definizioni de’ termini non posson depravar le dimostrazioni, se non quando essi termini fosser definiti in un modo e applicati poi alle dimostrazioni in un altro» (IV, 700).
È un atteggiamento di cui Galileo dà chiara conferma a proposito di nebulose, un termine inadeguato a definire ciò che lui stesso ha visto, usando il telescopio; ma lo accetta (visto che ormai esiste), limitandosi a precisare, quando lo usa, che le nebulose non sono nuvole o nebbie, ma «drappelli di stelle» (VII, 396).
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