Galilei, Galileo
Fisico e filosofo (Pisa 1564 - Arcetri, Firenze, 1642).
Figlio del musicista e scrittore fiorentino Vincenzo e di Giulia degli Ammannati, trascorse la sua giovinezza tra Pisa e Firenze. Dopo i primi studi in un convento vallombrosano, fu iniziato dal padre alla musica, al disegno e alle lettere. Nel 1581 fu immatricolato tra gli «scolari artisti» all’ateneo pisano, dove studiò medicina per quattro anni, ma senza conseguire il titolo. Risalgono a quel periodo gli studi di geometria, meccanica e idraulica, condotti sotto la guida di Ostilio Ricci da Fermo, allievo di N. Tartaglia, e la lettura di Archimede, Apollonio, Pappo, Euclide. Ritornato a Firenze nel 1585, vi compose i primi scritti: i frammenti Theoremata circa centrum gravitatis solidorum, sulla determinazione dei baricentri, e La bilancetta, progetto di uno strumento per la determinazione del peso specifico dei corpi. L’interesse geometrico e architettonico prevale nelle lezioni di esegesi dantesca Circa la figura, sito e grandezza dell’Inferno (1588) tenute all’Accademia Fiorentina. Dopo vari tentativi infruttuosi, ottenne nel 1589 dal granduca Ferdinando, grazie all’appoggio di Guidobaldo del Monte, la cattedra di matematica nell’univ. di Pisa; un insegnamento secondario con l’assegno annuo, assai modesto, di 60 scudi. Mentre dalla cattedra G. si atteneva ai programmi d’insegnamento correnti (astronomia tolemaica e geometria euclidea), andava maturando la critica della meccanica e della fisica scolastica. Secondo la tradizione risalgono a quest’epoca l’intuizione dell’isocronismo del pendolo nel Duomo di Pisa, e le esperienze sulla caduta dei gravi dalla Torre pendente, da cui sarebbero nate aspre reazioni accademiche. Un documento capitale delle posizioni ancora largamente scolastiche di G. è invece il De motu (1589 segg. ma inedito), pervenutoci in tre stesure successive. È evidente qui l’influenza delle dottrine meccaniche di F. Bonamico, Tartaglia e G.B. Benedetti, in un contesto prossimo a quello dei teorici tardo-scolastici dell’impetus: il moto appare ancora come una «qualità» (virtus impressa) del corpo, che vi «decade» naturalmente come il suono in una campana; la caduta dei gravi, accelerata all’inizio del loro moto, si stabilizza in seguito su un valore limite, ma la velocità di caduta è comunque proporzionale al peso e quindi variabile da corpo a corpo; sebbene G. difenda contro Aristotele la tesi dell’esistenza del vacuum, è ancora ben lungi dalla formulazione corretta della legge di caduta dei gravi, alla quale giungerà dieci anni più tardi. Sono documenti notevoli del gusto letterario di G. le pagine dedicate alla poesia di Ariosto e di Tasso, e il capitolo bernesco Contro il portar la toga, redatti in gran parte a Pisa.
Più che l’ostilità dei colleghi, i motivi economici indussero G. a lasciare Pisa per la cattedra padovana di matematiche, concessagli dal senato veneto nel 1592, grazie, ancora una volta, ai buoni uffici dell’amico del Monte. Lo stipendio ancora modesto di 180 fiorini annui, nonostante i successivi aumenti, era assai inferiore alle esigenze: costretto a sovvenire fratelli e sorelle, G. fu costantemente tormentato in quegli anni dal bisogno di denaro. Di qui la necessità di dare lezioni private ai quindici o venti gentiluomini che teneva a pensione, e le produzioni della piccola officina tecnica che mandò innanzi con il meccanico M. Mazzoleni: compassi geometrici e militari, bussole, squadre e altri strumenti matematici, più tardi cannocchiali. Tra queste invenzioni tecniche, realizzate a scopo venale, una pompa «da alzar acque e adacquar terreni» mossa da un cavallo (1593), e il «compasso geometrico-militare» destinato a calcoli balistici e geodetici (1597), che era oggetto di lezioni private, e veniva ceduto da G. agli allievi con una breve istruzione manoscritta. Destinazione analoga ebbero la Breve istruzione all’architettura militare e il Trattato di fortificazione. A Padova G. trascorse diciotto anni di fervido vigore inventivo. Mentre i suoi interessi tecnico-meccanici erano stimolati dalla «frequente pratica del famoso arsenale» veneziano, la società colta di Venezia e Padova gli offriva incontri ed esperienze cosmopolite. Amico del mecenate napoletano V. Pinelli, di P. Paruta, N. Contarini, A. Morosini, si legò soprattutto con G.F. Sagredo, magistrato, mente colta e curiosa di matematica e di fisica, che figurerà come interlocutore «galileiano» nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (➔), in cui pure saranno riflesse le vivaci curiosità intellettuali e l’avversione alla pedanteria accademica, tipiche di quella società. All’università, dominata dall’aristotelico Cremonini ma anche rinnovata dall’insegnamento sperimentale di A. Vesalio e dei grandi anatomisti suoi discepoli, G. si conformò alle dottrine tradizionali. Ebbe numerosi uditori tra gli studenti di diritto e di medicina. Argomento delle lezioni furono i libri di Euclide, il Trattato della Sfera di G. Sacrobosco, l’Almagesto di Tolomeo, la meccanica e la fisica di Aristotele. Legato all’insegnamento è il Trattato della Sfera (1605), esposizione sistematica dell’ipotesi tolemaica, in cui la meccanica celeste è ricondotta alle tradizionali sfere solide e al geocentrismo. Nel frattempo G. si era distaccato, in privato, dall’aristotelismo. Il trattatello Le mecaniche (1593), dedicato all’esposizione delle macchine semplici già note agli antichi («stadera, leva, ruota, argano, taglia, vite, coclea»), contiene alcune «definizioni» notevoli del momento di una forza, del centro di gravità, dell’inerzia, che preludono alla legge di caduta dei gravi. La prima testimonianza dell’avvenuta adesione all’ipotesi eliocentrica di Copernico si trova in una lettera a Mazzoni del 1597; poco dopo, a Keplero che gli aveva inviato la sua prima opera, G. rispondeva di essere convinto già da molti anni della verità delle tesi copernicane, ma di non aver osato pubblicare i propri argomenti «intimorito dalla sorte dello stesso Copernico». Le grandi scoperte astronomiche verranno a confermare tesi teoriche già acquisite: nel 1604 un primo indizio fu l’osservazione di una stella nova, visibile per diciotto mesi nella costellazione del Serpentario. Sul fenomeno G. tenne tre lezioni, ma vedendo che poneva problemi densi di «grandissime conseguenze e conclusioni», si astenne dal render pubblico tutto il suo pensiero: la condanna di Bruno era recente. Ne nacque tuttavia una polemica tra peripatetici e seguaci di G.; vi partecipò un Baldassar Capra, che fu anche condannato nel 1607 per aver plagiato lo scritto galileiano Le operazioni del compasso geometrico-militare; contro le sue «calunnie et imposture» G. replicò con una vibrante Difesa. Negli ultimi mesi del 1608 erano stati costruiti in Olanda, da maestri artigiani, i primi esemplari di cannocchiali. Galileo ne ebbe notizia e, secondo la sua stessa testimonianza, «mi posi a pensar sopra tal problema, e la prima notte dopo il mio ritorno [a Padova] lo ritrovai, ed il giorno seguente fabbricai lo stromento». Dispute sulla priorità si ebbero allora e in seguito: merito di G. non fu tanto di aver inventato il cannocchiale, o di averlo reinventato «per via di discorso» (ossia in base a una deduzione teorica circa l’accoppiamento di due lenti, concava e convessa, già nota a Keplero e a Della Porta), quanto di averlo perfezionato e di averne intuite le feconde applicazioni in astronomia. Dopo aver dato pubblici saggi della potenza del cannocchiale dal campanile di S. Marco, G. lo presentò al Doge come «un artifizio [...] cavato dalle più recondite speculazioni di prospettiva [...] cosa che per ogni negozio e impresa marittima e terrestre può essere di giovamento inestimabile»; nell’ag. 1609, all’atto della solenne consegna, G. è nominato lettore a vita in Padova «con stipendio di fiorini mille annui». G. puntò lo strumento verso il cielo in quei mesi: la Luna gli apparve non «di superficie eguale, liscia e tersa», bensì «aspra ed ineguale [...] ripiena di eminenze e di cavità simili, ma assai maggiori ai monti e alle valli» della Terra. L’osservazione del satellite nelle sue fasi ed esposizioni alla luce solare ne rendeva evidenti i crateri; le costellazioni già note risultavano assai più complesse; la Via Lattea, un ammasso di stelle; le stelle fisse si distinguevano nettamente dai pianeti per i contorni e la luminosità. Così il cannocchiale vanificava la tesi aristotelica della perfezione assoluta dei cieli, e suggeriva in concreto l’unità della fisica terrestre e di quella celeste. Nel genn. 1610 G., rivolto lo strumento su Giove, scorge quattro dei suoi satelliti, ne segue le traiettorie e ne coglie il significato dinamico: una conferma dell’ipotesi copernicana, che può essere estesa all’intera struttura del Sistema Solare. Confessando il suo «infinito stupore» di «primo osservatore di cosa ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta», G. redige rapidamente il Sidereus nuncius e lo dedica al granduca Cosimo II di Toscana. I satelliti di Giove vengono chiamati, in suo onore, medicei.
(1611-1616). Mentre si diffondeva in Europa l’eco delle scoperte, suscitando resistenze e adesioni (capitale quella di Keplero), in Italia gli ambienti peripatetici e gli astronomi reagivano variamente: Cremonini rifiutò di porre l’occhio allo strumento, G.A. Magini a Bologna e C. Clavio a Roma rimasero diffidenti. G. rinunciò alla cattedra di Padova; nel luglio 1610 ottenne la nomina di «primario matematico e filosofo» del granduca di Toscana e la cattedra primaria di matematica a Pisa, ma «senza obbligo d’abitare in Pisa, né di leggervi, se non onorariamente», con lo stipendio di mille scudi annui. Proseguì in quei mesi le osservazioni con tre notevoli risultati: l’anello di Saturno, intravisto però erroneamente come composto da due corpi collaterali al pianeta; la constatazione che Venere ha fasi analoghe a quelle lunari, sì che «necessariamente si volge intorno al Sole, come anco Mercurio e tutti li altri pianeti»; il chiarimento del fenomeno delle macchie solari, «contigue alla superficie del corpo solare, dove esse si generano e si dissolvono continuamente, nella guisa delle nugole intorno alla Terra». Il fenomeno, che descrisse nell’Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari (1612), finiva di distruggere la tesi dell’immutabilità dei cieli; era «il funerale, o più tosto l’estremo ed ultimo giudizio della pseudofilosofia». Seguì una lunga disputa circa la priorità di interpretazione della scoperta con il gesuita C. Scheiner. Dei primi mesi fiorentini è anche il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua e in essa si muovono (1612), dedicato alla confutazione dell’idrostatica aristotelica, in difesa della tesi di Archimede circa le differenze di peso specifico tra acqua e corpi. Nell’apr. 1611 G. è a Roma, accolto benevolmente dagli astronomi gesuiti del Collegio Romano (che verificano le sue scoperte astronomiche e le accettano) e dal papa Paolo V, festeggiato da F. Cesi. Di lì a poco, mentre in conversazioni e lettere svolgeva un’attiva propaganda copernicana, e ironizzava vigorosamente contro gli avversari, prese a delinearsi una violenta reazione: prima il domenicano N. Lorini, poi C. Buscaglia e T. Caccini accusarono d’eresia il sistema copernicano in pubbliche prediche e dibattiti. G. replicò con le due importanti lettere a B. Castelli (dic. 1613) e a Cristina di Lorena (dic. 1615), sostenendovi il rispetto per la Scrittura nelle questioni di fede, e l’autonomia delle sensate esperienze e delle certe dimostrazioni nelle questioni astronomiche: i «due libri», entrambi opera di Dio, non si contraddicono a vicenda. Mentre la Scrittura, adattata alla «incapacità del vulgo», va intesa in senso allegorico riguardo alle questioni di fisica, la natura è «inesorabile e immutabile», né consente altro strumento interpretativo che quello sperimentale e matematico. La prima lettera provocò la denuncia di G. al Sant’Uffizio da parte di Lorini, e l’apertura di un’istruttoria a suo carico. Frattanto, nei primi mesi del 1615, in una lettera al carmelitano P.A. Foscarini, il cardinale R. Bellarmino indicò un espediente al quale G. avrebbe dovuto attenersi nell’esporre la tesi eliocentrica, cioè «prudentemente parlare ex suppositione e non assolutamente»; era il criterio già applicato da A. Osiander all’opera di Copernico: il moto terrestre, ammissibile come mera ipotesi matematica destinata a «salvare i fenomeni» in senso fisico è tesi contraria alla Scrittura. G. replicò in una lettera a P. Dini che il sistema copernicano non poteva essere inteso in tal senso: «o bisogna dannarlo del tutto, o lasciarlo al suo essere». La Sacra Congregazione dell’Indice, dopo aver condotto in segreto interrogatori e indagini per tutto il 1615, scelse la prima alternativa. Nel febb. 1616 la tesi eliocentrica e quella asserente il moto diurno e annuale della Terra furono condannate come «stolte e assurde filosoficamente, e formalmente eretiche in quanto espressamente contrarie alla Sacra Scrittura». Il decreto non nominava G., che però fu convocato subito da Bellarmino, il quale gli ingiunse a nome di Paolo V di abbandonare l’ipotesi copernicana, di non insegnarla né difenderla in alcun modo, pena il carcere e il processo. G. assentì, ma per tacitare le voci di una sua abiura, che si diffusero immediatamente, chiese e ottenne da Bellarmino una dichiarazione attestante il carattere non personale della censura.
Sconfitto, malato, assillato da dissapori in famiglia, G. si ritirò dapprima nella villa Segni di Bellosguardo, poi presso Arcetri, per essere vicino al convento dove era monaca la figlia prediletta Virginia, suor Maria Celeste, che morì in ancora giovane età nel 1634. La censura del sistema copernicano aveva resa più acuta in G. la consapevolezza del grande rivolgimento intellettuale di cui era il protagonista, sul piano «filosofico» prima che su quello astronomico e fisico. I suoi scritti successivi – anche se già progettati fin dal 1610 – mirano anzitutto al chiarimento della prospettiva teorica e metodica propria della nuova scienza. Entro tale contesto si situa la polemica sulle tre comete del 1618, attorno alle quali avevano variamente disputato i seguaci di Tolomeo, T. Brahe e Keplero, ricercando argomenti per i rispettivi «sistemi». Il gesuita O. Grassi, del Collegio Romano, tentò di utilizzare elementi delle opposte tesi entro una prospettiva aristotelica. G. entrò nella disputa con il Discorso sulle comete, letto all’Accademia Fiorentina nel giugno 1619 dall’amico M. Guiducci e a lui attribuito. Vi sono contestate le vaghe generalizzazioni di Grassi, e vi è proposta l’ipotesi che le comete siano corpi o vapori terrestri sollevati a grande altezza e illuminati dal Sole. La Libra astronomica ac philosophica (1619), che Grassi redasse (con lo pseud. di Lotario Sarsi) contro G. in stile rigorosamente scolastico e sillogistico, provocò quella sorta di manifesto programmatico del metodo sperimentale che è Il saggiatore (1623), vibrante d’ironia e di aspra polemica personale. G. vi riafferma la ribellione contro il principio di autorità e contro il rispetto della tradizione, in nome delle sensate esperienze e delle certe dimostrazioni; enuncia la propria fede platonizzante riguardo alla struttura geometrica dell’Universo; afferma (secondo un’idea cara a tutta la tradizione platonica rinascimentale) che il libro della natura è scritto «in lingua matematica e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola»; fonda sull’antica distinzione tra qualità primarie e secondarie la concezione corpuscolare della materia e la riduzione della fisica a meccanica razionale. Di enorme importanza filosofico-gnoseologica è la distinzione tra qualità oggettive e qualità soggettive dei corpi. Una volta individuata la struttura del cosmo nel linguaggio matematico, ne discende che ogni corpo è determinabile secondo qualità matematico-geometriche (estensione, figura, moto), e che la relazione con gli altri corpi è determinabile secondo spazio e movimento. Ne discende che le qualità matematico-geometriche esauriscono la struttura della materia, mentre le qualità sensibili (sapore, odore, colore, suono) non sono inerenti ai corpi, ma risultano dal rapporto momentaneo tra il soggetto senziente e l’oggetto percepito: è il corpo esterno che, attraverso i sensi del soggetto, genera in lui una serie di affezioni o sensazioni, che non esistono nell’oggetto. Ne segue che i mutamenti qualitativi dei corpi, così come essi appaiono ai nostri sensi, non sono manifestazione dell’essenza dei corpi stessi, bensì il risultato della modificazione dei nostri sensi determinata dai moti elementari della materia, calcolabili matematicamente. Le conseguenze filosofiche di questa dottrina sono rilevantissime: poiché, per un verso, G. rompe con la fisica aristotelico-scolastica, per la quale le qualità sensibili erano oggettive, reali, e per un altro verso, una volta ridotti i corpi a moto, figura e relazione, l’indagine scientifica non cerca più il ‘che cosa’ della natura, bensì il ‘come’, ovvero le sue leggi, misurabili ed enunciabili in termini matematici. Il nuovo papa Urbano VIII, cui l’opera fu dedicata, accolse G. a Roma nel giugno del 1624 «con grandissimi favori e onori [...] fino a sei volte in lunghi ragionamenti».
e la condanna del 1633. In questo clima più disteso G. riprese in mano il progetto del Dialogo sopra i due massimi sistemi, annunciato fin dal 1610 come svolgente un «concetto immenso e pieno di filosofia, astronomia e geometria»; vi lavorò tra il 1625 e il 1626, e lo condusse a termine tra il 1629 e il 1630. Il contenuto strettamente astronomico del Dialogo è quello già anticipato negli scritti sui pianeti medicei, sulle macchie solari, sulle fasi di Venere; nuovi e originali sono il contesto metodico nel quale quei dati sono calati, la vasta portata «filosofica» della discussione contro Aristotele e Tolomeo, la delineazione della nuova meccanica celeste e terrestre. Non destinato soltanto ai dotti, ma agli uomini illuminati come l’interlocutore Sagredo, il Dialogo svolge una confutazione «socratica» della vecchia fisica e cosmologia (impersonata da Simplicio), per bocca del protagonista copernicano Salviati. Radicale è la contrapposizione tra la dottrina aristotelica del moto, qualitativa e fondata sulla distinzione tra moti ‘naturali’ e ‘violenti’, e la nuova dottrina tutta quantitativa, costruita su una concezione rigorosamente geometrica dello spazio cosmico. G. è lontano da Keplero per quanto riguarda il contenuto matematico e tecnico dell’astronomia eliocentrica, e trascura le sue prime due leggi sulle orbite ellittiche, allora già formulate (1610), attenendosi a uno schema concentrico delle orbite planetarie. La confutazione della meccanica celeste tolemaica è fondata su un peculiare concetto d’inerzia «circolare»: naturali (inerziali) sono i moti curvilinei dei pianeti e dei satelliti attorno ai loro centri. I moti rettilinei, intervenuti probabilmente al momento della creazione del sistema planetario, ne sono attualmente esclusi. Tale descrizione puramente cinematica dei moti celesti eliminava il complesso meccanismo di sfere solide, intelligenze motrici, epicicli ed equanti, ma conservava l’antica suggestione della perfezione dei moti circolari. Al moto curvilineo G. riconduceva anche la caduta dei gravi sulla Terra, rettilinea per un osservatore situato sopra la stessa superficie terrestre, ma composta con il moto di rotazione per un osservatore esterno, ossia tendente in linea curva verso il centro della Terra. Corretta, benché fondata su premesse «scorrette», è nel Dialogo la legge del moto uniformemente accelerato («gli spazii passati dal mobile, partendosi dalla quiete, hanno tra di loro proporzione duplicata di quella che hanno i tempi ne’ quali tali spazii son misurati, o vogliam dire che gli spazii passati son tra di loro come i quadrati de’ tempi»). Si tratta di una conclusione fondata non su esperimenti, ma su «matematica purissima». Esperimenti mentali sono anche quelli relativi alla caduta di gravi su piani inclinati, e frutto di un’analoga astrazione geometrica è l’affermazione del moto indefinito di una sfera, che si muova uniformemente e senza attriti lungo un piano coincidente con la superficie terrestre: moto inerziale, anche in tal caso, ma «circolare». Costruendo la nuova meccanica, G. distrugge definitivamente il pregiudizio aristotelico circa l’immutabilità dei cieli e la dicotomia tra le due fisiche. Appellandosi alle sensate esperienze, soprattutto come conferma delle argomentazioni deduttive, rovescia puntualmente gli argomenti peripatetici tradizionali contro il moto terrestre, e adduce una serie di prove a favore di esso: l’assurdità di un moto velocissimo dei cieli attorno alla Terra; l’impossibilità, per la Terra, di rimanere in quiete al centro di un Universo in moto; l’incongruenza delle velocità rispettive dei pianeti e delle stelle fisse ecc. Gli argomenti volti a combattere l’obiezione circa le forze centrifughe (che proietterebbero lontano i corpi che si trovano sulla superficie terrestre) si fondano sul principio di relatività galileiano: con la similitudine della nave, svolta in una celebre pagina, G. suggerisce il principio che la Terra si comporta come un sistema inerziale. I contatti che G. aveva avuto con Urbano VIII, e l’apparente favore di una parte dell’ambiente curiale, lo avevano illuso circa la possibilità di riprendere, con la pubblicazione del Dialogo, la battaglia in difesa della nuova astronomia. Il papa aveva lasciato intendere di non approvare la censura del 1616; Cesi e i Lincei caldeggiavano l’iniziativa. A metà del 1630 G. sottopose il manoscritto al maestro del Sacro Palazzo N. Riccardi e ottenne l’imprimatur. L’opera vide la luce a Firenze nel febb. 1632. Il favore con il quale fu accolta dagli amici e dal pubblico colto suscitò immediate reazioni avverse: sensibile alle insinuazioni dei nemici di G., Urbano VIII mutò rapidamente atteggiamento. Nell’agosto lo stesso censore Riccardi dette ordine di sequestrare le copie del Dialogo, e di lì a poco G. ricevette l’ordine di presentarsi al tribunale del Sant’Uffizio in Roma. Nonostante le cattive condizioni di salute, sotto la minaccia di essere trasportato ligatus ac cum ferris, vi si recò nel genn. 1633. Il processo durò vari mesi; il documento di condanna, emesso il 22 giugno, accusa G. di aver raggirato il censore e di aver trasgredito il divieto del 1616, rendendosi «veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il Sole sia centro della Terra e che non si muova da oriente ad occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo». G., in istruttoria, aveva sostenuto che il Dialogo non intendeva imporre come assolutamente vero il sistema copernicano; ma nel documento d’abiura che fu costretto a sottoscrivere vi è una piena ammissione di colpevolezza, e la solenne asserzione «abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie». La condanna prevedeva il carcere formale in Roma, poi commutato in residenza coatta nel palazzo arcivescovile di Siena, dove G. trascorse alcuni mesi affettuosamente ospitato dal cardinale G. Piccolomini. Soltanto nel dic. 1633 poté ritornare ad Arcetri, ove trascorse gli ultimi anni della sua vita, cieco e ammalato, in stato di dimora vigilata.
Il divieto emesso dal Sant’Uffizio concerneva tutti gli scritti editi e inediti di G., ma non poté fermare la diffusione europea del Dialogo e della Lettera a Cristina di Lorena, che videro la luce in traduzione latina presso gli Elsevier di Leida. Qui fu pure pubblicata la seconda grande opera galileiana, cioè i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica ed ai movimenti locali (1638). È anche questo un dialogo, con i medesimi protagonisti, ma dedicato alla trattazione di una vastissima gamma di problemi di fisica e meccanica: la resistenza dei materiali in rapporto alla struttura fisica e geometrica dei corpi, la costituzione corpuscolare della materia, la discussione dell’horror vacui e il concetto di vuoto pneumatico, il sincronismo e l’isocronismo dei pendoli (Giorn. 1a); la teoria delle leve e altri problemi di statica e meccanica, con applicazioni agli organismi viventi (Giorn. 2a). Il trattatello De motu, inserito e discusso nell’opera (Giorn. 3a e 4a), è una compiuta esposizione della dinamica galileiana, con la rigorosa formulazione delle leggi del moto – uniforme e accelerato – e l’analisi delle traiettorie dei proiettili, fondata sul principio della composizione dei moti. Due altre parti, rimaste frammentarie (Giorn. 5a e 6a), sono dedicate alla teoria euclidea delle proporzioni e al problema fisico-meccanico della «forza della percossa». I Discorsi costituiscono la summa della fisica galileiana e impostano tutti i problemi che saranno affrontati e risolti nei decenni seguenti, dai discepoli di G. fino a Newton. Il carattere prevalentemente deduttivo del metodo qui usato, e il ruolo limitato degli esperimenti addotti a conferma delle teorie, hanno dato luogo a vivaci controversie circa la corretta interpretazione dei procedimenti galileiani, la prevalenza dell’induzione o della deduzione, il «platonismo» matematico di Galilei. Negli ultimi anni G. si occupò della misurazione delle longitudini, della costruzione di orologi a pendolo, di problemi meccanici, della luce lunare, con il celebre scritto Sopra il candore della Luna (1640). Gli fu consentito di ricevere con una amici e discepoli: B. Castelli, C. Settimi, E. Torricelli, V. Viviani, primo dei suoi biografi. Subito dopo la sua morte il progetto di una solenne sepoltura nella chiesa fiorentina di Santa Croce fu vietato da Roma, «per non scandalizzare i buoni» e non «offendere la reputazione» della Santa Inquisizione. Il divieto delle opere di G. fu eliminato soltanto nel 1757.
Biografia