Galileo Galilei: Opere - Introduzione
La vita di Galileo non è la vita raccolta e intima d'un pensatore assorto nel suo pensiero, ma quella intensa e combattiva dell'innovatore, che, conscio d'una sua missione scientifica, deve sgombrare il campo da pregiudizi millenari, scontrarsi con le istituzioni gelose d'una dottrina tradizionale conchiusa in formule dogmatiche come articoli di fede, aprir la via alla scienza moderna, al metodo scientifico moderno. Nella lotta che lo piegherà, non avrà sostegni: non larghezza di mezzi, non tranquillità d'affetti familiari, non valide protezioni. Deve provvedere alla famiglia paterna, indebitarsi per dotare le sorelle (e uno dei cognati minaccerà di farlo arrestare come debitore insolvente); deve ideare e costruire da sé i suoi strumenti; da sé deve faticosamente raccogliere i dati per le indagini: e non soltanto nella pace d'uno studio, non in un mondo di carta come i «filosofi in libris» che disprezza, ma direttamente nel «gran libro della natura», per cui talvolta è costretto a passare notti e notti, anche d'inverno, «più al sereno e al discoperto che in camera o al fuoco»1. E, dopo averne appreso il linguaggio, il gran libro della natura, «scritto in lingua matematica», egli scruta con occhio acutissimo e vigile, con un'ansia di verità che lo assillerà sino agli ultimi anni della sua vita, gli darà dubbi continui sui risultati raggiunti (da considerar provvisori piuttosto che definitivi), lo indurrà a tentare nuove «sensate esperienze» a conferma d'un'ipotesi feconda o a danno d'un'idea superata, gli farà scrivere: «il mio cervello inquieto non può restar d'andar mulinando, e con gran dispendio di tempo, perché quel pensiero che ultimo mi sovviene circa qualche novità mi fa buttare a monte tutti i trovati precedenti».2 È il dubbio dello scienziato moderno, che sistema alcuni fatti accertati in una teoria, pronto a sostituirla con altra più completa, quando un fatto nuovo dell'inesauribile natura sfugge alla precedente sistemazione: e di teoria in teoria va accostandosi alla verità irraggiungibile, ché «tutta la filosofia è intesa da un solo, che è Iddio».3 Ma quel continuo mulinare del pensiero inquieto gli dà anche la certezza sulla validità del metodo d'indagine, certezza che, contro chi s'adagia per pigrizia mentale nel sapere dogmatico della tradizione scolastica, renderà Galileo di volta in volta insofferente, ironico, sarcastico, beffardo negli scritti polemici: e quasi tutti i suoi scritti son polemici e talvolta aspri, sino ingiuriosi, e non certo tali, mai, da blandire gli avversari. L'insofferenza si rivela anche quando l'avversario è più di lui vicino al vero, e può sembrare ingiustificata: ma i suoi attacchi son rivolti allora contro l'arbitrarietà dei procedimenti logici, contro il vano rigore formale dei sillogismi, contro l'incertezza dei dati sui quali si basa la dimostrazione. Se l'avversario è più vicino al vero, la sua dogmatica affermazione è sterile, non suscettibile di progresso: nell'errore galileiano, invece, vi sono gli stimoli che condurranno alla verità scientifica di domani, perché all'errore egli è giunto non per mancanza di dottrina, ma per la sistemazione di fenomeni osservati e di «sensate esperienze» che potranno esser riesaminate più tardi da lui stesso o da altri seguendo il suo metodo, quello che farà di lui il padre della scienza moderna: il metodo sperimentale matematico, che Galileo da filosofo espone, da scienziato attua.
Galileo nacque a Pisa il 15 febbraio 1564 da Vincenzo Galilei e da Giulia Ammannati, ma si considerò «nobile fiorentino»,4 perché di Firenze erano il padre e i suoi antenati. Dalla convivenza col padre, musicista e scrittore di cose musicali arguto e sarcastico, acquistò indipendenza di giudizio, vivacità, disprezzo pel tradizionale principio d'autorità sul quale si basava il sapere degli ultimi scolastici; dalla madre, di carattere aspro e litigioso, gli venne forse certa aggressività polemica, certa insofferenza che scatta in subitanee collere e si esprime con ingiurie e sferzanti irrisioni d'avversari non sempre in errore: aggressività, insofferenza e irrisioni che, accrescendogli il numero dei nemici, saranno tra le cause delle sue sventure.
A Firenze, ove la famiglia si trasferì nel 1574, iniziò privatamente gli studi d'umanità e, poi, di logica nel convento di S. Maria di Vallombrosa, vestendo, forse, l'abito di novizio. Studiò anche disegno e prospettiva, e si dilettò di musica, nel liuto «essendo ricchissimo d'invenzione e superando nella gentilezza e grazia del toccarlo il medesimo padre»,5 che di tale strumento era virtuoso. Nel settembre del 1581 il padre, che per ridar lustro alla famiglia decaduta desiderava farne un medico, non ostante le disagiate condizioni economiche lo inviò a Pisa, ove Galileo rimase quattro anni senza conseguire alcun titolo accademico. Ma non furono anni perduti per la sua educazione spirituale: attratto dagli studi scientifici, lesse Aristotele e Platone, e più che nei testi già cercava la verità nel «gran libro della natura», ché di quel tempo è la prima scoperta: la legge dell'isocronismo delle piccole oscillazioni del pendolo. La tradizione vuole che il giovane non ancora ventenne, nel vedere oscillare una lampada nel duomo di Pisa,6 valendosi dei battiti del polso per misurare il tempo, constatasse che le oscillazioni eran tutte di ugual durata, quantunque di continuo diminuissero d'ampiezza.
Iniziato a vent'anni, contro la volontà paterna, lo studio della geometria, tanto lo approfondì, da trovare due anni più tardi le dimostrazioni di alcuni teoremi sul centro di gravità dei solidi, che gli crearono reputazione d'esperto geometra. Nel 1586, lo studio di Archimede lo condusse all'invenzione della bilancetta, una stadera idrostatica, mediante la quale misurò i pesi specifici di numerosi corpi. Intanto, non veniva meno in lui l'amore per gli studi letterari, che, con maggiore o minore impegno, coltivò l'intera vita: e ne saranno frutto, in quel tempo e in seguito, le Due lezioni all'Accademia fiorentina circa la figura, sito e grandezza dell'«Inferno» dantesco, le Postille all'Ariosto, le Considerazioni al Tasso,7 e alcune composizioni poetiche.8 Ma più che negli scritti letterari, di scarso valore, gli studi d'umanità e l'innato gusto artistico si rivelano in quasi tutte le sue opere, la cui prosa limpida ed elegante, se il rigore scientifico rende talvolta arida tanto da preludere a quella dei moderni trattati di fisica e d'astronomia, è in più parti vera creazione d'arte. Nell'attesa d'una stabile occupazione redditizia, intanto, impartiva lezioni private ed entrava in relazione coi matematici più insigni del suo tempo, quali il gesuita tedesco Cristoforo Clavio9 del Collegio Romano, che aveva avuto gran parte nella riforma gregoriana del calendario, e il pesarese Guidobaldo dei marchesi del Monte, che, compreso il valore del giovane studioso, si adoperò presso la Corte medicea per fargli ottenere la cattedra di matematica nello Studio di Pisa. E questa gli fu assegnata nel luglio del 1589 con la magra provvisione annua di sessanta scudi.
A Pisa Galileo rimase soltanto tre anni: la sua materia, di secondaria importanza, comprendeva la geometria euclidea e l'astronomia tolemaica. Per suo conto s'occupò del moto (è di quel tempo la triplice stesura in latino del De motu, rimasto lungamente inedito), e sembra eseguisse esperienze sulla caduta dei gravi dall'alto della torre pendente, per dimostrare che l'accelerazione è uguale per tutti i corpi e non variabile col peso, come voleva la dottrina aristotelica.
Le difficoltà economiche, accresciute dopo la morte del padre, avvenuta nel 1591, che lasciava quasi del tutto a suo carico la madre, due sorelle e un fratello, e forse l'ostilità dei vecchi maestri ligi alla dottrina tradizionale, nemici delle novità e punti dal carattere ribelle del giovane professore (che s'era espresso, tra l'altro, nell'irriverente capitolo bernesco: Contro il portar la toga), lo indussero a cercare un collocamento migliore, al quale poteva aspirare per la fama accresciuta e la protezione d'amici influenti. Nel 1592 riuscì a farsi assegnare la cattedra di matematica allo Studio di Padova, che tenne per diciotto anni: e furono, com'ebbe a dire più tardi, gli anni più sereni e felici della sua vita, quantunque il bisogno lo costringesse a impartir lezioni private e a tenere numerosi studenti come ospiti paganti, dei quali si libererà soltanto quando, nel 1610, passerà al servizio del granduca di Toscana. All'inizio, a Padova, il suo stipendio fu di 180 fiorini annui; alla fine (quando la fama del suo insegnamento, dei suoi studi sia teorici sia volti alle applicazioni tecniche, e delle sue invenzioni aveva varcato i ristretti limiti della patria), fu di mille fiorini annui, a vita.
Come risulta dai rotuli delle lezioni giunti fino a noi, a Padova insegnò le materie tradizionali: espose gli Elementi di Euclide, VAlmagesto di Tolomeo, le Questioni meccaniche di Aristotele, la Sfera del Sacrobosco; scrisse per gli scolari (e tenne presso di sé un amanuense per trarne copie) la Breve instruzione all' Architettura, il Trattato di Fortificazione, le Mecaniche, il Trattato della Sfera ovvero Cosmografia, nel quale è esposto il sistema tolemaico, quantunque egli già fosse convinto copernicano, come risulta dalla lettera del 4 agosto 1597 a Giovanni Keplero,10 lettera che segnò l'inizio d'un'amichevole e cordiale corrispondenza tra i due grandi astronomi, attraverso la quale si rivelerà la profonda ammirazione, ricambiata con qualche riserva, del Tedesco per l'Italiano. E infatti l'aperta mente scientifica di Galileo mal sopportava le deviazioni astrologiche, le fantasticherie pitagoriche e le molte stramberie che oscurano la geniale opera dell'astronomo tedesco, il quale, quantunque dovesse poi giungere a enunciare le famose leggi cinematiche sul moto dei pianeti, rimaneva figura di transizione tra il vecchio e il nuovo mondo scientifico. Va qui notato per inciso che Galileo lasciò cadere l'invito a una corrispondenza che gli rivolgeva Tycho Brahe, al quale Keplero doveva succedere come astronomo cesareo nel 1601: l'avversione di Galileo per lui, avversione che si rivela più volte nei suoi scritti, è forse dovuta allo schierarsi tra gli anticopernicani del famoso astronomo danese che col peso della sua grande autorità impedì non poco il diffondersi delle nuove idee.
Del periodo padovano sono gli studi sulle calamite, che riprenderà a Firenze; sui problemi di meccanica, che saranno poi rielaborati nelle Nuove Scienze; e dello stesso periodo sono anche l'invenzione d'un «edificio da alzar acque e adacquar terreni», pel quale ottenne un «privilegio» di venti anni; l'invenzione d'un termometro ad aria, che, risentendo gli effetti della pressione oltre che della temperatura atmosferica, dava misure assai incerte, e non fu mai resa nota; il perfezionamento d'un compasso geometrico e militare, specie di primitivo regolo calcolatore, che Galileo dovette difendere contro un plagiario con un processo; e infine l'invenzione del cannocchiale.11
Nel giugno del 1609, mentre si trovava in gita a Venezia, Galileo ebbe notizia di un «occhiale», costruito in Olanda, «col quale le cose lontane si vedevano così perfettamente come se fussero state molto vicine».12 In verità i cannocchiali olandesi s'eran già sparsi per l'Europa e qualcuno n'era giunto anche in Italia; ma eran grossolani, poco più che giocattoli. La sua sorprendente abilità tecnica e le buone lenti che l'industria veneta del vetro gli poteva fornire consentirono a Galileo di costruire, in base alla sola notizia dell'invenzione, un buon cannocchiale e, in seguito, quando egli si trasformò in un vero industriale del nuovo strumento ottico, degli ottimi cannocchiali (naturalmente in relazione ai tempi), che riprodusse a diecine e diecine, e perfino esportò.
Il merito maggiore di Galileo non è però certo nella riscoperta e nel perfezionamento del cannocchiale che porta il suo nome, ma nell'uso prodigioso che ne fece. Lo rivolse al cielo: e in pochi giorni scoprì le asperità della superficie lunare, le miriadi di stelle formanti la Via Lattea, la natura delle nebulose, le più importanti stelle telescopiche che occhio umano abbia mai viste e, nel gennaio 1610, i primi quattro satelliti di Giove, ch'egli, in onore della casa regnante di Toscana, chiamò Astri Medicei. E perché la notizia di tante scoperte fosse rapidamente conosciuta nel mondo dei dotti, in tre giorni scrisse il Sidereus Nuncius. che stampò il 12 marzo, con dedica al granduca di Toscana Cosimo II, già suo allievo: e iniziò le trattative per trasferirsi a Firenze, come primario matematico dello Studio di Pisa e primario matematico e filosofo del granduca, senza obbligo d'insegnamento né di residenza.
Una libertà sconfinata gli era necessaria, perché, cosciente ormai della sua missione, aveva bisogno di tutto il suo tempo per le osservazioni astronomiche, le sensate esperienze, le molte opere che si proponeva di scrivere e, «fatica atlantica», per esporre la struttura nuova dell'universo, «concetto immenso e pieno di filosofìa, astronomia e geometria».13 E voleva affrancarsi dalla schiavitù delle lezioni pubbliche e private, degli studenti (che, costretto a tenere a dozzina, gli violavano l'intimità della casa), dei debiti, della relazione con una donna, la veneziana Marina Gamba, dalla quale gli eran nate due figlie (che in seguito obbligherà a farsi monache in giovanissima età, con una violenza morale che a qualche malevolo ricorda il sinistro episodio manzoniano della monaca di Monza) e un figlio, Vincenzo, che gli sarà sempre a carico.
Prima di trasferirsi a Firenze, quando erano appena cominciati i primi stupiti e ammirati consensi dei «liberi ingegni» e le prime aspre critiche dei retrivi filosofi in libris che tutta la scienza derivavano dalla tradizione aristotelico-scolastica, scoprì (il 25 luglio 1610) la «stravagantissima meraviglia» di Saturno, gli anelli, ch'egli, per la limitata portata del suo cannocchiale, credette due strani satelliti, e scrisse: «la stella di Saturno non è una sola, ma un composto di 3, le quali quasi si toccano né mai tra di loro si muovono o mutano»;14 e vide le macchie solari, che saranno uno degli argomenti contro l'aristotelica incorruttibilità dei cieli.
A Firenze, dove giunse il 12 settembre 1610, scoprì che Venere presenta fasi come la Luna: era questa la prima prova decisiva in favore del sistema copernicano; e Galileo poteva scrivere d'aver così data la soluzione di due grandi questioni dibattute a lungo tra i filosofi: «l'una è che i pianeti tutti sono di loro natura tenebrosi (accadendo anco a Mercurio l'istesso che a Venere): l'altra che Venere necessariissimamente si volge intorno al Sole», e, per analogia, intorno al Sole girano «tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pittagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e in Mercurio».15
Mentre le nuove idee suscitavano polemiche violentissime e sarcastiche, Galileo, ottenute le adesioni dei maggiori astronomi e matematici del tempo (e prima fra tutte quella di Giovanni Keplero, che quando riuscì a vedere i satelliti di Giove con un cannocchiale che Galileo stesso aveva inviato all'Elettore di CoIonia, esclamò, con le estreme parole di Giuliano l'Apostata: «Vicisti, Galilaee!»), volle recarsi a Roma per trar dalla sua i dotti padri gesuiti del Collegio Romano, che, dopo i primi tentennamenti e le prime incerte osservazioni telescopiche fatte con un cannocchiale difettoso e di piccolo ingrandimento, s'accingevano a far sentire la loro autorevole parola d'approvazione. Il viaggio del marzo 1611 a Roma parve ai nemici una fuga: si disse che Galileo era «disperato di poter rispondere e render buon conto delle sue asserzioni»;16 si sussurrò di dissapori a corte: e fu invece un viaggio trionfale. Ospite dell'ambasciatore di Toscana, circondato dai più illustri studiosi dell'Urbe, i padri gesuiti tennero in suo onore un'adunanza accademica alla quale vollero conferire particolare solennità facendo intervenire alcuni cardinali, e confermarono, se pure con qualche insignificante riserva, tutte le sue scoperte scientifiche; il papa Paolo V lo ricevette con benignità e «non comportò» ch'egli dicesse «pure una parola in ginocchioni»;17 alti prelati, aristocratici, «litterati» vollero guardare col portentoso «occhiale» il cielo e ascoltare la sua parola avvincente che dava incaute anticipazioni sulla vera struttura dell'universo. Il cardinale Maffeo Barberini (il futuro papa Urbano Vili che poi lo perseguiterà sino alla morte e oltre) scrisse della «virtù ond'era ornato il signor Galileo»18 e la sua ammirazione esprimerà in seguito in versi latini; l'austero cardinale Bellarmino, pur non accettando se non come ipotesi le nuove idee, non disdegnò d'accostare l'occhio al «cannone overo ochiale» del «valente matematico»; e l'ammirazione generale veniva riassunta dal cardinale Del Monte in una lettera al granduca di Toscana, che concludeva : «se noi fussimo ora in quella Republica Romana antica, credo certo che gli sarebbe stata eretta una statua in Campidoglio, per onorare l'eccellenza del suo valore».19
Ma s'erano anche già destate le prime diffidenze dell'Inquisizione20 e i primi sospetti di eresia intorno all'irruente e ignaro innovatore, ché «la sua dottrina non dette un gusto che sia a' Consultori et Cardinali del Santo Offizio», i quali, se Galileo si fosse trattenuto troppo a lungo a Roma, «non arebbono potuto far di meno di non venire a qualche giustificazione de' casi suoi».21
L'anno successivo (1612) pubblicò un Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono; e contro un Apelle (pseudonimo del gesuita Cristoforo Scheiner, che gli contestava la scoperta delle macchie solari, e diverrà in seguito suo fiero nemico), scrisse l’Istoria e dimostrazione intorno alle macchie solari e loro accidenti, in forma di tre lettere a Marco Welser, duumviro di Augusta.22 Dai moti apparenti delle macchie dedusse che il Sole gira intorno al suo asse in circa un mese e, con una suggestiva ma falsa ipotesi, ne arguì che, quasi cuore del mondo, si trascinasse nel suo giro tutti i pianeti, Terra compresa. I moti della Terra erano però in disaccordo non solo con la dottrina aristotelica, ma anche col significato letterale di alcuni passi delle Sacre Scritture: e Galileo, attaccato nelle scuole e dal pulpito, prima di stendere la grande opera sul sistema del mondo si vide costretto a interpretare la Bibbia e a porre i limiti tra scienza e fede. Come già aveva tentato Giordano Bruno, egli, in una lettera del 1613 al Castelli e poi, più ampiamente, in altra del 1615 a madama Cristina di Lorena,23 pose la sottile distinzione della doppia rivelazione divina della verità, l'una consegnata nei Libri Sacri, l'altra razionale: la prima, dominio della religione, da non interpretarsi nel significato letterale; la seconda, dominio della scienza, scritta in linguaggio matematico nel gran libro della natura. E rivendicava così l'indipendenza della scienza dalla religione, il diritto alla libera ricerca scientifica.
La lettera al Castelli, diffusa manoscritta, suscitò scandalo e collera nel clero fiorentino. Denunciato segretamente da un domenicano al Sant'Ufficio, Galileo, avuto sentore che la teoria copernicana sarebbe stata condannata, corse ai ripari: si rivolse ad amici influenti, si professò cattolico osservante, scrisse il Discorso del flusso e reflusso del mare, nel quale spiegava (erroneamente) il fenomeno delle maree come dovuto ai moti annuo e diurno della Terra, accorse a Roma, ove, tra i molti maneggi, le molte noie e le ansie, trovò anche modo di darsi bel tempo, tanto da provocare le proteste dell'ambasciatore di Toscana, che, costretto a ospitarlo d'ordine del granduca, trovava ch'egli menava «una pazza vita» e «la spesa era grossa», e la sua permanenza a Roma, fastidiosa e pericolosa: «egli ha un humore fisso di scaponire i frati, et combattere con chi egli non può se non perdere»; e prima o poi sarebbe «cascato in qualche stravagante precipizio».24
E infatti la tesi galileiana non fu accolta. Il 24 febbraio 1616 gli undici teologi cui il Sant'Ufficio aveva affidato l'esame delle proposizioni sull'immobilità del Sole e i moti della Terra, che sono alla base della teoria copernicana, all'unanimità trovarono stolta, assurda e formalmente eretica la prima, perché repugnante alle Sacre Scritture; assurda e falsa in filosofia e al minimo erronea nella fede la seconda. Due giorni più tardi il cardinale Roberto Bellarmino, d'ordine del pontefice, ammoniva Galileo perché abbandonasse l'opinione censurata, e gl'intimava, pena il carcere, di non insegnarla né difenderla in alcun modo, a voce o per iscritto.
Seguirono anni di dubbi e di cruccio, per Galileo, finché un eccezionale avvenimento astronomico lo trasse dal silenzio sdegnoso che s'era imposto: nel 1618 l'apparizione di tre comete destò nei profani e negli studiosi un generale interesse per l'astronomia; e tra gli altri il gesuita Orazio Grassi, matematico del Collegio Romano, tenne con qualche successo una Disputatio astronomica, retoricamente fiorita, sostenendo, con procedimento logico-scolastico, ma anche in base a osservazioni dirette, la recente teoria di Tycho Brahe, secondo la quale le comete sono corpi d'origine celeste. I padri gesuiti, e per loro il Grassi (che non firmò neppure la sua pubblicazione), confermavano l'ipotesi ticonica, perché, tra l'altre, le teste delle comete, viste attraverso il cannocchiale, non apparivano ingrandite: e ne desumevano, com'è in realtà, che le loro distanze dalla Terra dovessero essere superiori a quelle della Luna. Galileo, quantunque non avesse potuto osservare le comete perché infermo, sollecitato da più parti, fece leggere nel 1619 all'Accademia fiorentina dal suo discepolo e amico Mario Guiducci un Discorso delle Comete, da lui ispirato e anche in gran parte scritto, nel quale, dichiarata «vanissima e falsa» l'opinione dei dotti padri, suggerisce, con giustificata riserva, l'ipotesi che la cometa sia «non cosa reale, ma solo apparente», come gli arcobaleni e gli aloni solari e lunari, effetto ottico dei riflessi della luce solare su masse di vapori elevantisi dall'atmosfera terrestre. A tale ipotesi erronea, Galileo, sia pur titubante, era spinto dalla repugnanza d'introdurre le comete, coi loro irregolari moti apparenti, nell'armonia dei corpi celesti, ai quali l'ipotesi copernicana, come la tolemaica, attribuiva moti circolari e uniformi (Galileo non aveva accettate le orbite ellittiche planetarie di Keplero). L'anno medesimo il padre Grassi rispose, celandosi sotto il pseudonimo di Lotario Sarsi, con lo scritto Libra astronomica ac philosophica, retorico e mordace, che ignorando il Guiducci, si rivolge direttamente a Galileo. Il titolo, a detta dell'autore, era stato suggerito dalla cometa stessa, la maggiore delle tre, che apparendo nella Libra (in verità era apparsa nello Scorpione), gli indicava di pesare con giusta bilancia le affermazioni del Discorso delle Comete. Galileo, accettando la metafora, rispose con II Saggiatore: invece di una comune bilancia, egli si sarebbe servito di quella «esquisita» dei saggiatori d'oro, quantunque, dal nome della costellazione nella quale era apparsa la cometa, il libro del Sarsi avrebbe dovuto chiamarsi: L'astronomico e filosofico Scorpione.
Il Saggiatore,
Considerato il capolavoro polemico di Galileo, Il Saggiatore - quantunque erroneo nella sua ipotesi generale sulle comete e nelle conclusioni su altri argomenti di non lieve importanza, che il suo avversario aveva visto meglio, e quantunque, tra gli scritti galileiani, il più povero di contenuto scientifico - è vivo per l'eleganza dello stile, per l'alacrità dialettica, per la critica al principio d'autorità e ai procedimenti logici della dottrina tradizionale: e, soprattutto, per l'enunciazione dei principi basilari del metodo matematico- sperimentale.
Il Saggiatore
In luogo di carcere, dopo una breve permanenza a Roma, gli fu assegnato il palazzo dell'arcivescovo di Siena, Ascanio Picco- lomini, ch'ebbe per lui affetto e cure filiali, e infine, nel dicembre, gli fu concesso di far ritorno in Arcetri (ma sempre da prigioniero), nella villa che, per star vicino alle figlie monache, aveva preso in affitto qualche anno prima. E in quella villa, ch'egli chiamava «mio continuato carcere ed esilio», sotto l'occhio vigile dell'Inquisizione, riprese e portò a termine il capolavoro scientifico, col quale gettava le basi della dinamica moderna, il trattato delle Nuove Scienze, edito nel 1638 in Leida, dagli Elzeviri, quando l'autore era già cieco da un anno.
Con la mente lucida fino agli ultimi giorni, insonne per le sofferenze del corpo esausto e pel bisogno d'approfondire sempre più i molti problemi che gli si susseguono nella mente, malato e sempre insoddisfatto, scrive: «E così nelle mie tenebre vo fantasticando or sopra questo or sopra quello effetto di natura, né posso come vorrei dar qualche quiete al mio inquieto cervello: agitazione che molto mi nuoce, tenendomi poco meno che in perpetua vigilia,»28
E in quella poco meno che perpetua vigilia suggerisce al figlio il modo di costruire l'orologio a pendolo: detta le mirabili Operazioni Astronomiche, nelle quali addita agli scienziati futuri la via da seguire e tutto l'immenso lavoro di revisione da compiere per mezzo dei due strumenti di cui li ha arricchiti per l'indagine del cielo, il cannocchiale e il pendolo: e detta la lettera Sopra il candore della Luna, limpida, serena, arguta, nella quale il suo spirito sarcastico dà gli ultimi guizzi.
A metà novembre del 1641 un visitatore lo trovò a letto «con una febbriciattola lenta lenta» e continua che durava da dieci giorni. «Questi mali, alla sua età, mi par che devano far temer della sua vita», scriveva il visitatore. «Egli con tutto ciò discorre con l'istessa franchezza che facea fuori del letto»;29 e «con grandissimo gusto» amava ascoltare le discussioni dei suoi due ultimi giovani discepoli, il Viviani e il Torricelli, che amorosamente lo assistevano.
Lo colse la fine così, vigile e sereno, l'8 gennaio del 1642, «a ore quattro di notte, in età di settantasette anni, mesi dieci e giorni venti».30
Due settimane più tardi, poiché s'era sparsa la voce che gli sarebbe stato eretto un mausoleo in Santa Croce, il cardinale Barberini scriveva all'Inquisitore di Firenze: «Sua Beatitudine, col parere di questi miei Eminentissimi, ha risoluto che ella, con la sua solita destrezza, procuri di far passare all'orecchie del Gran Duca che non è bene fabricare mausolei al cadavero di colui che è stato penitenziato nel Tribunale della Santa Inquisizione, et è morto mentre durava la penitenza, perché si potrebbono scandalizzare i buoni.»31
Delle quattro opere fondamentali di Galileo (Sidereus Nuncius, Il Saggiatore, Dialogo dei Massimi Sistemi, Discorsi delle Nuove Scienze), le prime tre si danno per intero; dell'ultima, di linguaggio sopra tutto scientifico e matematico, si è fatta una scelta di argomenti ciascuno dei quali sta a sé. Dal vasto epistolario si è tratto un insieme di lettere collegate ai periodi cruciali della vita di Galileo: quelli delle scoperte astronomiche, del «precetto» del 1616, del processo.
Tutti i passi latini sono stati tradotti in nota o a fronte del testo : e la traduzione è di Luisa Lanzillotta.
Attraverso le opere, le lettere e le note, ci si è proposto di mettere in evidenza, in tutta la sua interezza, la complessa figura di Galileo. Si è voluto presentare, cioè, l'astronomo, il fisico, il filosofo del metodo sperimentale, l'interprete dei brani scientifici delle Sacre Scritture, e - sempre – lo scrittore: lo scrittore per la cui prosa il Leopardi ha parlato di «scolpitezza evidente».
L'astronomo «scopritore non di nuove terre, ma di non più vedute parti del cielo» risulta sopra tutto dal Sidereus Nuncius e da un insieme di lettere che del Nuncius ci sembran quasi un necessario complemento, perché dan notizia delle scoperte astronomiche non contenute in esso: Saturno tricorporeo, le fasi di Venere, le macchie e le facole solari, la rotazione del Sole; il filosofo del metodo matematico-sperimentale s'esprime maggiormente nel Saggiatore; il sottile interprete dei brani scientifici della Bibbia appare dalle lettere al Castelli, al Dini, a madama Cristina di Lorena; il fisico, fondatore della dinamica, dalle Nuove Scienze e dal Dialogo dei Massimi Sistemi.
Del Galileo letterato, autore di versi e critico del Tasso e dell'Ariosto, non si è creduto opportuno includere brano alcuno : e potrebbe sembrare una mutilazione arbitraria. In verità si tratta di scritti non destinati dall'autore alla pubblicazione, e son per la più parte esercitazioni giovanili.
Nel Saggiatore si legge: «Tocca a me ... lo stampar le cose mie e farle pubbliche al mondo: e perché, quando (come pur talora accade) alcuno nel corso del ragionar dicesse qualche vanità, deve esser chi subito la registri e stampi, privandolo del beneficio del tempo e del potervi pensar sopra meglio, e da per se stesso emendare il suo errore e mutare opinione, ed in somma fare a suo talento del suo cervello e della sua penna?»
Sul Tasso aveva mutato opinione: il beneficio del tempo non v'è stato per quelle «vanità» che sono gli scritti letterari, perché, dopo la scoperta del cannocchiale, gl'interessi di Galileo eran di tutt'altra natura: e si volgevano agli astri, alle esperienze, all'interpretazione dei fenomeni naturali, alla scoperta delle leggi fisiche.
Ma i risultati di tutte queste sue ricerche sono espressi con «scolpitezza evidente» nella sua prosa scientifica: e in essa va studiato il letterato.
1 Lettera del 19 marzo 1610 a Belisario Vinta, in G.G., Opp., X, p. 302. (Con G. G., Opp., si cita l'Edizione nazionale delle opere di Galileo, a cura di Antonio Favaro, in 20 voll., Firenze, Barbera, 1890-1909; il numero romano indica il volume e il numero arabico la pagina.)
2 Lettera del 19 novembre 1634 a Fulgenzio Micanzio, cfr. G. G., Opp., XVI, p. 163.
3 Cfr. G. G., Opp., III, p. 398.
4 Così si legge sul frontespizio della più parte delle sue pubblicazioni e delle pubblicazioni paterne.
5 Crf. Vincenzo Viviani, Racconto istorico della vita di Galileo, in G.G., Opp., XIX, p. 602.
6 La lampada vicina al celebre pulpito di Giovanni Pisano che in quel Duomo vien detta di Galileo, in realtà è posteriore di quattro anni, chè, modellata dal Lorenzi ed eseguita dal Possenti, fu collocata a posto il 20 dicembre 1587, mentre la scoperta galileiana è del 1583.
7 A proposito della critica al Tasso, scrive Vincenzo Monti nella lettera del 15 marzo 1816 al generale Saurau governatore di Milano (cfr. Epistolario a cura di A. Bertoldi, Firenze, Le Monnier, 1929, IV, p. 278): «E fu cosa maravigliosa il vedere I'Accademia della Crusca, costretta dall'onnipotenza dell’opinion pubblica, canonizzare per autor classico anche Torquato Tasso, quel Tasso che dai fondatori della stessa Accademia era stato sì rabbiosamente straziato e coperto di villanie; alle quali pose il colmo miseramente lo stesso gran Galileo, acciocché i posteri s'accorgessero ch'egli pure era uomo». In verità le Considerazioni al Tasso sono esercitazioni letterarie giovanili non destinate alla pubblicazione: e invece reminiscenze tassesche d'altro tenore si trovano qua e là nelle opere di Galileo da lui date alle stampe; e, per esempio, nel Dialogo dei Massimi Sistemi si legge: «come leggiadramente cantò il Poeta sacro», ecc.
8 Cfr. Galileo Galilei, Scritti letterari a cura di Alberto Chiari, Firenze, Le Monnier, 1943.
9 Sul padre Clavio, vedi la lettera V contenuta in questo volume.
10 Da una lettera a Iacopo Mazzoni, in data 30 maggio 1597, risulta che Galileo era già copernicano sin dal tempo del suo insegnamento a Pisa. Cfr. G.G. Opp., II, pp. 197-202.
11 Sul cannocchiale si tornerà nel Sidereus Nuncius, nel Saggiatore e nelle lettere.
12 Cfr. G. G., Opp,, VI, pp. 252 sgg.
13 Lettera a Belisario Vinta del 7 maggio 1610, in G. G., Opp., x, p. 351.
14 Lettera a Belisario Vinta del 30 luglio 1610, in G. G., Opp., x, p. 410.
15 Lettera a Giuliano de’ Medici, in data 1° gennaio 1611, in G. G., Opp., XI, p. 12.
16 Lettera a Filippo Salviati del 22 aprile 1611, in G. G., Opp., xi, pp. 89-90.
17 Cfr. nota precedente.
18 Lettera di Maffeo Barberini a Michelangelo Buonarroti, del 2 aprile 1611, in G. G., Opp., xi, p. 80.
19 Lettera di Francesco Maria Del Monte a Cosimo II, del 31 maggio 1611, in G. G., Opp., xi, p. 119.
20 Dal Sant'Ufficio, il 17 maggio veniva chiesto all'Inquisitore di Padova se nel processo in corso contro il peripatetico Cesare Cremonino, accusato di ateismo ed eresia, fosse nominato Galileo. Cfr. G. G., Opp., XIX, p. 275.
21 Lettera dell'ambasciatore Piero Guicciardini al segretario di stato Curzio Picchena, in data 5 dicembre 1615, in G. G., Opp., XII, p. 207.
22 Le lettere annuncianti le scoperte su Saturno, su Venere e sul Sole sono contenute in questo volume (III, IV, V, Vi, VII, VIIIa.b.c) e son come un complemento del Sidereus Nuncius.
23
24 Lettera di Piero Guicciardini a Curzio Picchena, in data 13 maggio 1616, in G. G., Opp., XII, p. 259.
25 Lettera del Campanella a Galileo del 5 agosto 1632, in G. G., Opp., xiv, p. 366.
26 La tradizione popolare vuole che, dopo l'abiura, Galileo, sorto in piedi, abbia esclamato: «Eppur si muove!».
27 La sentenza e l'abiura son riportate in appendice al presente volume; nelle note alle lettere XV, XVI, XVII, XVIII, XIX, XX, XXI, XXII, XXIII è raccontato il processo.
28 Lettera a Fulgenzio Micanzio del 30 gennaio 1638 in G. G., Opp., XVII, p. 271.
29 Lettera di Pier Francesco Rinuccini a Leopoldo de' Medici in Siena, 15 novembre1641, in G.G., Opp.,XVIII, p.368.
30 Vincenzo Viviani, op. cit., in G. G., Opp., XIX, p. 623.
31 Lettera di Francesco Barberini a Giovanni Muzzarelli del 25 gennaio 1642, in G. G., Opp., XVIII, pp. 379-80.