Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Offrendo un’interpretazione realistica del copernicanesimo, Galileo rifiuta la distinzione fra astronomia “matematica” e astronomia “fisica” ed entra ben presto in conflitto con le autorità ecclesiastiche, che consentono di presentare l’eliocentrismo solo come un’ipotesi capace di “salvare le apparenze”. Nella chiusa del Dialogo, dopo aver presentato l’obiezione scettica di papa Urbano VIII fondata sull’onnipotenza divina, Galileo replica che la ricerca scientifica è un “esercizio” forse vano, ma comunque “permessoci e ordinatoci da Dio”.
All’inizio del 1610 Galileo Galilei decide di lasciare l’università di Padova per trasferirsi a Firenze alla corte di Cosimo II de’ Medici, cui ha appena dedicato il Sidereus Nuncius, l’opera nella quale annuncia le sue rivoluzionarie scoperte astronomiche. Nella lettera inviata il 7 maggio al segretario di Stato del granduca, Galileo spiega il suo proposito di lasciare l’insegnamento per dedicarsi completamente alla ricerca, che dichiara di voler sviluppare in due direzioni, concentrandosi da un lato in una “scienza interamente nuova” relativa al moto dei corpi, dall’altro nella stesura di un’opera “De Systemate seu constitutione universi, concetto immenso e pieno di filosofia, astronomia et geometria”. Oltre a dimostrare che nel 1610 Galileo ha già chiaramente delineato il piano di lavoro che lo condurrà a scrivere le sue due opere maggiori – il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, pubblicato nel 1632, e i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, composti negli anni della vecchiaia, dopo il trauma della condanna del 1633 – questa lettera esprime chiaramente un’idea cui Galileo attribuisce una particolare importanza: quello del “sistema del mondo” è un problema non solo astronomico ma filosofico. Non per nulla durante le trattative con la corte medicea Galileo non si limita a chiedere un buono stipendio e l’esenzione dall’obbligo di risiedere a Pisa e di farvi lezione, ma pretende di assumere un titolo preciso: “Primario Matematico dello Studio di Pisa e Primario Matematico e Filosofo del Granduca di Toscana”.
Il desiderio di essere riconosciuto come un autentico “filosofo” è connesso alla convinzione che le osservazioni da lui compiute grazie al telescopio rappresentino una conferma decisiva del copernicanesimo, che ormai gli appare come un’ipotesi non solo plausibile, ma la cui verità può essere dimostrata tramite argomenti razionali e “sensate esperienze”. Questa fiducia è forse, a quella data, un po’ eccessiva, ma non vi è dubbio che le osservazioni del suolo della Luna, che ne hanno evidenziato la natura “terrestre”, hanno dato un colpo durissimo al principale presupposto della cosmologia aristotelica, cioè la distinzione fra i quattro elementi di cui è costituito il mondo sublunare e la “quintessenza” di cui è formato il mondo celeste; la scoperta dei satelliti di Giove ha falsificato definitivamente l’idea che tutti i corpi celesti debbano muoversi di moti circolari uniformi intorno alla Terra; e l’osservazione delle fasi di Venere ha evidenziato un fenomeno inspiegabile all’interno del sistema geocentrico di Aristotele e Tolomeo ma perfettamente comprensibile all’interno di un sistema eliocentrico.
Dopo il suo trionfale viaggio a Roma del 1611, durante il quale non solo i soci dell’Accademia dei Lincei – della quale entra a far parte – ma anche numerosi prelati e studiosi gesuiti gli manifestano il loro consenso, Galileo è fiducioso di poter superare definitivamente la scissione fra l’astronomia “matematica”, che si propone di “salvare i fenomeni” e si limita a ricercare l’accordo fra le proprie ipotesi e i dati osservativi, e l’astronomia “fisica”, che pretende invece di giungere a una ricostruzione dei reali moti celesti.
Introdotta dai commentatori greci di Aristotele e largamente usata nel Medioevo, questa distinzione appare a Galileo non solo discutibile sul piano epistemologico, ma anche pericolosa, visto che viene usata da alcuni suoi contemporanei per diffondere l’idea che Copernico “non stimasse vera la mobilità della Terra”. D’accordo qui con Giordano Bruno e con Keplero, Galileo ritiene del tutto pretestuosa questa lettura del De revolutionibus orbium coelestium del grande astronomo polacco.
Proprio la sua ferma difesa di un’interpretazione realistica della teoria eliocentrica conduce ben presto Galileo a scontrarsi con le autorità ecclesiastiche. In effetti nelle cosiddette lettere copernicane del 1613-1615 Galileo sostiene che i due “libri” scritti da Dio – natura e Scrittura – non possono in alcun modo contraddirsi, ma ne conclude che tocca ai teologi trovare l’autentico significato di quei passi che sembrino in disaccordo con le “conclusioni naturali” dimostrate dalla ragione e dall’esperienza, considerato che, quando non esprime verità teologiche o morali, la Scrittura talvolta si adatta al linguaggio e alle credenze popolari. Egli si richiama qui – come prima di lui avevano fatto altri copernicani – al cosiddetto “principio di accomodazione”, che una consolidata tradizione teologica aveva formulato e che già nel XIV secolo Nicole Oresme aveva applicato a un problema di ordine cosmologico (la rotazione diurna della Terra). Nel clima della Controriforma, tuttavia, mettere in questione il senso letterale della Scrittura significa esporsi a seri rischi. In seguito agli interventi dei domenicani Nicolò Caccini e Tommaso Lorini, che denunciano il copernicanesimo come contrario a esplicite affermazioni del Testo Sacro, nel 1616 il Santo Uffizio qualifica come assurda e “formalmente eretica” la tesi della centralità e immobilità del Sole e “per lo meno erronea” la tesi del moto della Terra, mentre la Congregazione dell’Indice sospende il De revolutionibus di Copernico donec corrigatur e condanna la Lettera in cui il carmelitano Antonio Foscarini ha cercato di mostrare la piena compatibilità fra il sistema eliocentrico e la “cosmologia” biblica. Galileo non viene colpito di persona ma solo ammonito privatamente, per ordine del papa Paolo V, dal cardinale Roberto Bellarmino; di fronte alle dicerie relative a una sua abiura, ottiene persino che il cardinale dichiari per iscritto di avergli solamente notificato il pronunciamento della Congregazione dell’Indice, chiarendogli che la teoria di Copernico non si può “difendere né tenere”. Ciononostante, malgrado Galileo ostenti sicurezza e i suoi amici cerchino di sostenere che la sua fama non è stata lesa, gli eventi del 1616 rappresentano indubbiamente una grave sconfitta: con la sua campagna in favore del copernicanesimo Galileo ha indotto la Chiesa a prendere ufficialmente posizione contro di esso; la teoria eliocentrica non può più essere presentata come vera in filosofia naturale ma solo come una ipotesi matematica capace di “salvare i fenomeni” – secondo la tesi cara a Bellarmino e a numerosi studiosi gesuiti.
Nel 1623 Galileo prende posizione nella controversia sulla natura delle comete pubblicando Il Saggiatore . A distanza di secoli quest’opera appare polemicamente brillante ed efficacissima, ma abbastanza fragile sul piano scientifico (Galileo vi difende, non senza incoerenze, la tesi che le comete sono fenomeni ottici di rifrazione e non oggetti fisici) e controproducente sul piano tattico: sappiamo infatti che il violento attacco contro il padre Orazio Grassi, del Collegio Romano, avrebbe alimentato la crescente ostilità dei gesuiti nei suoi confronti. Resta che proprio nel Saggiatore Galileo chiarisce alcune delle sue fondamentali convinzioni epistemologiche e filosofiche. In particolare, indotto dalla polemica con Grassi a esprimere il suo pensiero sull’origine del calore, Galileo nega che quest’ultimo sia una proprietà intrinseca dei corpi e propone una concezione corpularistica della materia che, pur se presentata con grande cautela (Galileo evita di parlare di atomi preferendo espressioni come “corpicelli minimi” o “minimi quanti”), non avrebbe mancato di suscitare controversie filosofiche e teologiche. Galileo inoltre sostiene che, diversamente dalle qualità primarie dei corpi, le qualità secondarie come i suoni, i colori, gli odori e i sapori non hanno esistenza autonoma ma sono causate dall’azione di particelle di diversa dimensione, forma e numero che colpiscono i nostri organi di senso.
Ne risulta una profonda ridefinizione degli stessi scopi del sapere scientifico. Se infatti ciò che esiste solo per il soggetto percipiente (le qualità secondarie) deriva dai processi che avvengono a livello fisico (cioè nel mondo oggettivo della materia in movimento nello spazio), la scienza deve sforzarsi di comprendere proprio questi processi, tramite strumenti di analisi quantitativa. La natura infatti – come si legge in una pagina celeberrima del Saggiatore – è un libro “scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola”. L’assunzione di un modello della realtà di tipo essenzialmente meccanicistico comporta da un lato l’esclusione di spiegazioni fisiche fondate sull’approccio qualitativo e sull’empirismo “volgare” degli aristotelici, dall’altro conduce a ritenere che la natura sia retta da un ordine di tipo matematico che è accessibile, almeno parzialmente, alla ragione umana. Non per nulla Galileo, che in quanto “persona pia e cattolica” non può non dichiarare che l’ipotesi del moto terrestre sia falsa, nella pagina successiva a quella contenente il passo appena citato confessa che il suo più grande desiderio resta la comprensione della “vera costituzion dell’universo”.
Ora, proprio nel 1623 è stato eletto al soglio pontificio, assumendo il nome di Urbano VIII, il cardinale Maffeo Barberini, da anni ammiratore e protettore di Galileo, che è talmente colpito dalla qualità intellettuale e letteraria del Saggiatore da farselo leggere “a mensa”. Ciò non significa, però, che il nuovo papa condivida l’entusiasmo di Galileo per il copernicanesimo. Al contrario, quando era ancora cardinale (probabilmente già nel 1616), egli aveva mosso a Galileo alcune obiezioni contro quest’ipotesi, la più rilevante delle quali ci è nota tramite la testimonianza del suo “consulente” teologico Agostino Oreggi: ammesso che l’ipotesi eliocentrica sia in grado di dare conto dei fenomeni astronomici – avrebbe detto il Barberini – affermarne la verità significherebbe limitare l’onnipotenza di Dio, che nella sua infinita sapienza e potenza sarebbe sicuramente capace di produrre gli stessi moti apparenti dei corpi celesti che quest’ipotesi descrive assumendo il moto della Terra senza far muovere la Terra. Mentre affonda le sue radici nella riflessione teologica medievale sulla potentia Dei, quest’obiezione ha evidenti esiti scettici, perché conduce a sostenere che nessuna teoria scientifica, per quanto empiricamente verificata, può mai offrire un sapere certo sulla reale struttura del mondo, dal momento che gli stessi effetti potrebbero essere prodotti da Dio in innumerevoli modi non contraddittori, tramite l’azione di cause a noi ignote. Del resto lo stesso Galileo – che nel 1624 passa alcuni mesi a Roma e incontra sei volte il nuovo pontefice – scrive in una lettera che Urbano VIII, pur non ritenendo il copernicanesimo una dottrina “heretica”, la giudica “temeraria” e non suscettibile di essere “mai” dimostrata “necessariamente vera”. Benché un simile giudizio sia difficilmente equivocabile, Galileo spera che sia maturato un clima favorevole alla ripresa della battaglia in favore del copernicanesimo e riprende il progetto di scrivere un libro de systemate mundi, contenente – come scrive nel 1629 a Elia Diodati – “una amplissima confermazione del sistema Copernicano”.
Le lunghe e complesse trattative per ottenere il permesso di pubblicare questo libro portano Galileo a dargli un titolo diverso da quello originariamente proposto, a modificare alcuni passi, a inserirne altri. In particolare Galileo concorda con il maestro del Sacro Palazzo Niccolò Riccardi sia la chiusa dell’opera – nella quale deve menzionare l’obiezione teologica di Urbano VIII – sia l’epistola “Al discreto lettore”, nella quale, dopo aver fatto riferimento al cosmologia aristotelicasalutifero editto” del 1616, annuncia di aver preso “la parte Copernicana, procedendo in pura ipotesi matematica” e di averla difesa con osservazioni e argomentazioni “le quali però servano per facilità d’astronomia, non per necessità di natura”. In realtà, pur facendo spesso sapiente uso di alcune metafore tipiche della “cultura della dissimulazione”, Galileo consacra il Dialogo alla dimostrazione della verità del sistema cosmologico eliocentrico. In effetti egli offre una trattazione semplificata dell’astronomcosmologia aristotelica copernicana, trascurando i problemi della cinematica planetaria brillantemente risolti da Keplero nell’Astronomia nova del 1609 con la teoria delle orbite ellittiche, e attenendosi invece a un modello che prevede orbite circolari attorno al Sole. I punti che Galileo maggiormente approfondisce sono invece tre: in primo luogo mostra che la cosmologia aristotelica è intrinsecamente contraddittoria e risulta ormai incompatibile con molteplici dati osservativi, che consentono di abolire la distinzione fra mondo sublunare e superlunare; in secondo luogo afferma che, di conseguenza, bisogna costruire una sola fisica, valida sia per il mondo terrestre che per quello celeste; in terzo luogo formula una complessa spiegazione del fenomeno delle maree, che considera la prova “fisica” del moto della Terra.
Nel far ciò, Galileo non solo introduce fondamentali innovazioni fisiche – il principio della relatività dei movimenti; l’idea che il moto è uno stato, come la quiete, e non un processo come per gli aristotelici; la tesi dell’inerzialità dei moti (circolari) – ma conferma la sua fedeltà a una concezione realista della conoscenza scientifica. Le formule di prudenza e l’abile scambio di battute fra i diversi interlocutori non riescono infatti a celare che Galileo, confrontati il sistema tolemaico e quello copernicano, lascia chiaramente trasparire il suo orientamento a favore di quest’ultimo. Del resto nella Giornata Terza il personaggio che più spesso nel Dialogo esprime le idee di Galileo, cioè Salviati, dichiara sì di voler solo “proporre quelle ragioni naturali ed astronomiche le quali per l’una e per l’altra posizione possono [...] addursi, lasciando ad altri la determinazione”; ma si affretta ad aggiungere che tale determinazione “non dovrà in ultimo esser ambigua”, perché una delle due “costituzioni” del mondo deve “esser necessariamente vera e l’altra necessariamente falsa”, e “impossibil cosa è che (stando però tra i termini delle dottrine umane) le ragioni addotte per la parte vera non si manifestino altrettanto concludenti, quanto le in contrario vane ed inefficaci”. Questo passo, non a caso segnalato dai censori, rivela uno dei punti di forza della strategia argomentativa di Galileo, spesso trascurato da quanti insistono – in modo tutt’altro che disinteressato – sul presunto “dogmatismo” di Galileo, che avrebbe difeso la verità del copernicanesimo senza averne la “prova” e si sarebbe mostrato più ingenuo, sul piano epistemologico, dei suoi avversari ecclesiastici. In realtà Galileo riduce abilmente la scelta fra le due grandi ipotesi astronomiche (quella tolemaica e quella copernicana) all’alternativa fra due proposizioni contraddittorie (“la Terra non si muove”/“la Terra si muove”), e così facendo si mette in condizione di rifiutare l’equivalenza fra le ipotesi e di applicare il principio del terzo escluso.
Introducendo la decisiva clausola “stando però tra i termini delle dottrine umane” egli è attento a riconoscere – in linea con le preoccupazioni teologiche del pontefice – che la struttura reale del mondo potrebbe essere diversa da quanto la scienza ci permette di scoprire. A suo avviso, però, una simile eventualità può essere presa in considerazione solo se si esce dal terreno della valutazione razionale delle teorie, che impone di considerare vero ciò che ha a suo favore argomenti “concludenti” e falso ciò che si appoggia su argomenti confutabili. E poiché gli argomenti a favore della cosmologia geostazionaria lo sono tutti, mentre l’osservazione presenta molteplici fenomeni astronomici e fisici che Galileo ritiene spiegabili solo attraverso l’ipotesi del moto terrestre, egli si sente pienamente legittimato a considerare quest’ultima scientificamente vera.
In questa prospettiva va letta anche la chiusa del Dialogo, contenente l’argomento di Urbano VIII, che Galileo inserisce come gli è stato espressamente ordinato dal Maestro del Sacro Palazzo, ma mette in bocca a Simplicio, il portavoce degli aristotelici, e poi fa commentare da Salviati, suscitando le malevole insinuazioni dei suoi nemici e la reazione irritata del pontefice, dei suoi più stretti collaboratori e dei censori. È infatti troppo semplicistico spiegare il processo e la condanna del 1633 come il frutto del risentimento di un pontefice ferito nell’orgoglio dalla scoperta che il grande scienziato pisano, da lui sempre favorito, lo ha sbeffeggiato, facendo esporre la sua prediletta obiezione anticopernicana da Simplicio, cioè mettendo – per riprendere la celebre formula di uno dei capi di accusa del 1632 – “la medicina del fine in bocca di un sciocco”. Lungi dall’essere riducibile al piano psicologico, il conflitto fra Galileo e Urbano VIII ha una profonda dimensione teorica. In effetti sappiamo ormai che il trattamento riservato da Galileo all’obiezione formulata dal pontefice è il punto di approdo di una strategia argomentativa sottile e complessa. Nel corso del Dialogo Galileo usa ripetutamente il motivo dell’onnipotenza di Dio ma in senso tutt’altro che anticopernicano, evocandolo per risolvere le difficoltà fisiche della sua ipotesi “platonica” di formazione del cosmo, per combattere l’antropocentrismo e il geocentrismo di Aristotele e di Tolomeo, per difendere la plausibilità del modello eliocentrico. Inoltre egli chiarisce che questo motivo teologico non deve essere impiegato per trasformare la fisica e la cosmologia in pura analisi di situazioni “immaginabili”, di “casi soprannaturalmente possibili”, secondo il metodo tipico della filosofia naturale del XIV e XV secolo, ripreso e sviluppato ancora nel XVII da alcuni studiosi gesuiti, come Christopher Scheiner, le cui Disquisitiones mathematicae vengono sprezzantemente criticate per pagine e pagine nella Giornata Seconda. Dopo aver fatto presentare a Simplicio l’argomento di Urbano VIII, Galileo mette in bocca a Salviati un commento che i censori hanno trovato freddo, che gli storici contemporanei hanno valutato in modi assai diversi (sincero, ironico, inopportuno ecc.), e che rappresenta in realtà una cauta ma inequivocabile presa di distanze dal pontefice. Pur lodando la “mirabile e veramente angelica dottrina” presentata da Simplicio, Salviati infatti lascia intendere che essa va integrata con un’altra dottrina altrettanto “divina”, “la quale, mentre ci concede il disputare intorno alla costituzione del mondo, ci soggiugne (forse acciò che l’esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca) che non siamo per ritrovare l’opera fabbricata dalle Sue mani”. Galileo si riferisce qui alla versione vulgata di un versetto dell’Ecclesiaste (3,11: “et mundum tradidit disputationi eorum ut non inveniat homo opus quod operatus est Deus ”) che numerosi copernicani – lui incluso – hanno usato per difendere la libertas philosophandi. Per bocca di Salviati, Galileo presenta nuovamente questo versetto come un invito a proseguire le discussioni “intorno alla costituzione del mondo”, precisando che Dio avrebbe prescritto all’uomo questo compito senza garantirgli che riuscirà a “ritrovare l’opera fabbricata dalle Sue mani”, per evitare che cada in uno stato di inedia intellettuale (“forse acciò che l’esercizio delle menti umane non si tronchi o anneghittisca”). Una simile interpretazione di Ecclesiaste 3,11 non è diffusa all’epoca, e Galileo la trae con ogni probabilità da una fonte precisa, che credo di aver identificato, cioè il commento alla Sfera di Cristoforo Clavio. È quindi lecito sospettare che, mentre come concordato menziona l’obiezione teologica formulata dal pontefice, Galileo velatamente gli risponda lasciandogli intendere che secondo un celebre passo della Scrittura – letto come lo intendeva il più grande matematico e astronomo gesuita del tempo, contrario al copernicanesimo ma difensore di una concezione realista delle teorie astronomiche – la ricerca scientifica è un “esercizio” forse vano, ma “permessoci ed ordinatoci da Dio”. Non può stupire che tanto ardire non sia rimasto impunito.