GALGANO
Fu vescovo di Volterra dal 1150 al 1170 circa: non si hanno notizie antecedenti al suo episcopato. Altrettanto ignota è l'origine familiare: una presunta appartenenza di G. al potente casato comitale dei Pannocchieschi, affermata una prima volta nel sec. XVI dall'erudito L. Falconcini (cfr. Ammirato), ha goduto di largo credito presso storici quali F. Schneider, G. Volpe ed E. Fiumi e fino a tempi recenti. Di fatto, però, nessun documento ne attesta la veridicità, mentre numerose sono le testimonianze dei contrasti che G. ebbe con esponenti di quella famiglia. Non è neanche dimostrabile la sua appartenenza alla famiglia Inghirami, come vuole un'altra tradizione erudita riconducibile a Curzio Inghirami e a S. Ammirato il Giovane. Sulla base dei documenti oggi disponibili è perciò preferibile limitarsi a definire G. con il solo nome di battesimo, cercando di caratterizzarlo attraverso gli atti a lui attribuibili.
L'episcopato di G. seguì a quello di Adimaro, l'ultima menzione documentaria del quale risale al 6 ott. 1146, data che, pertanto, costituisce il terminus post quem dell'elezione di Galgano. Questa si pone entro i limiti di un periodo di quasi quattro anni, essendo del 3 ag. 1150 il primo documento noto che faccia riferimento a G. come vescovo.
G. rappresenta una figura centrale nella storia di Volterra: fu infatti sotto di lui che il potere temporale dei vescovi di questa città, sviluppatosi a partire dal IX secolo, pervenne al suo culmine. Grazie soprattutto alla forza finanziaria assicurata dal possesso da parte dell'episcopato delle ricche miniere argentifere di Montieri nella Val di Merse, il ventennio di G. si caratterizzò principalmente per gli ingenti acquisti di terra.
Il già ricordato atto del 3 ag. 1150 riguarda un'area strategica come la Val di Merse: si tratta di una donazione del conte Marzucca di Ugolino Pannocchieschi della quarta parte dei suoi beni nella località di Mistenna, presso Chiusdino. Appena un mese dopo sono i conti Alberti, nelle persone di Alberto di Nontigiova e di sua madre Orrabile, a vendere a G. i propri possedimenti di Montevaso, un antico castello già dei conti Cadolingi, posto tra le valli del Fine e dello Sterza, lungo il confine con l'arcidiocesi pisana. In questo caso il passaggio di proprietà assume anche una chiara valenza politica, dal momento che su Montevaso era sorta quello stesso anno un'accesa controversia tra i due prelati da cui era scaturito perfino uno scontro militare tra Pisani e Volterrani. La crisi si risolse negativamente per G. in seguito alla sentenza di un giudice nominato dal papa Eugenio III.
Lungo tutto il suo episcopato G. cercò di imporre una stabile supremazia sul vasto territorio della diocesi, venendo in tal modo a misurarsi con le diverse forze antagoniste che gravitavano sulla stessa area: famiglie di conti e di feudatari, vescovi delle diocesi circonvicine, abati dei maggiori monasteri, e, infine, Comunità urbane emergenti, tra cui in primo luogo quella di Volterra.
Intensi furono i rapporti con il casato dei Pannocchieschi, i cui rami erano dislocati in molteplici zone della diocesi. Nel 1161, ad esempio, con i Pannocchieschi di Laiatico, capeggiati dal conte Guglielmo di Rinuccino, G. concluse una complessa operazione, che gli permise di consolidare notevolmente il suo potere nella parte settentrionale della diocesi. In cambio di 30 lire, della terza parte del castello di Montecerboli in Val di Cecina e di un tributo annuo in natura, il vescovo acquistò i beni comitali situati in diverse terre della Valdera, tra cui Montecuccari e Laiatico. A ciò si aggiunse un atto di donazione con il quale il conte gli alienò altri consistenti possedimenti in quell'area, e in particolare nella corte di Chianni.
Tuttavia è con l'altra linea del casato - quella già menzionata a proposito della donazione di Mistenna -, che il destino di G. sembra intrecciarsi più strettamente. Ma se nel 1150 i Pannocchieschi avevano elargito beni al vescovo, pochi anni dopo uno di loro, Ranieri detto Pannocchia, si oppose duramente al suo espansionismo, impegnandosi in una lunga disputa per il controllo di due castelli della Val di Cecina, Gerfalco e Travale, nella quale, alla fine, sarebbe stato coinvolto anche un altro grande casato comitale, gli Aldobrandeschi.
La vertenza trova testimonianza documentaria a partire dal 1156, quando gli arbitri nominati dai due contendenti incaricarono due delegati di procedere a un'equa spartizione dei coloni di Gerfalco, che erano stati sotto il potere dei visdomini di Massa, e che ora erano oggetto di lite fra vescovo e conte. Su questa base il 29 marzo dello stesso anno si giunse a un accordo che assegnò a G. un certo numero di coloni e di terre, lasciando il resto a Ranieri. Due anni dopo, però, la questione appare nuovamente irrisolta. Il riaprirsi della controversia era dovuto, a quanto si può arguire, al tentativo di G. di appropriarsi di beni che il lodo del 1156 aveva assegnato al Pannocchia. Il papa Adriano IV, chiamato a intervenire, rimise tutto nelle mani del vescovo di Grosseto Pietro, il quale a sua volta nominò, nel maggio del 1158, una sorta di tribunale composto da quattro personaggi eminenti. La sentenza stabilì l'elenco esatto di coloni da sottomettere al vescovo e la cifra che quest'ultimo avrebbe dovuto versare al conte. Gerfalco e altre località minori vennero suddivise fra le due parti. I documenti dei mesi successivi mostrano come Ranieri non avesse accettato il nuovo verdetto, per cui si resero necessari ulteriori pronunciamenti arbitrali. Non è noto l'esito di questi procedimenti, tuttavia la documentazione superstite ci consente di seguire ulteriormente la vicenda nel 1162, quando intorno ai beni di Gerfalco si scatenò una nuova disputa, stavolta con la partecipazione di un terzo contendente, il conte Ildebrandino Aldobrandeschi. I consoli del Comune di Siena, chiamati a pronunciarsi in merito, assegnarono un terzo del castello e della sua corte a ciascuna delle parti in causa, distinguendo però il libero possesso riconosciuto a G. e al conte Ildebrandino nelle rispettive spettanze, dallo iure feudi che venne stabilito per il Pannocchieschi. Un anno più tardi quest'ultimo dovette promettere solennemente di non contestare l'assegnazione feudale che gli era stata destinata, alla quale, probabilmente, non si era ancora rassegnato. Il confronto a proposito di Gerfalco sembra dunque essersi concluso a favore del vescovo volterrano.
Un'altra casata comitale che contribuì ad alimentare il patrimonio fondiario e giurisdizionale di G. fu quella dei Gherardeschi (Della Gherardesca). A quel tempo la famiglia, che fino alla metà dell'XI secolo aveva retto in modo compatto la contea di Volterra, si era suddivisa in quattro rami principali, i quali, pur essendosi tutti legati alla città di Pisa, avevano concentrato i loro possessi in zone distinte.
Dal ramo disceso da Tedice (I), i cui membri nel corso dello stesso secolo assunsero il titolo di conti di Biserno, G. acquistò nel 1151 alcuni beni che erano appartenuti al defunto Ildebrandino di Ugo, posti nel Valdarno Inferiore, in particolare nelle corti dei castelli di Barbialla e di Scopeto. Otto anni più tardi, il figlio di un fratello di Ildebrandino, Tedice di Trainello, e sua moglie Donnisia dichiararono al giudice imperiale di avere venduto a G. un terzo del castello di Strido in Valdera e altre loro pertinenze in diverse località. Grazie a queste cessioni, il vescovo rafforzò la sua posizione nella parte settentrionale della diocesi, oggetto costante delle mire pisane. Tra queste due transazioni si colloca un'altra importante alienazione a favore dell'episcopato volterrano: il 2 giugno 1154 i conti Gherardo e Ranieri, figli del conte Gherardo, esponenti di quel ramo da cui nel XIII secolo avrebbe tratto origine il celebre cognome, donarono i loro possedimenti situati nel castello e borgo di Guardistallo e nel castello di Bibbona. Con questa operazione il dominio di G. si allargava in modo deciso verso la Maremma e il litorale tirrenico, ossia, ancora una volta, in direzione di un'area ambita dai Pisani.
I grandi avvenimenti che investirono lo scenario politico italiano nei decenni centrali del XII secolo coinvolsero profondamente G., specie nella seconda metà del suo mandato. Nel 1159, l'anno successivo alla seconda discesa in Italia di Federico Barbarossa, la nomina dell'antipapa Vittore IV per volontà dell'imperatore, in contrapposizione ad Alessandro III, pose i vescovi italiani di fronte a un bivio. Il concilio di Pavia li obbligava a obbedire al pontefice filoimperiale, pena l'esclusione dall'ufficio. Tuttavia, soprattutto in una prima fase, la situazione rimase abbastanza incerta. Tra i vescovi della Tuscia, l'arcivescovo di Pisa, Villano, e quello di Firenze, Giulio, tennero all'inizio un atteggiamento favorevole ad Alessandro III. Nella stessa direzione sembra essersi orientato sulle prime G.: lo suggerisce un suo incontro con i due suddetti presuli nel 1160 a Casole d'Elsa, in occasione della consacrazione della chiesa collegiata locale.
Se è lecito, quindi, ipotizzare anche per G. un'iniziale adesione al partito alessandrino, è certo che un simile atteggiamento non si mantenne a lungo e che anzi si trasformò ben presto in una scelta di campo apertamente ghibellina. Già nell'aprile del 1163 egli si trovava a Siena al fianco di Rainaldo di Dassel, cancelliere e legato dell'imperatore in Italia. Un anno più tardi, nella primavera del 1164, la fedeltà di G. a Federico I fu premiata nella maniera più esplicita, con una vera e propria investitura imperiale.
Fin dai tempi di Carlo Magno il vescovado volterrano aveva beneficiato di privilegi da parte degli imperatori, che ne avevano garantito la protezione e assicurato il godimento di determinati poteri in materia fiscale e giurisdizionale. L'atto del 1164 rappresentò un passo in avanti sulla strada della piena trasformazione del vescovo di Volterra in autorità comitale. Esso seguì all'allontanamento del tedesco Gualdano dall'ufficio di conte di Volterra, a cui il legato Rainaldo lo aveva nominato l'anno precedente, sollevando, per quanto si può intuire, non poche resistenze da parte dei Volterrani. Federico I, che allora si trovava a Pavia, decise perciò di affidarsi a un'autorità localmente riconosciuta, ed emanò un diploma, oggi perduto (il contenuto ci è noto grazie a un breve regesto nel Liber iurium dell'episcopato volterrano), con il quale investì il vescovo G. della piena signoria sulla città di Volterra e su tutti i castelli esistenti nella diocesi.
Gli anni seguenti vedono G. ancora impegnato a consolidare il suo dominio. È del 1165 una controversia con l'abate di S. Maria di Serena, un importante monastero fondato dai Gherardeschi presso Chiusdino in Val di Merse. L'accordo che ne scaturì consegnò al vescovo il patrimonio fondiario del cenobio e gli assicurò il pieno controllo sul castello di Chiusdino.
Con G. il potere temporale dei vescovi di Volterra raggiunse, dunque, il suo apice. Negli ultimi tempi del suo governo si notano però i primi segni dell'inarrestabile declino che l'episcopato conobbe ai primi del Duecento: è emblematico che uno degli ultimi documenti che lo vedono menzionato, risalente all'autunno del 1167, sia un atto con il quale un terreno di proprietà vescovile, posto nei pressi dei beni della chiesa di San Gimignano, viene obbligato da G. al notaio Cristofano di Pietro, che gli aveva prestato la somma relativamente modesta di 40 lire.
G. fu probabilmente costretto a lottare per difendere quella posizione di predominio politico al cui raggiungimento aveva dedicato gran parte della sua attività. La resistenza più tenace gli venne mossa dai Volterrani, non ancora costituiti in Comune, ma già orgogliosi della propria identità civica, in contrapposizione al potere acquisito da Galgano. Possiamo ipotizzare che proprio questo nuovo spirito municipale, insieme con la fedeltà al pontefice, li spinse a ribellarsi contro il "pastore-tiranno". Lo scontro fu fatale a G., che fu ucciso da un gruppo di rivoltosi penetrati nel palazzo vescovile.
L'episodio dell'assassinio di G. ci è noto attraverso due documenti di alcuni decenni posteriori: un breve di papa Innocenzo III ai Volterrani del 26 sett. 1213 (edito in Cecina, p. 42 n.) e una testimonianza resa durante l'istruttoria di una vertenza. Resta incerta la data, che tuttavia si colloca fra il 12 sett. 1168 - a cui corrisponde l'ultima menzione documentaria di G. - e il 29 dic. 1171, quando abbiamo la prima testimonianza relativa al nuovo vescovo, Ugo.
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