MARZIO, Galeotto (Galeottus Narniensis)
– Nacque a Narni dal notaio Stefano, appartenente a una nobile famiglia che si fregiava dell’insegna araldica di un grifo rosso coronato d’oro in campo azzurro. Non è noto il nome della madre. L’anno di nascita del M. si potrebbe collocare, solo in base a cenni autobiografici, intorno al 1424. Incerte le notizie sui suoi primi studi e sul vantato ruolo nelle milizie pontificie.
Nel 1445 risulta alla scuola di Guarino Guarini a Ferrara, dove nel 1447 strinse amicizia con un nipote del vescovo ungherese János Vitéz, il tredicenne János Csezmicze, futuro poeta con il nome di Janus Pannonius, dal cui carteggio e dai cui versi si rintracciano, oltre a un’affinità di idee, riferimenti cronologici e psicologici essenziali, divenuti emblematici della figura del M.: l’indole irrequieta, la vis polemica e il linguaggio mordace, nonché la gagliardia fisica e una corporatura imponente. La stessa fonte accenna alla sua presenza a Roma per il giubileo indetto nel 1450 da Niccolò V, ma è il M. stesso a esprimere lo scoramento allora provato nei versi De desolatione Urbis, che fanno parte di un’esigua raccolta di Carmina del periodo ferrarese.
Dall’autunno 1454 il M. abitò in territorio veneto, a Montagnana, dove si era già insediata una colonia di Narnesi al seguito di Erasmo da Narni detto il Gattamelata e dove risultano atti di compravendita e locazione di terreni, alcuni dei quali stipulati dalla moglie del M., Sofia, sposata intorno al 1460.
Tra i figli del M. si ricordano Stefano, medico a Narni, Giacomo e il primogenito Giovanni, coinvolto spesso nelle vicende paterne, capostipite in Boemia di un ramo della famiglia perpetuatosi poi in Austria e in Germania.
In alcuni documenti il M. è detto «civis Paduanus». A Padova infatti, raggiunto poi dal Pannonio, frequentò lo Studio per addottorarsi in artibus e in medicina.
Nell’Oratio funebre per il Guarini, morto il 4 dic. 1460, Ludovico Carbone testimonia che all’epoca il M. insegnava lettere a Padova con successo e lo proverebbe anche l’incarico, ricevuto nel 1456, di comporre l’epitaffio per il monumento nella basilica del Santo dedicato alla memoria di Giovanni Antonio, giovane figlio del Gattamelata. Stando a un tardivo accenno del M., nello stesso anno fu lui a formulare l’oroscopo «accademico» della città e a prevedere la pestilenza recidivante a causa della quale ospitò a Montagnana l’amico Pannonio che, ormai ottimo grecista, vi poté tradurre in latino un’opera dell’amato Plutarco, con il titolo De capienda ex hostibus utilitate. A Padova si unì a loro il giovane Andrea Mantegna, infatuato di romanità, che li ritrasse insieme meritandosi dal Pannonio un’elegia datata 1458, presaga della gloria del pittore.
Nel 1460, ricevuta da Mattia Corvino la nomina al vescovato di Pécs, il Pannonio invitò in Ungheria il M., che lo raggiunse solo alla fine del 1461. Fu allora che Vitéz, promotore del sodalizio umanistico animato da figure come Pier Paolo Vergerio, Enea Silvio Piccolomini, Niccolò da Cusa e Bessarione, nonché da mathematici come Georg Pürbach e Johann Müller (Regiomontano), fu lieto di accogliervi un discepolo del Guarini e di presentarlo a Mattia Corvino, che lo incaricò di posare la corona di poeta di corte sul capo del Pannonio. Nello stesso periodo il M. fu lusingato dall’invito in Inghilterra da parte di un mecenate identificabile in John Tiptoft, già frequentato a Ferrara e a Padova. Due lettere del Pannonio, del 1462 e del 1464, accennano ai ripetuti rinvii della partenza, spiegabili con il coinvolgimento di Tiptoft nella guerra delle Due rose, in seguito alla quale trovò la morte sul patibolo.
Dal 1463 al 1465 il M. si trovava comunque in Italia, titolare della cattedra in tertiis ad lecturam retorice et poesie ac studiorum humanitatis nello Studio bolognese, dove era subentrato a Giovanni Mario Filelfo. Fu l’occasione della notorietà, per l’arditezza con la quale osò criticare il padre di questo, Francesco.
Quando Francesco Filelfo divulgò nel 1463 uno specimen di altri 4 libri della sua Sphortias composta in onore di Francesco Sforza, duca di Milano, pregò il comune amico Alberto Parisi di trasmetterlo anche al M. che, in una breve invettiva del luglio 1464, ne colse la debole vena poetica e lo stile antiquato, urtando la nota suscettibilità dello studioso che a sua volta, in una missiva a Parisi del 31 ottobre, manifestò il suo disprezzo per l’oscuro neoprofessore, arrivando a insinuarne una sorta di empietà. Il M. replicò allora con una seconda Invectiva e il Filelfo, informandone nel 1465 Andronico Callisto, lo accusò di sapere poco latino e niente greco. Il M. reagì vantando il suo latino appreso alla scuola guariniana, ammettendo per il greco minore dimestichezza, ma rimproverando ai contemporanei una fanatica devozione verso la grecità per il loro trascurare gli apporti di autori recentiores, posizione notoriamente condivisa da vari colleghi. In seguito entrambe le Invectivae furono dedicate dal M. a Pietro Riario, cardinale nipote di Sisto IV, e raccolte in un codice con le repliche del Filelfo (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 3411).
Nel 1465 il Pannonio, già a Roma a capo della fastosa ambasceria reale per l’insediamento di Paolo II, riuscì a riportare il M. in Ungheria ottenendo per lui dallo Studio bolognese, con una lettera del 16 aprile, la debita aspettativa in vista della fondazione dell’Università di Bratislava secondo il modello felsineo caldeggiato anche da Vitéz, ora primate d’Ungheria e vescovo di Strigonia. Vitéz, che vantava una biblioteca ricca di testi scientifici dell’antichità, fu anche fautore di quella regia, la Corvina, per la quale il M. avrebbe contribuito alla ricerca di codici, ma è da escludere che ne ricevesse l’incarico di praefectus. Frutto della sua stretta collaborazione con Vitéz fu l’emendazione degli Astronomica di Manilio, nel testo rinvenuto da Poggio Bracciolini e tradotto da Iacopo di Angelo da Scarperia, come si legge nella sottoscrizione «Legi et emendavi cum Magistro Galeotto. 1469 Jo. Ar. Strig.» (Ibid., Pal. lat., 1711, c. 88v).
Il M. assisté da medico anche a campagne militari, come si ricava da un salvacondotto regio del 25 luglio 1468 che lo convocava con l’astrologo di corte Márton Ilkus al campo di Radhost, dove era in atto la guerra vittoriosa di Mattia contro il suocero, il re filohussita di Boemia Giorgio di Podiebrady.
Ma sul fronte interno il fiscalismo, la politica ambiziosa e accentratrice e, soprattutto, la tiepidezza nell’affrontare i Turchi andavano alimentando l’avversione dei magnati amici del M., che tentarono di destituire Mattia in favore di Casimiro Jagellone di Polonia. Scoperta la congiura verso la fine del 1471, il re confinò Vitéz a Esztergom, mentre Pannonio fuggì in Croazia, sua patria d’origine, dove il 27 marzo 1472 trovò la morte, precedendo di poco quella dello zio. I loro ospiti si sentirono, o furono, indotti a lasciare il paese: il Regiomontano portò con sé copia del citato codice di Manilio e, nel 1473, ne stampò l’editio princeps a Norimberga.
Nello stesso anno il M., prima di riprendere a Bologna l’insegnamento che tenne fino al 1477, stampò presso l’editore veneziano Federico de’ Conti un lessico medico iniziato in Ungheria e dedicato a Vitéz, il De homine (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Mss., 84.27; Budapest, Biblioteca nazionale Széchényi, Clmae, 351).
L’opera intendeva aggiornare la terminologia medica liberandola da ingiustificabili arcaismi e da imprecisioni anche clinicamente pericolose. Secondo l’ordine tradizionale a capite ad pedes, il primo libro tratta i caratteri somatici esterni, il secondo gli organi interni. Alle nozioni di anatomia e semeiotica, con qualche elemento di diagnosi differenziale, se ne aggiungono di fisiopatologia e di farmacologia, senza trascurare astrologia e fisiognomica, intese però sotto l’aspetto fenomenologico più che divinatorio, nella convinzione aristotelica che «animus sequitur corporis inclinationem» (c. 98r). Gli autori di riferimento, presenti in larga misura nelle biblioteche dei suoi mecenati, sono soprattutto i classici latini e cristiani. Frequente il ricorso alla perizia filologica di Girolamo per difendere l’autore della Vulgata dalle censure formulate nelle Elegantiae di L. Valla, in rilievi linguistici che non ne coinvolgono la mentalità, forse operante sullo stesso Marzio.
Mentre si allestiva una seconda edizione del De homine (Bologna, Barbatia, circa 1475), Giorgio Merula, già uditore del M. a Padova e docente di greco a Venezia, stampò velenosi commenti in una raccolta di opuscoli dedicati a Lorenzo e Giuliano de’ Medici (Venezia, Windelin von Speyer, 1474-75). Il M. replicò prontamente con una Refutatio obiectorum in librum de homine, di cui consegnò a Federico da Montefeltro duca d’Urbino il codice a lui dedicato (Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1385; Forlì, Biblioteca comunale, Mss., 454, ora III.83), pubblicato nel 1476 a Venezia da Jacques Le Rouge e a Bologna da Domenico Lapi, assistito dall’autore. In seguito il duca di Urbino, nel ringraziarlo per avergli inviato gli esemplari a stampa del De homine e della Refutatio, lo invitò a rappacificarsi con Giovanni Mario Filelfo, con il quale era già iniziata una controversia (Biblioteca apost. Vaticana, Urb. lat., 1198, c. 84v).
Nella Refutatio la polemica si sviluppa sul piano filologico, sul quale il M. ribadisce la sua padronanza del latino, e su quello medico, dove rivendica la sua professionalità respingendo le intrusioni di un «grammaticulus» (c. 79r) inesperto dell’arte di Esculapio e troppo tradizionalista, che osava anche accusarlo di oscenità nonché di magia per aver accomunato il sacerdote al mago. Quanto a magia, il M. vanta competenza teorica e interesse ai fini dello studio della natura, anche se tutte le religioni la respingono per gli elementi superstiziosi e per diffidenza verso i «philosophi» (cc. 43v-45v).
Le sferzanti reciproche accuse non solo attirarono nella polemica altri dotti umanisti, primi fra tutti Domizio Calderini e Cornelio Vitelli, ma spiegano in parte il successo editoriale che ne seguì: il De homine e la Refutatio furono infatti ristampati congiuntamente alle Adnotationes del Merula fino ai primi del XVII secolo (Milano, Francesco Tanzi, 1490; Torino, Giovanni Angelo e Bernardino da Silva, 1517; Basilea, Johannes Froben, 1517; Oppenheim, Hieronymus Galler e Jonas Rosa, 1610).
Nello stesso periodo, con Pietro Buono Avogaro, Cola Montano, Girolamo Manfredi e Filippo Beroaldo senior, il M. curò la revisione di un’opera già studiata in Ungheria con il Regiomontano, la Cosmographia di Tolomeo, per l’edizione del Lapi. La data 1462, apposta nel colophon prima delle tavole geografiche incise da Taddeo Crivelli, fu ritenuta erronea dal XVIII secolo e variamente assegnata al 1476 o al 1482.
Nel febbraio 1477 è registrata a Bologna l’ultima quota del suo stipendio annuo di 300 libre: dal maggio di quell’anno si assentò dalla città colpita dalla peste per trasferirsi a Montagnana, dove si dedicò alla definitiva stesura dell’opus philosophicum maturato in Ungheria e dedicato a Mattia Corvino, il De incognitis vulgo (Torino, Biblioteca universitaria, Mss., E.IV.11).
Nei 31 capitoli dell’opera il M., scandagliando la cultura media del tempo ne rileva, con una serrata critica dell’auctoritas, posizioni arretrate, errori e assurdità. Il notevole ampliamento di fonti, estese al pensiero greco, alla Bibbia con accenni al Talmud, al Corano e, per il Nuovo Testamento, in particolare alle lettere di s. Paolo, mentre lo sollecita a far emergere le contraddizioni interne alla stessa traditio, gli consente di proporre una lettura testuale autonoma e storicamente convalidata.
Al consueto omaggio alla teologia, di cui sottolinea che esige obbedienza «pedissequa» (c. 4v), segue una riserva programmatica, l’inconoscibilità della sfera metafisica, con un argomentare proprio dell’averroistica padovana e secondo i moduli della scolastica da lui rivisitati in chiave umanistica, evidenziando le «differentiae inter theologos et philosophos» su temi canonici quali materia prima, eternità del mondo, unità dell’intelletto, immortalità dell’anima fino al suo destino ultimo. Se questo dipende da Dio, inteso più come Fato che come Provvidenza, ne deriva che ogni credente, «Turchus, Iudaeus, haereticus, Gentilis», può accedere alla salvezza anche senza «aquae tinctura» (c. 27v). Le religioni positive sono fenomeni storici ascrivibili alla deificazione delle forze naturali; ogni popolo possiede un patrimonio di credenze costituitesi in rigida ortodossia dovuta alla codificazione di Libri e favorita dall’autorità statale a garanzia dell’ordine pubblico. Perfino i rituali si rassomigliano: il battesimo richiama il dies lustricus dell’antica Roma e molte altre comparazioni sono addotte sì da far apparire vanificati magistero e ministero della Chiesa, giacché è Dio l’unico «doctor ac praeceptor» (c. 22r).
Nell’estendere poi la trattazione al mondo fisico, regolato da un rigido determinismo, emerge nitido il dissidio tra la scienza, fondata sulla rerum experientia, e i dettami della fede. La scienza, nel cui ambito si raccordano medicina, anatomia, geografia, astronomia e mathematica, esige approfondimenti, correzioni e smentite in quanto perfettibile perché il liber naturae si offre alla lettura dello studioso e la conoscenza, desiderio innato nell’uomo, è un dovere morale e sociale, mentre l’ignoranza è «maximum peccatorum» (cc. 60r-64r).
L’audacia delle sue tesi, non compensata dai ripetitivi «ergo credendum est» conformi alle precauzioni degli averroisti padovani, e la fama di miscredente già insinuata nelle precedenti polemiche costarono al M. l’arresto a Montagnana tra la fine del 1477 e i primi mesi del 1478. Tradotto a Venezia con la famiglia, subì la confisca dei beni, il carcere «teterrimus» e la tortura, come si legge in una lettera al prelato Domenico Stella, invocato quale garante della sua ortodossia (Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Mss. lat., 267 [=4344], c. 65r). Dopo una prima e una seconda ritrattazione, il M. fu sottoposto a Roma al giudizio papale, che si concluse con una riduzione di pena: la pubblica abiura e il rogo del libro incriminato.
Perduti, in successivi incendi a partire dal 1479, i documenti dell’istruttoria inquisitoriale dei Savi all’eresia del Senato veneto, una sintetica testimonianza coeva rimane in Marino Sanuto, mentre note di censura sono presenti nel citato codice torinese del De incognitis vulgo, in parte corrispondenti a una lista di Errores ex libro Galeoti Narniensis (Biblioteca apost. Vaticana, Vat. lat., 8865, c. 49; Bologna, Biblioteca universitaria, Lat., 170 [182], c. 135r). Sugli esiti della vicenda giudiziaria tornò Paolo Giovio affermando che Sisto IV avrebbe graziato il M. in quanto già suo discepolo a Bologna, tesi cronologicamente insostenibile. Tiraboschi invece lo ritenne salvo grazie a Lorenzo de’ Medici. Invero dal carcere il M., tramite il figlio Giovanni, gli fece recapitare un messaggio, datato Venezia 14 maggio 1478 e registrato dalla Cancelleria fiorentina il 17 maggio, nel quale, pur avendo avuto sentore della morte del fratello Giuliano de’ Medici, gli chiese di intercedere presso il pontefice, ma è impensabile che, quasi all’indomani della congiura dei Pazzi (26 aprile), Lorenzo potesse intervenire presso Sisto IV nell’imminenza della scomunica e del successivo interdetto sulla città (1° e 20 giugno 1478). Il M. afferma invece che fu salvo grazie a Janós Vitéz iunior, suo amico dai tempi in cui questi studiava diritto canonico a Bologna e allora prelato di Curia, che ne fece un caso diplomatico insistendo sul peso politico del re d’Ungheria.
Appena liberato, il M. si rifugiò da Mattia Corvino, al quale poi dedicò una copia parzialmente rimaneggiata del De incognitis vulgo, dove rievocava i pericoli e le torture subite durante il processo (Vienna, Österreichische Nationalbibliothek, Lat., 3166, c. 296r).
Non si può precisare quanto durò il suo soggiorno in Ungheria, ma un documento del 25 maggio 1482 condannava in contumacia il M. e suo figlio Giovanni per aver malmenato, nella primavera di quell’anno a Veszprém, un personaggio illustre, il teologo domenicano Peter Nigri, noto anche per il suo misoneismo. Forse era una recidiva, se in data 13 apr. 1479 il M. risulta prosciolto da una scomunica in quanto un frate da lui colpito in una rissa era sopravvissuto alle lesioni riportate (Arch. segr. Vaticano, Penitenzieria apostolica, Registra matrimonialium et diversorum, 29, c. 32).
Nel 1483 era comunque in Italia, dove il 3 maggio ricevette a Montagnana la visita di Sanuto. Nell’anno successivo raggiunse re Mattia a Baden con il pretesto di chiedergli la dote regale per le proprie figlie, ma forse per condividerne l’imminente trionfo. Brevissimo fu il colloquio con il sovrano che, nel pieno della guerra contro l’imperatore Federico III d’Asburgo, lo spedì sotto scorta a Buda, dove ritrovò un suo discepolo, il dotto Miklós Báthory, potente vescovo di Vác e non ancora oppositore della politica regia. Fu lui a ospitarlo, proteggerlo e incoraggiarlo a narrare le gesta del sovrano, cosa che il M. realizzò dopo il 1485, anno della conquista di Vienna da lui menzionata, con il De dictis ac factis regis Mathiae, dedicandolo a Giovanni, figlio naturale del re.
Il breve componimento, ricco di riferimenti autobiografici e testimonianze personali, contiene 32 episodi nei quali l’ambiente ungherese rivive con ricchezza di sfumature, anche folcloristiche, inserendosi nel filone dell’aneddotica che, proprio a partire da quest’opera, assume speciale rilievo nella letteratura magiara, come testimoniano le numerose edizioni a stampa successive a quella viennese del 1563 per Michael Zimmermann, che contribuirono a corroborare il mito di Mattia Corvino. Il M. ritrae il sovrano con aderenza alla realtà quotidiana, non tacendone l’aspetto poco maestoso, il sottile anticlericalismo e l’insofferenza verso le alte gerarchie laiche ed ecclesiastiche, dalle quali era stato in parte tradito e che in parte continuavano a tramare contro di lui, contestandogli le ambizioni imperiali e la lex palatina con la quale, non avendo eredi legittimi, intendeva assicurare la successione al figlio Giovanni.
Ormai però l’Ungheria non si confaceva più al M. perché, mentre si consolidava contro Mattia Corvino la fronda alimentata dalla cerchia della regina Beatrice, figlia del re di Napoli Ferdinando d’Aragona e, dal 1476, seconda moglie del re, a corte si consolidavano il modello spagnolo e la cultura neoplatonica fiorentina. Il M. aveva motivo di tornare in Italia anche per la condanna morale espressa nei suoi confronti da un devoto della regina e futuro storiografo ufficiale, Antonio Bonfini, che nel Symposion de virginitate et pudicitia coniugali del 1485 lo additava insistentemente come epicureo, nella doppia accezione di lascivo e di eretico. Forse il M., sapendosi malvisto per i suoi legami con il re, riparò con il figlio in Boemia sotto la protezione di Ladislaus Boskowitz, nipote del vescovo di Olmütz Prothasius, già suo allievo in Italia e suo prodigo amico.
Fugaci accenni nei quali il M. afferma di aver esercitato la professione medica in Spagna, la vantata conoscenza della lingua e cultura araba e soprattutto il compianto per la caduta di Malaga nel 1487, nel corso della Reconquista, potrebbero avvalorare l’ipotesi di una sua permanenza nella penisola iberica e spiegare la scarsità di notizie fino al 1490, anno in cui concluse la stesura del De doctrina promiscua che, morto Mattia (6 apr. 1490), dedicò a Lorenzo de’ Medici (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, LII.18; Biblioteca apost. Vaticana, Ottob. lat., 1838). Alla ricerca di un nuovo mecenate, il M. si presentò al Magnifico con le credenziali del suo passato accademico, sfoggiate nell’esaminare la maturità culturale del giovanissimo figlio di Lorenzo, il cardinale Giovanni (futuro papa Leone X), aspirando forse a una cattedra nel rifondato Studio di Pisa o di nuovo a Bologna, dove Giovanni Bentivoglio, proprio con l’aiuto mediceo, riprendeva il potere.
L’opera esprime nel complesso un approfondimento e talora una diretta riproposizione di temi del De incognitis vulgo. Ma se prima aveva suggerito un percorso di lettura che individuava le carenze culturali del suo tempo, un assunto del genere non è sempre reperibile in quest’ampia e discorsiva polymathia che presenta linee di pensiero e di stile apparentemente contraddittorie. Alle severe trattazioni di astronomia, anatomia, farmacologia e botanica si alternano enfatiche lodi dei Medici e dei papi liguri, passati, presenti e futuri, con un linguaggio platonizzante in contrasto con il suo non troppo larvato tentativo di inficiare proprio la cultura fiorentina dell’Accademia, in cui gli illustri esponenti dell’ermetismo magico, per la loro aspirazione a vivere «extra corpus», sono «philosophi mortui» (cap. XX). Associando magia e alchimia le definisce poi «culturae», cerimoniali estranei alla scienza, che esige rigore metodologico e disponibilità ad acquisire senza pregiudizi cognizioni ed «experientiae» nuove (cap. XXVII). Questo vale anche per il campo letterario dove il M. arriva a chiedere al Magnifico di vigilare sugli abusi filologici e le audacie congetturali «quorundam hypodidascalorum» (c. 46r) che manomettono i testi con il pretesto dei refusi. Alla stampa riconosce però grande valore culturale nella divulgazione del sapere, ricordando che le Effemeridi del Regiomontano sono «publicatae», aggiungendovi da parte sua una sorta di vademecum astrologico praticamente privo di esoterismi, in base alle sue convinzioni che zodiaco e figurae celesti sono puri nomi, simboli convenzionali di concomitanze astronomiche a uso dei mathematici (cap. XXXV). Le sue pagine possono quindi leggersi come un preciso contrappunto al Ficino che nel 1489 aveva dedicato a Mattia Corvino il De vita coelitus comparanda, III tomo del De vita. Ma il M. era anche in contraddittorio con Bonfini specialmente sul tema della differenza tra l’uomo e l’animale e sulla positività dell’amore carnale, spingendosi fino alle deviazioni sessuali che, da medico esperto di anatomia, non considera affatto diaboliche (cap. XVIII), posizione davvero controcorrente dopo la bolla di Innocenzo VIII Summis desiderantes (5 dic. 1484) che, autorizzando gli inquisitori di Germania a procedere contro la stregoneria, consacrava la tesi dell’oggettività della possessione diabolica.
Non si conosce l’accoglienza riservata al De doctrina promiscua, di cui solo nel 1548 fu pubblicata a Firenze la prima edizione a stampa da Lorenzo Torrentino, che ne rinvenne il manoscritto tra i libri del Magnifico. Il testo fu riedito nel 1552 a Lione (Jean de Tournes) e nel 1602 a Francoforte (Zacharias Palthenius). Nel 1595 il poligrafo Francesco Serdonati lo ripresentò in una traduzione annotata, cercando di adeguarlo alla mentalità controriformistica (Firenze, Filippo Giunti 1615 [colophon] 1595).
Al 1490-91 risalirebbe la stesura della Chiromantia perfecta tramandata da un testimone risalente al XVI secolo (Padova, Biblioteca Antoniana, Mss., 560). Attribuibili al M. sarebbero solo le prime 8 carte, dove riaffiorano affermazioni congeniali alla sua mentalità, quali il naturalismo, il fatalismo, la disponibilità ad accogliere neologismi, nonché la tesi che elemento distintivo dell’uomo è la mano più che la ragione, di cui sono partecipi a vario grado anche gli animali.
Sua ultima fatica certa fu il De excellentibus, dedicato a Carlo VIII (Paris, Bibliothèque nationale, Nouv. acq. lat., 731), databile tra il 16 dic. 1491, giorno del matrimonio del re di Francia con Anna di Bretagna, e il 25 luglio 1492, giacché vi si parla di papa Innocenzo VIII ancora vivente.
Il De excellentibus è dichiaratamente un’antologia costituita da 32 capitoli, 11 dei quali derivano dal De incognitis vulgo, 15 dal De doctrina promiscua. I rimanenti risultano nuovi, ma informati a un neoplatonismo di facciata, atto a celebrare il giovane re che destava le speranze di molti intellettuali, «savonaroliani» e non. Per non impegnarsi più sul terreno teologico, la sua autocensura lascia il posto a svariati temi medici che, come nel caso dell’affinità tra uomini e bruti, si trasforma in una questione filologica sui vocaboli usati indifferentemente per gli uni e per gli altri.
Nell’ombra calata sui suoi ultimi anni rientrano anche le circostanze della morte, di cui si ignorano il luogo e la data, che viene fatta oscillare tra il 1494 e il 1497. Secondo il Sanuto gli fu letale una caduta da cavallo mentre era diretto in Boemia; per Paolo Giovio sarebbe spirato a Montagnana soffocato dalla pinguedine, mentre un’anacronistica ma a lungo accreditata opinione di Giovanni Pietro (Pierio Valeriano) lo dice caduto di sella per riverire a Lione Luigi XI.
In una medaglia della fine del XV sec. il profilo del M., con fattezze massicce e chioma «promissa» all’uso ungherese, è racchiuso nell’iscrizione «poeta. clars. mathematicus et orator Galeottus Martius». Sul retro un verso di Manilio («nascentes morimur finisq. ab origine pendet») contorna due ripiani con libri e una clessidra, inquadrati dal motto boeziano «superata tellus sidera donat». Un’altra medaglia coeva, di fattura più grezza, presenta sul capo dell’umanista la corona di poeta. La sua figura è stata identificata in una miniatura di Giovanni Pietro Birago nel Liber pontificalis di János Vitéz iunior (Biblioteca apost. Vaticana, Ottob. lat., 501) e in un affresco cinquecentesco della sala comunale di Narni, recentemente restaurato; la sua casa natale è indicata da una lapide con il profilo dell’umanista in bassorilievo, già nel palazzo comunale, donata nel 1938 dalla Società Mattia Corvino.
Edizioni critiche di alcune opere del M. sono state curate da L. Juhász: Epistolae, Budapest-Bologna 1930; Carmina, Leipzig 1932; Invectiva e in Franciscum Philelphum, ibid. 1932; De egregie, sapienter, iocose dictis ac factis S. regis Mathiae ad ducem Iohannem eius filium liber, ibid. 1934. Antologie sono state presentate da J. Ábel in Olaszországi XV. Századbeli iróknak Mátyás Királyt dicsöitö müvei (Opere encomiastiche su re Mattia di scrittori italiani del Quattrocento), II, Budapest 1890, pp. 219-257, e da M. Frezza: Quel che i più non sanno (De incognitis vulgo), Napoli 1948; Della varia dottrina (De doctrina promiscua), ibid. 1949; Chiromanzia (Chiromantia perfecta), ibid. 1951.
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