MANFREDI, Galeotto
Secondogenito di Astorgio (II), signore di Faenza e conte di Val di Lamone, e di Giovanna Vestri, di Ludovico conte di Cunio, nacque nel 1440.
Educato a corte, il M. si dimostrò d'indole più portata agli studi del primogenito Carlo: nell'adolescenza trascorse infatti un periodo a Ferrara, per perfezionarsi negli studi e nella vita di corte. Nel 1451 partecipò alle feste per la promessa di matrimonio della sorella Barbara con Pino Ordelaffi di Forlì; nel 1452 accompagnò il padre e Carlo, maggiore di un anno, a Bologna, dove incontrarono Federico III, allora re dei Romani, e ne furono creati cavalieri.
I Manfredi erano vicari apostolici di Faenza, che governavano collegialmente con periodica riconferma papale nel vicariato, e conti di Val di Lamone, eretta a contea ereditaria da papa Gregorio XII nel 1413. Alla morte di Guido Antonio Manfredi, Astorgio (II) rimase al governo di Faenza e della Val di Lamone, mentre Taddeo, figlio di Guido Antonio, divenne signore di Imola, di cui ricevette poco dopo il vicariato apostolico. La rivalità fra i due rami della dinastia sarebbe poi durata a lungo.
La storiografia locale, in parte a posteriori, vuole che il M. fosse più vicino al padre del primogenito Carlo, in urto con Astorgio ed esule più o meno volontario a Milano nei primi anni Sessanta: così, si parla generalmente del M. quando si nomina un figlio accanto ad Astorgio nelle sue varie imprese militari in Romagna.
Il M. era con Astorgio alla campagna romagnola contro Domenico Malatesta detto Malatesta Novello nel 1462-63 e fu procuratore del padre in occasione della condotta stipulata nel 1467 con Bartolomeo Colleoni allorché questi, presa apparentemente licenza da Venezia, scese in Romagna per muovere contro Firenze e il regime di Piero de' Medici.
Nel dicembre 1467 Astorgio fece testamento: il documento, articolato e complesso, rivela come egli fosse consapevole della fragilità che una gestione collegiale del potere garantita dalla prassi successoria more longobardo immetteva in una signoria già non forte per risorse proprie e per la labilità delle forme della sua legittimazione. Il testamento infatti prefigurava, nonostante tutte le precauzioni, le linee di frattura che avrebbero poi provocato le traumatiche vicende del 1477. Astorgio disponeva che la successione seguisse l'ordine di nascita dei figli laici; Federico, ecclesiastico, era escluso dalla successione ma non dalla divisione dei beni paterni. Solo alla scomparsa di tutti i figli di Astorgio, i nipoti avrebbero potuto vantare diritti alla successione, secondo lo stesso principio di anzianità. In compenso della primogenitura di Carlo, Astorgio stabiliva un appannaggio di 4000 lire l'anno al M. e di 3000 a Lancillotto.
I figli di Astorgio subentravano al padre in un momento difficile: il M., dedito al mestiere delle armi, rimase nel 1468-69 nell'orbita veneziana, insieme con Pino Ordelaffi e Borso d'Este, mentre Taddeo militava per Galeazzo Maria Sforza. Nell'estate del 1470 crebbe l'influenza dello Sforza in Romagna: il duca voleva infatti prevenire ulteriori eventuali iniziative del Colleoni e di Venezia nella regione. Mentre Imola cadde sotto il controllo milanese e finì, nel 1473, nelle mani di Girolamo Riario, Carlo Manfredi di Faenza stipulò una condotta con Ferdinando I re di Napoli. Il M. nel frattempo rimaneva legato alla Serenissima: sempre più emarginato dal governo di Faenza dalla salda alleanza fra Carlo e il fratello Federico, divenuto alla fine del 1471 vescovo della città, nel 1476 egli si rifugiò prima a Ravenna, poi a Ferrara, infine a Forlì, dal cognato Ordelaffi. Nel 1477 Carlo si ammalò gravemente: la reggenza passò anche formalmente nelle mani di Federico.
Il contrasto fra i Manfredi si sviluppò nel quadro della crescita dell'influenza dei Riario nella regione: il conte Girolamo Riario, nipote di papa Sisto IV e dal 1473 signore di Imola, puntava ad allargare la propria influenza su Forlì e Faenza, forte dell'appoggio pontificio. In questo contesto, Federico, governatore effettivo di Faenza, ottenne il riconoscimento per investitura papale del diritto di successione nella contea e nel vicariato di Ottaviano, figlio ancora bambino di Carlo (nato nel 1472), che Federico contava di manovrare a proprio piacimento come tutore. Tale sviluppo della situazione ledeva i diritti del M., erede legittimo della signoria all'eventuale morte del fratello Carlo secondo quanto stabilito dal testamento di Astorgio e all'epoca collegato di Venezia.
Sostenuto apertamente anche da Lorenzo de' Medici, detto il Magnifico, e sperando in un accordo con il papa, il 18 ott. 1477 il M. entrò in territorio faentino e occupò Granarolo; il 16 novembre entrò in Faenza, a seguito di un tumulto popolare contrario a Carlo e soprattutto a Federico. Egli fu acclamato signore di Faenza il 17 novembre: fra il 7 e l'8 dicembre Carlo accondiscese ad abbandonare la rocca, lasciando la città in mano al M.: si inaugurava così la sua signoria su Faenza.
Il secondo Quattrocento fu un periodo di grandi mutamenti in Romagna: il tradizionale vuoto politico centrale della regione, sin qui riempito da lotte intestine fra diversi piccoli principi di volta in volta assecondati od ostacolati dalle potenze maggiori, divenne terreno d'elezione di nuove ed effimere creazioni, gli Stati dei nipoti papali, in grado con relativa facilità di spodestare i signori locali, impoveriti e poco amati dai sudditi. Nell'estate 1480 il conte Girolamo Riario, dopo Imola, mise le mani su Forlì, governata sino ad allora da una dinastia autoctona, gli Ordelaffi; iniziò poi a guardare anche a Faenza: il M., consapevole dei rischi crescenti, strinse ancor più i legami con Firenze e con Lorenzo il Magnifico in un formale rapporto di colleganza con la Repubblica. Egli infatti nel 1480 aveva stipulato una condotta con la Lega costituita da Milano, Napoli e Firenze, al soldo non da poco di 18.000 ducati, pagati in parti uguali. Dopo la pace di Bagnolo, re Ferdinando I rescisse il suo terzo: la cifra percepita dal M., che veniva pagato congiuntamente da Milano e Firenze, cominciò a calare; due anni dopo ancora, durante la guerra dei baroni, la Repubblica fiorentina, d'accordo con gli altri due contraenti della lega, rimase sola a corrispondere al M. un soldo annuo che comunque si aggirava intorno ai 10.000 ducati. Si trattava di una grossa somma "che veniva giustificata come stipendio per una condotta militare, ma che si qualificava anche come "provvisione" della repubblica a un suo subalterno" (Pellegrini, pp. 92 s.).
Nell'ottica dello stretto rapporto con Firenze le ricerche più recenti interpretano anche il matrimonio che, pronube lo stesso Lorenzo il Magnifico, un riluttante M. strinse nel 1481 e celebrò nel 1482 con Francesca di Giovanni (II) Bentivoglio, capo della oligarchia che governava Bologna.
Il matrimonio del M. era divenuto argomento di calcoli sin dalla sua presa del potere, ma egli fino al 1480 non aveva dedicato alla questione molta attenzione: aveva infatti accanto il fratello Lancillotto e aveva ricondotto a Faenza l'amante di sempre, la ferrarese Cassandra Pavoni, che gli aveva già dato almeno un figlio, Scipione. Con il 1480 il polarizzarsi degli schieramenti in Romagna e l'imprevista morte di Lancillotto dovettero convincere il M. dell'urgenza di una soluzione della successione faentina. Dopo qualche ipotesi romagnola, rapidamente scartata, il M. dichiarò, nel novembre 1480, che avrebbe sposato la donna che Lorenzo il Magnifico gli avrebbe proposto. A questo nel marzo 1481 la candidata più conveniente sembrò Francesca Bentivoglio. Verso maggio però il M. ebbe dei ripensamenti: la sua preoccupazione maggiore era come pagare il censo papale e come convincere il papa a revocare le censure ecclesiastiche cui era ancora soggetto dopo il suo colpo di mano, così da poter essere investito formalmente del vicariato su Faenza; in questa direzione andava una pratica a Roma, e il benestare del Riario era quanto mai necessario. Perciò egli considerò l'idea di sposare Lucrezia Pico della Mirandola, vedova di Pino Ordelaffi, vicina al Riario. La lega si allarmò per queste manovre: da Milano aumentò la pressione sul Medici perché il matrimonio bentivolesco si concludesse. Nel frattempo da Roma giunse la bolla che confermava il M. nel vicariato. Il M. riprese in considerazione l'ipotesi bolognese, premendo però per una dote maggiore di quella offerta (3000 ducati) e giocando al rialzo sino a chiederne 12.000. Il Bentivoglio giunse a proporre 8000 ducati. Convocato da Lorenzo il Magnifico, il M. si incontrò con lui a Cafaggiolo il 1 luglio, lo nominò suo procuratore a stipulare il contratto di matrimonio con una figlia di Giovanni Bentivoglio e a fissare la dote. Il matrimonio fu annunciato ufficialmente il 9 luglio e stipulato a Bologna l'11; la dote nominalmente fissata a 10.000 ducati, fu in realtà di 7000 (di cui 3000 contanti e 1000 di beni subito, 3000 successivamente); la sposa partì da Bologna per Faenza il 25 genn. 1482.
L'alleanza matrimoniale parve nei primi tempi dare gli esiti sperati dalla Lega: Giovanni Bentivoglio e il M. parteciparono all'assedio di Forlì nell'agosto 1482, allorché tentarono di restaurarvi il dominio degli Ordelaffi.
Nel 1484, con la morte di Sisto IV, la fine della guerra di Ferrara e la pace di Bagnolo, la potenza del conte Girolamo si sfaldò: alla elezione di Innocenzo VIII il conte fuggì da Roma e si ritirò in Romagna, dove i suoi progetti egemonici vennero bruscamente ridimensionati e, nell'aprile 1488, egli fu assassinato. Ancor prima di tale epilogo, "il processo di state-building a dimensione regionale da lui avviato in Romagna era stato ripreso, sotto altre forme, da Giovanni Bentivoglio" (Pellegrini, p. 89). In quest'ottica va vista la lega romagnola di assistenza reciproca in funzione antipapale che il Bentivoglio promosse nel 1487 fra Guidubaldo da Montefeltro, Pandolfo Malatesta di Rimini, Giovanni Sforza di Pesaro, Girolamo Riario di Imola e Forlì e Giovanni Della Rovere prefetto di Senigallia, da cui il M. era rimasto non casualmente fuori. Scrivendone a Lorenzo il Magnifico egli ricordò il legame di aderenza che lo legava a Firenze affinché la Repubblica lo sostenesse contro queste manovre. Il M. infatti intuì presto il disegno bentivolesco di assumere "el principato del ghoverno di Romagna" (Messeri, p. 129) e comprese anche come dietro alle ambizioni di Giovanni ci fosse Ludovico Sforza detto il Moro, che mirava a rilanciare il dinamismo della presenza sforzesca nella regione.
L'opposizione alle ambizioni del Bentivoglio e dello Sforza sarebbe costata la vita al M.: isolato dagli altri signori romagnoli, posto di fronte al ridursi della condotta pagatagli da Firenze e quindi costretto a provvedimenti fiscali impopolari, il M. si alienò buona parte dei suoi sudditi. Le crescenti difficoltà lo spinsero a cercare, dal 1487, il sostegno del suo antico referente, Venezia, cui parve che fosse persino disposto a vendere Faenza, ottenendo solo l'effetto di allarmare i contraenti della lega.
Da tempo i rapporti del M. col suocero erano tesi anche a causa della mancata corresponsione dell'ultima rata della dote di Francesca. Nella notte fra il 12 e il 13 marzo 1487 Giovanni Bentivoglio fece incursione a Faenza, si riprese la figlia e il nipote Astorgio e li condusse a Bologna.
L'avvenimento produsse scalpore, e mentre il M. era propenso a lasciare la moglie a Bologna, Lorenzo il Magnifico tentò di tutto per rimandarla a Faenza, attenendosi con forza al suo piano originario di disinnescare una possibile guerra in Romagna grazie all'alleanza Bentivoglio - Manfredi. Nel settembre Francesca tornò a Faenza con il figlio. Caduto il conte Girolamo, il M. rimase l'unico signore romagnolo a opporsi alla restaurazione dei Riario in Imola e Forlì, sostenendo per Forlì il nipote Antonio Maria Ordelaffi. In questa scelta politica, il M. si appoggiava sempre più a Venezia, attirandosi ancor più l'inimicizia del partito bentivolesco e del suo principale sostenitore, Ludovico il Moro. Anche Ferdinando di Napoli era inquieto per la virata filoveneziana del M. ed era pronto a sostenere Ottaviano Manfredi, figlio di Carlo, di stanza nella primavera del 1488 a Lugo.
Il M. fu trucidato il 31 maggio 1488 a Faenza, a circa un mese dall'assassinio del conte Girolamo Riario.
I due eventi parvero così vicini nel tempo e nell'ideazione che gli osservatori contemporanei ne parlarono come di un nuovo modo di fare la guerra: "questo modo di guerra, della morte di questi signori, è una nuova introductione in Italia" (G. Lanfredini a Lorenzo de' Medici, Roma, 4 giugno 1488, cit. in Pellegrini, p. 111).
La congiura, materialmente realizzata da congiurati locali fra i quali alcuni patrizi faentini (Zuccoli, Tonduzzi) e da Francesca Bentivoglio, era il risultato di un piano a lungo architettato in segreto da Giovanni Bentivoglio, che mirava a governare personalmente Faenza attraverso la figlia, nominata reggente del piccolo Astorgio. Il M. lasciava la moglie ventenne, un unico figlio legittimo, Astorgio (III), nato nel giugno 1485, e tre figli naturali, natigli da Cassandra Pavoni, Francesco (poi chiamato Astorgio [IV], morto nel 1509), Scipione (1473-93), Giovanni Evangelista (1482-1502).
Il M., praticamente ultimo signore di Faenza nella pienezza della maturità, divenne immediatamente un personaggio esemplare intorno a cui scrivere dei fasti e dei nefasti del Rinascimento italiano: nel 1800 ispirò anche una tragedia di V. Monti. L'epilogo della sua vicenda, preludio al più generale epilogo della dominazione manfrediana su Faenza, è stato recentemente e più esattamente letto come esemplare della "consunzione dell'istituto della signoria cittadina" in Romagna e della conseguente "implosione del frastagliato e policentrico assetto signorile-cittadino della Romagna tardo-medievale" (Pellegrini, p. 17).
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