RIVELLI, Galeazzo
RIVELLI, Galeazzo. – Ben poco si sa circa le vicende biografiche di Galeazzo, figlio di Marchino e di Caterina Malviti, e la sua formazione di pittore. Proveniente da una famiglia cremonese, è verosimile che sia nato negli anni Ottanta del Quattrocento, se si tiene conto che l’ultima attestazione della sua attività data al 1550, e che nel 1510 era già detto ‘maestro’.
A quest’anno risale, infatti, la prima occorrenza documentaria del pittore, che il 4 aprile comprò una casa a Cremona, nella vicinia di S. Vincenzo; in un atto di vendita dell’anno successivo (16 aprile 1511) è segnalato come abitante nella vicinia di S. Apollinare e coniugato con Monica Regio. Il 25 agosto 1520 i massari della cattedrale stabilirono un compenso di 100 lire imperiali a Galeazzo Rivelli per aver affrescato un Battesimo di Cristo «cum duobus angelis et hominibus et profetis» sopra al fonte battesimale piccolo, nella cappella di S. Giovanni Battista (ora della Madonna del Popolo). Solo in seguito al collaudo dell’opera, effettuato dall’intagliatore Paolo Sacca e dal Pordenone «pictor modernus», il 3 dicembre dello stesso anno fu saldato il pagamento. Del 1524 è la tavola con i Ss. Antonio, Stefano e Francesco, prima opera nota del pittore, firmata e datata («Galeacius de Rivellis dictus de la barba pingebat 1524») al centro della predella con scene monocrome della vita di s. Stefano.
Il dipinto, giunto all’Accademia Carrara di Bergamo con il lascito Lochis (1866, inv. 81LC00011), ma attestato a inizio Ottocento nella collezione bresciana dei Martinengo, era in origine destinato alla cappella privata, dedicata a S. Stefano, del palazzo vescovile di Cremona. Una serie di pagamenti, annotata nei registri della Mensa vescovile tra gli ultimi mesi del 1524 e i primi del 1525, informa sul compenso pattuito, 48 lire e 2 soldi (non soltanto per l’ancona, ma anche «per redipingitura del muro atorno di detta»), e sul nome del falegname che ne avrebbe approntato la carpenteria, Stefano Baruffini. Le tre figure di santi, tozze e dai tratti marcati in senso espressionistico («short and vulgar» per Giovanni Battista Cavalcaselle, A history, 1912), rivelano le tendenze ponentine del pittore, innestate su un sostrato di formazione boccaccinesca, in parallelo con l’attività a Cremona di alcuni coetanei più dotati come Lorenzo de’ Beci. La qualità è abbastanza scadente e il ritardo appare lampante quando si pensi che, a questa data, Pordenone aveva da tempo concluso i lavori nella navata centrale del Duomo, Gian Francesco Bembo aveva appena licenziato la strepitosa pala per la chiesa di S. Angelo (ora in S. Pietro al Po) ed era solo questione di mesi perché la triade Camillo Boccaccino-Giulio Campi-Bernardino Gatti facesse il suo exploit di grido.
Non sarà un caso, a testimonianza di una rete di rapporti che può forse far luce anche sulle coordinate dello stile, che, sempre nel 1524 e ancora nel successivo, Lorenzo de’ Beci, insieme con Antonio Ferrari e Giovanni Maria Celli «consules et sapientes artis pictorum», intervenisse a comporre una lite tra Galeazzo e il collega Battista Zuppellari. L’11 giugno 1529 la Scuola della Concezione di Quinzano d’Oglio commissionò al pittore la decorazione della propria cappella nel convento francescano, ora distrutto, di S. Maria delle Grazie: il programma iconografico dei confratelli era molto dettagliato e i pagamenti si susseguirono fino al gennaio 1534 (Quinzano, Archivio parrocchiale, Conceptione, c. 161v e passim).
Il 12 febbraio 1535 Rivelli comprò terre per 24 lire. La data 1536 è iscritta, insieme con la firma, in una tavola della Pinacoteca di Cremona (inv. 105) che raffigura la Madonna con il Bambino e s. Giuseppe. Ricordata a inizio Ottocento nella collezione cremonese del canonico Massimiliano Sacchi, l’opera altro non è che la copia di una celebre e ormai datata invenzione di Giovan Francesco Maineri. Nell’aprile del 1538 a Busseto, vicino a Parma, la neonata Compagnia dell’Immacolata Concezione pagò Galeazzo Rivelli per aver realizzato il «quadro della sant.ma Conceptione» (Vitali, 1818, p. 118), probabilmente la perduta pala d’altare della cappella omonima nella collegiata di S. Bartolomeo, affrescata pochi mesi dopo da Michelangelo Anselmi. Data al 1542 un secondo acquisto di terre da parte del pittore nel sobborgo cremonese cosiddetto Incrosato (Cremona, Biblioteca statale, Bonetti 9, c. 74r); nel biennio 1546-47 Rivelli fu incaricato, insieme con il figlio Giuseppe, dei lavori di risistemazione del palazzo del Comune di Cremona, voluti dal podestà Vincenzo Falcucci (c. 181r). Il 3 maggio 1549 nei libri contabili della Fabbrica del duomo si decise il pagamento al pittore di 8 lire e 2 soldi per la pittura del solaio «ubi exercetur datium salis minuti», probabilmente un locale attiguo alla cattedrale: resta in dubbio il fatto che, all’interno del documento, il pittore sia soprannominato, ed è l’unica attestazione, «del Panno», al posto del solito «della Barba».
Nel giugno del 1550, ed è la sua ultima attestazione in vita, Rivelli figura tra gli artisti coinvolti per l’allestimento degli apparati trionfali in onore della visita del cardinale Francesco Sfondrati: insieme con lui, nei registri dei pagamenti datati 20 giugno, compaiono i fratelli Sabbioneta e un non altrimenti noto «Gaspar depentore» (Archivio di Stato di Cremona, Filciae Fragmentorum, XLII (1550), 145).
Anche riguardo al figlio Giuseppe, le notizie scarseggiano: alla fine del secolo, Antonio Campi riporta la curiosa notizia, finora mai provata, che «oltre la pittura si dilettava anco molto di poesia volgare, nella quale riuscì non mediocre» (Campi, 1585, p. LIIII. La prima attestazione è la cosiddetta Cleopatra del Museo Correr di Venezia (inv. 82), firmata e datata: «Joseph Rivellus Galeacii filius cognomento barba Cremonensis hoc faciebat 1544» (l’iscrizione, quasi del tutto sbiadita, fu letta da Vincenzo Lazari nel 1859).
Questa tavola, raffigurante una figura femminile a mezzo busto con un serpente attorcigliato tra le mani e una farfalla macaone a lato, cela con ogni probabilità un significato allegorico. La rigidità del profilo, così come lo sguardo vuoto e la ricchezza tutta manieristica dei dettagli, sono comuni ad altre due tavole di analogo formato: la prima, di ubicazione ignota, già avvistata a Cremona da Giovanni Battista Zaist, che la descrive come un’Amazzone (1774, p. 149), reca la firma del pittore e presenta anch’essa un problema di decifrazione iconografica; la seconda, già Farnese e ora alle Gallerie di Capodimonte (inv. Q 1930, n. 840), raffigura una S. Caterina e porta la firma, evidentemente apocrifa, di Girolamo Siciolante. Questo gruppo di dipinti, che si può assestare sulla cronologia dell’esemplare firmato, ibrida un gusto nordico per la rappresentazione emblematica e minuziosa con la ricezione, ingenua e sicuramente di seconda mano, delle novità manieristiche che si andavano affermando a Cremona su sollecitazione delle vicine Parma e Mantova. È probabile che queste tre tavole possano suggerire, in mancanza di opere del padre che datino al quinto decennio e vista la stretta collaborazione tra i due, come la bottega di famiglia cercasse di stare al passo con i tempi, senza riuscire a intenderne la portata.
Dopo la collaborazione, nel 1546-47, con il padre Galeazzo ai lavori del palazzo del Comune di Cremona, non si hanno altre notizie della permanenza di Giuseppe in città. A partire dal 1556, egli è attestato a più riprese a Montichiari, vicino a Brescia, sposato con Tullia Asperti, anche lei di origine cremonese. Il 27 novembre 1556 il pittore presenziò come testimone alla stesura dell’atto dotale delle figlie di Nicolò Secco d’Aragona, che da poco, dopo una fulminante carriera diplomatica, si era ritirato nella residenza di famiglia a Montichiari. Il pittore doveva essere nel giro del Secco se, il 2 gennaio 1557, testimoniò anche all’atto di matrimonio delle figlie di lui con i marchesi Malaspina di Villafranca e, di nuovo, il 27 aprile compariva a suo nome per la stesura di un atto.
Il 7 dicembre 1557 Rivelli fu chiamato, insieme con Girolamo Romanino, a collaudare le ante d’organo dipinte nel Duomo di Salò dal pittore locale Antonio Maria Mazzoleni. Che il pittore avesse una bottega attiva a Montichiari è provato da un documento con cui, il 24 febbraio 1558, prese Silvestro Monconi come garzone per sette anni, promettendo di insegnargli il mestiere «et nihil tenere occultum» (Cigala, 2002). Qualche anno più tardi, il 2 maggio 1562, Giuseppe ricevette il saldo dai monaci dell’abbazia di S. Benedetto di Polirone, fuori Mantova, per aver dipinto le Storie di s. Benedetto sul lato meridionale del chiostro omonimo e «libros et cartas miniatas pro choro vel monasterio»: degli affreschi non è rimasto nulla, ma è degno di nota che le scene, come nell’attiguo chiostro di S. Simeone, fossero illustrate dai versi latini di Angelo Faggio da Castel Sangro, abate del monastero dal 1567 al 1571.
Il tentativo di identificare i fogli miniati citati nel pagamento con quelli del corale A2 dell’Archivio storico diocesano di Mantova, già all’abbazia di Polirone, risulta di un certo interesse, visto che il codice, compilato dall’amanuense Teodoro da Castelgoffredo, presenta caratteri compatibili con le opere documentate del pittore.
Nonostante la carenza di opere, e a dispetto di coetanei di maggiore rilievo, i Rivelli hanno goduto di una fortuna costante nei percorsi della letteratura artistica. Al centro di un garbuglio storiografico che affonda le sue radici in una svista della Cremona fedelissima di Antonio Campi (1585) e in un passo pasticciato di Filippo Baldinucci (1681-1728, 1974), tra Sette e Ottocento i Rivelli si moltiplicarono (Galeazzo senior – Galeazzo jr. – Giuseppe), includendo la figura di Cristoforo Moretti; Pietro Vitali (1818) fu il primo a far chiarezza, anche se qualche avvisaglia era già contenuta nella Storia pittorica di Luigi Lanzi (IV, 1809; p. 121).
Nel corso degli anni Galeazzo è stato oggetto di diverse proposte attributive, in gran parte da scartare: a Cremona, nella Pinacoteca, le due tavolette con S. Bernardino da Siena e un devoto e S. Antonio abate e s. Giovanni Battista, in realtà firmate e datate da Bernardino Ricca, e la Sacra famiglia con s. Nicola da Tolentino, da avvicinare all’ambito del giovane Altobello (Puerari, 1951); nel convento di Sant’Abbondio, il soffitto dello studiolo, datato 1513, che si rivela di ben altra tenuta rispetto alle opere documentate del pittore (G. Bora, in I segni dell’arte, a cura di G. Bora - M.Z. Zlatobláveck, 1997); nella stessa occasione è stato ascritto al pittore il Santo vescovo del Fogg Art Museum di Cambridge (Mass.), già creduto opera di Marco Palmezzano da Stefano Tumidei, e in realtà non distante dai modi di Lorenzo de’ Beci (Tanzi, 1998). Per quanto riguarda Giuseppe, va segnalata la proposta, avanzata da Sergio Marinelli, di accostargli la S. Margherita della Pinacoteca di Cremona, che però, al confronto, rischia di far impallidire le mezze figure firmate dal pittore (Tanzi, 1998).
Fonti e Bibl.: Cremona, Biblioteca statale e Libreria civica, AA.2.16, D. Arisi, Accademia de’ pittori, scultori ed architetti cremonesi (sec. XVIII), c. 126; A. Campi, Cremona fedelissima città, et nobilissima colonia de’ Romani, Cremona 1585, p. LIIII (Lo stampatore agli amorevoli lettori, pp. n.n.); F. Baldinucci, Notizie dei professori del disegno da Cimabue in qua [1681-1728], II, Firenze 1974, pp. 68, 120.
G.B. Zaist, Notizie istoriche de’ pittori, scultori ed architetti cremonesi, I, Cremona 1774, pp. 20-28, 148 s.; P. Vitali, Le pitture di Busseto, Parma 1818, pp. 10-13, 118; B. Soresina Vidoni, La pittura cremonese, Milano 1824, pp. 120 s.; G. Grasselli, Abecedario biografico, Milano 1827, pp. 223-225; F. Sacchi, Notizie pittoriche cremonesi, Cremona 1872, pp. 145 s., 187 s., 191; A. Bertolotti, I comuni e le parrocchie della provincia mantovana, Mantova 1893, p. 183; G.B. Intra, Il Monastero di S. Benedetto Polirone, in Archivio Storico Lombardo, s. 3, XXIV (1897), 14, pp. 308, 337 s.; Esposizione d’arte sacra (catal.), Cremona 1899, p. 38; E. Schweitzer, La scuola pittorica cremonese (Ricordo dell’Esposizione d’arte sacra in Cremona), in L’Arte, III (1900), p. 54; J.A. Crowe - G.B. Cavalcaselle, A history of painting in North Italy, III, London 1912, p. 345 n. 2; A.M. Mucchi, Il Duomo di Salò, Bologna 1932, pp. 175-178; A. Puerari, La Pinacoteca di Cremona, Cremona 1951, pp. 81 s.; G. Mariacher, Il Museo Correr di Venezia: dipinti dal XIV al XVI secolo, Venezia 1957, p. 199; W. Suida, L’altra opera di Giuseppe Rivelli Cremonese, in Arte lombarda, III (1958), 1, pp. 99 s.; R. Berzaghi, Committenze del Cinquecento: la pittura, in I secoli di Polirone (catal.), I, San Benedetto Po 1981, pp. 301-303, figg. 35-37; G.B. Biffi, Memorie per servire alla storia degli artisti cremonesi (ante 1807), a cura di L. Bandera Gregori, Cremona 1989, pp. 19 s., 107 s., 166 s.; La collezione Farnese. I dipinti lombardi, liguri, veneti…, Napoli 1995, p. 133; I segni dell’arte (catal.), a cura di G. Bora - M. Zlatohlávek, Cremona 1997, pp. 14, 32, 149-153, 473; M. Tanzi, Lungo la Paullese 1, in Quattro pezzi lombardi, Brescia 1998, pp. 103 s. nota 12; A.G. De Marchi, Lo strano caso del pittore, poeta (e falsario?) Giuseppe Rivelli, in Bollettino d’arte, s. 6, LXXXV (2000), 114, pp. 73-78; G. Cigala, Il Romanino ritrovato e la comunità monteclarense nel XVI secolo, Montichiari 2002, pp. 84 s.; La pinacoteca Ala Ponzone. Il Cinquecento, a cura di M. Marubbi, Cremona 2003, pp. 75-77.