GALEANI NAPIONE di Cocconato, Gian Francesco
Nacque a Torino il 1° nov. 1748 nella parrocchia del Carmine, figlio primogenito di Valeriano (Carlo Giuseppe) e di Maddalena de Maistre. Come già il padre nel 1739, nel 1771 ebbe l'investitura con titolo signorile della giurisdizione di una parte del feudo di Cocconato (acquistata dal nonno Giambattista Galeani nel 1695), che - su sua richiesta - l'11 genn. 1780 fu eretta in contea (Fusani, p. 6).
Avviato dal padre agli studi giuridici presso la R. Università di Torino, il G. coltivò per tutta la vita una naturale inclinazione per gli studi storici e letterari, che si manifestò in giovanissima età.
"A quindici anni egli stese una vita di Giovanni Rucellai, a diciassette una lettera al signor Carlo Cerruti intorno all'anima delle bestie; a diciotto una dissertazione critica contro Adriano Baillet […]. Nel 1767 egli pubblicava un poemetto in versi sciolti, intitolato La morte di Cleopatra" (ibid., p. 7).
Ma il G. dovette ridurre il tempo riservato ai componimenti letterari, poiché, morto il padre (1768), stretto dalle necessità economiche, si adoperò per ottenere un impiego pubblico, che ebbe nel 1776 entrando nell'amministrazione delle Finanze, e diventando, tre anni dopo, intendente.
Frutto degli studi giuridici e dell'attenzione a questioni economico-finanziarie è una nutrita serie di memorie che vanno dal 1775 al 1826, parte edite e parte inedite (uno scrupoloso spoglio in Fossati, pp. XXIII-XXXVIII). In esse il G. spazia con grande versatilità dalle condizioni dei contadini a problemi monetari, annonari, commerciali, dalle cause della disoccupazione dopo le guerre napoleoniche a questioni amministrative e statistiche.
Alcune di tali memorie, relative a questioni di politica estera e interna, hanno origine da commissioni avute dal G. da parte della corte sabauda, come le Osservazioni intorno al progetto di pace tra S.M. e le potenze barbaresche (1780, manoscritto, presso l'Arch. di Stato di Torino; uno stralcio in N. Bianchi, Storia della monarchia piemontese dal 1773 al 1861, Torino 1877-85, I, p. 487), nate per soddisfare una richiesta di Vittorio Amedeo III sul negoziato in corso per una pace con gli Stati barbareschi. Il G. auspicava la creazione di una confederazione degli Stati "marittimi" italiani al fine di proteggere gli scambi commerciali via mare e cementare l'unione fra le popolazioni, già affratellate da usi, costumi e traffici. Pur riconoscendo "troppo premature" queste idee, egli proponeva come capo della confederazione il pontefice, "venerabile per rispetto della Religione e principe per instituto pacifico" (Fusani, p. 8).
Il sogno dell'unità e dell'indipendenza d'Italia ricompare nell'Idea di una confederazione delle potenze d'Italia… (1791, contenuta in Bianchi, II, pp. 527-548), scritta dal G. su richiesta di Joseph-Fr. Perret conte di Hauteville, ministro degli Esteri, e, più tardi, nel 1815, in una memoria sul congresso di Vienna (inedita e conservata nell'Archivio di Stato di Torino). Qui il G. estendeva il progetto confederativo dalle potenze marittime all'Italia intera, tralasciava l'idea del papa come principe e proponeva di italianizzare il Regno di Sardegna mediante la cessione della Savoia alla Confederazione elvetica. Il G. non riponeva alcuna fiducia nella forza rivoluzionaria del popolo, né traeva alimento dall'impeto eroico proprio di un patriota o di un letterato (come Vittorio Alfieri, per esempio, da lui, anzi, accusato di filofrancesismo, nonostante fosse autore del Misogallo), bensì affidava le sue speranze all'opera diplomatica e alla lungimiranza politica del sovrano e dei suoi ministri.
La sua fiducia nella monarchia sabauda fu ampiamente ripagata: nel 1782 il G. venne promosso all'intendenza di Susa e, tre anni dopo, a quella di Saluzzo.
Poeta dilettante, egli era iscritto alla colonia arcadica dei pastori della Dora, insieme con T. Valperga di Caluso, P. Balbo, Diodata Saluzzo, ma le sue qualità poetiche furono indubbiamente inferiori a quelle di funzionario e trattatista-memorialista. Nel 1785 compose in settenari ed endecasillabi la tragedia Griselda, tratta dalla novella del Boccaccio; nutrì anche velleità poetiche, che lo condussero fra l'altro a tradurre dal latino l'Eneide (libri II, IV, IX) e a comporre la parafrasi in versi delle Profezie di Isaia e dei Treni di Geremia (apparse in L'Amico d'Italia, rispettiv. 1826 e 1827), ma non raccolse grandi consensi (Fusani, pp. 69-72).
Nel 1786 il G. sposò Luigia Crotti di Costigliole, che morì due anni dopo di parto, dando alla luce la figlia Luigia (la quale sposerà nel 1836 Cesare Balbo, alle sue seconde nozze). Il 15 maggio 1787 Vittorio Amedeo III lo nominò sovrintendente alla perequazione e al censimento del Monferrato, nel 1790 membro della giunta per l'amministrazione dei Comuni, nel 1796 consigliere di Stato addetto agli archivi di corte, incarico che il G. sentì più vicino alla propria indole, perché "tiene del letterario […] e richiede piuttosto lavoro continuato al tavolino che udienza ed azione" (lettera al canonico I. De Giovanni, cit. in Fusani, p. 16).
E fu proprio un lavoro letterario - inserendolo nel dibattito sulla questione della lingua in Piemonte fra Sette e Ottocento - a rendere celebre il nome del G.: Dell'uso e dei pregi della lingua italiana (I-II, Torino 1791).
Steso già dieci anni prima con il titolo Osservazioni sulla lingua nostra, e ripubblicato in edizione definitiva a Firenze nel 1813 (in due tomi), completo di una lettera a S. Bettinelli e di alcuni opuscoli, il trattato, in tre libri, anticipa nel titolo il primato assegnato alla lingua italiana in un confronto con le altre lingue europee, la francese in particolare, di fronte alle quali M. Cesarotti dimostrava minore avversione (e questo sarà terreno di scontro fra il G. e il Cesarotti).
La necessità di una lingua nazionale comune si fece particolarmente urgente durante il processo di francesizzazione del Piemonte nel XVIII secolo fino alla fine dell'occupazione napoleonica (1814). Il francese divenne la lingua delle leggi, dei tribunali, dell'amministrazione, ma anche della conversazione e degli scritti scientifici e letterari (come, per esempio, le stesse Memorie dell'Accademia delle scienze di Torino stampate negli anni 1792-1800). In sintonia con gli accademici della Filopatria, della Sanpaolina e dei Concordi, già molti anni prima il G. aveva auspicato la formazione di una coscienza nazionale nel Saggio sopra l'arte storica (Torino 1773, p. 6), in cui deplora che "gli Italiani debbano leggere la Storia della propria nazione nella lingua de' Galli domati e degli ultimi Britanni, sulla selvatichezza de' quali scherzavano una volta i loro maggiori". L'antifrancesismo del G. non era incentrato sul purismo linguistico, sul rifiuto di singoli termini francesi (il cui prestito era anzi da lui ammesso per i livelli "bassi", per i mestieri umili), ma sul timore che l'influsso straniero costituisse motivo per la perdita dell'identità nazionale.
Per altro verso - sempre tenendo ferma la pregiudiziale della superiorità culturale italiana - il G. apprezzava nel francese i caratteri che avrebbe voluto propri dell'italiano: spigliatezza, semplicità, vivacità, eleganza, nobiltà (la contraddittorietà di questa posizione è stata colta ed evidenziata con chiarezza di analisi da G.L. Beccaria).
Il G. idealizzava un letterato che, lontano da ogni eccesso di pedanteria e severità, sapesse unire la dottrina e l'utilità sociale all'urbanità e alla disinvoltura della lingua. I modelli erano: T. Tasso (i Dialoghi), M. Bandello (di cui pubblicò l'elogio in Piemontesi illustri, V, Torino 1787, pp. 1-196) e gli esponenti della prosa scientifica o storica già apprezzati largamente nel Settecento: G. Galilei, F. Redi, L. Magalotti, B. Cellini, F. Algarotti, S. Maffei.
Il rifiuto del francese si accompagnava a quello del latino, in quanto lingua morta, e del dialetto, il quale impedirebbe la diffusione dell'italiano nella conversazione quotidiana. Dialetto - si badi - è considerato pure il toscano, in una polemica antitrecentesca contro il purismo dell'Accademia della Crusca (soppressa peraltro nel 1783) che vede unanimi G. Grassi, C. Balbo e C. Vidua. Il bando di fiorentinismi e preziosismi letterari da un'ideale lingua comune coincide con la volontà di ridimensionare il passato ed esclusivo primato linguistico-culturale di Firenze sul resto d'Italia, per rivalutare le glorie piemontesi e conferire loro un più ampio respiro nazionale. In quest'ottica va collocato il risvegliato interesse per l'archeologia, le tradizioni popolari, la storia locale, compresi gli studi del G. sul Bandello, su G. Botero (in Piemontesi illustri, I, Torino 1781, pp. 151-238), sui cronisti piemontesi (ibid., IV, ibid. 1784, pp. 141-242), la memoria su Federico Asinari conte di Camerano letta nel 1813 all'Accademia delle scienze, le dissertazioni riguardanti una presunta origine monferrina di Cristoforo Colombo (Torino 1805 e 1823). Nel Discorso intorno alla storia del Piemonte (in C. Calcaterra, I Filopatridi, Torino 1941, pp. 189-217), il G. avvertiva la mancanza di una storia e di uno storico del Piemonte, rammentando la funzione educatrice di un'opera in grado di distogliere dall'eccessiva ammirazione per le cose straniere.
"Napione vagheggia un corpus di opere erudite di storia locale in cui si eviti quanto di pesante, di imbottito di citazioni, di scoraggiante e noioso potesse stornare anche la "più dolce e cara parte della nazione" dall'occuparsene, vale a dire le gentildonne, che egli considera paradigma del pubblico medio cui indirizzare opere divulgative ed educative" (Beccaria, 1985, p. 147). Le donne rappresentano dunque per il G. il tramite per la diffusione di una lingua comune, nobile e naturale, con cui scrivere correttamente e conversare elegantemente, ideale che si collega a quelle qualità di scioltezza, agilità, semplicità ravvisate nel francese, e, anche, nella figura femminile del Settecento. Si coglie, infine, l'esigenza di una lingua popolare che non si limiti alla poesia e alla prosa letteraria, ma esca dalla cerchia dei dotti e sia strumento di estensione della cultura e della scienza a più larghi strati sociali. Tale politica culturale e linguistica nazionale avrebbe dovuto, secondo il G., essere avviata dal Piemonte sotto la guida della corte sabauda, in un ideale richiamo al Cinquecento, mitizzato come secolo della lingua comune nelle corti italiane rinascimentali.
Nel 1792 il G. sposò, in seconde nozze, Barbara Lodi di Capriglio, che gli diede un figlio, Valeriano (morto nel 1798), e quattro figlie, Carolina, Marianna, Giacinta e Maria Teresa. Nel 1797 aggiunse ai suoi incarichi quello, prestigioso, di generale delle Finanze, da cui si dimise pochi mesi dopo, per evitare di sottoscrivere un editto che riteneva dannoso al paese (sulla coscienza della propria inadeguatezza alla carica appena ottenuta cfr. la lettera al De Giovanni, in L. Martini). Dopo le dimissioni riprese il lavoro negli archivi regi, mantenendo il titolo di consigliere di Stato. Fedele ai Savoia, dopo l'occupazione francese del Piemonte rimase lontano dalla vita pubblica, dedito alla stesura di saggi di varia erudizione su argomenti storici, militari, antiquari, paleografici, numismatici, letterari, con incursioni anche nella letteratura latina (commento a un'ode di Orazio; traduzioni: delle Tusculanae disputationes [Firenze 1805] e del Laelius [inedita] di Cicerone; e della Vita di Giulio Agricola di Cornelio Tacito, ibid. 1806). Parte di questi studi fu stampata nelle Memorie dell'Accademia delle scienze di Torino, di cui il G. fu nominato socio il 17 genn. 1801, e pochi mesi dopo, il 10 agosto, presidente per la classe di scienze morali, storiche, filologiche (nomina rinnovata nel 1804), e infine bibliotecario nel 1812. In quest'anno fu eletto accademico della risorta Accademia della Crusca. Sotto il governo napoleonico fu insignito della Legion d'onore.
Restaurata la monarchia sabauda, tornò a lavorare negli archivi di corte, di cui fu promosso sovrintendente e presidente. Nel 1816 fu nominato membro del Magistrato per la riforma dell'Università e in tale veste fece istituire la cattedra di economia politica. Nello stesso periodo gli fu conferita la croce dell'Ordine mauriziano.
Nel 1818 furono raccolte e pubblicate a Pisa in tre tomi le sue Vite ed elogi di illustri italiani. Alcune Vite avevano già visto la luce isolatamente in tempi precedenti (G. Botero, cronisti piemontesi, Bandello, Asinari di Camerano), altre comparvero per la prima volta (A. Palladio, L.A. Muratori, S. Bettinelli, G. Nevizzano da Asti e G.A. Molineri).
Il G. morì a Torino il 12 giugno 1830.
Le opere manoscritte del G. sono reperibili nell'Archivio di Stato di Torino e nelle seguenti biblioteche torinesi: Civica, Reale, Nazionale, dell'Accademia delle scienze.
Fonti e Bibl.: Torino, Chiesa parrocchiale di S. Maria del Carmine, Liber primus baptizatorum… ab anno 1729 ad 1779, p. 239 bis; Ibid., Biblioteca Reale, A. Manno, Patriziato subalpino, XXI, pp. 8 s. (testo dattiloscritto); L. Sauli d'Igliano, Necrologia. Conte G.F. G.N., in Antologia, 7 luglio 1830, pp. 118-125; P.A. Paravia, G.F. G.N., in E. De Tipaldo, Biogr. degli Italiani illustri, I, Venezia 1834, pp. 87-91; L. Martini, Vita del conte G.F. G.N., Torino 1836; T. Vallauri, Storia della poesia in Piemonte, II, Torino 1841, p. 414; D. Berti, I piemontesi e la Crusca…, Firenze 1879, pp. 25-28; Il primo secolo della R. Accademia delle scienze. Notizie stor. e bibliogr. (1783-1883), Torino 1883, pp. 473 s. (con l'elenco dei contributi del G. pubblicati nelle Memorie dell'Accademia delle scienze); L. Fusani, G.F. G.N. di Cocconato-Passerano. Vita e opere, Torino 1907; U. Valente, Un amoroso biografo del Bettinelli, Roma 1912; Le milizie sabaude, a cura di E. Scala, Roma 1936, pp. 9-13.
La bibliografia sul G. si concentra quasi totalmente sul trattato Dell'uso e dei pregi della lingua italiana, celebre già ai suoi tempi e oggetto di studio specialmente nel Novecento: A. Fossati, Il pensiero economico del conte G.F. G.N., Torino 1936; Introduzione a Discussioni linguistiche del Settecento, a cura di M. Puppo, Torino 1957, pp. 83-90; G. Grana, Lingua italiana e lingua francese nella polemica G.N. - Cesarotti, in Convivium, XXXII (1964), pp. 479-497; V. Criscuolo, Per uno studio delle dimensione politica della questione della lingua, in Critica storica, XV (1978), 2-3, pp. 78-95; M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1978, pp. 285-288, 335-338; G.L. Beccaria, Italiano al bivio. Lingua e cultura in Piemonte tra Sette e Ottocento, in Atti del Convegno Piemonte e letteratura 1789-1870(San Salvatore Monferrato… 1981), a cura di G. Ioli, Torino 1983, I, pp. 15-55; C. Marazzini, L'italiano rinnegato. Politica linguistica nel Piemonte francese, ibid., pp. 56-77; Id., Questione della lingua e antifrancesismo in Piemonte tra Sette e Ottocento: l'eredità culturale di G.N., in Lingua nostra, XLIII (1982), 4, pp. 100-107; G.L. Beccaria, Intellettuali, accademie e "questione della lingua" in Piemonte tra Sette e Ottocento, in I due primi secoli dell'Accademia delle scienze di Torino. Atti del Convegno, 10-12 nov. 1983, in Atti dell'Accademia delle scienze di Torino, classe di scienze morali, storiche e filologiche, CXIX (1985), Suppl., pp. 135-161; C. Marazzini, Il Piemonte e la Valle d'Aosta, Torino 1991, pp. 62-65.