Sallustio Crispo, Gaio
Storico latino, nato ad Amiternum in Sabina il 1° ottobre dell’86 a.C. da famiglia facoltosa che però non contava magistrati fra i suoi membri. Dopo aver compiuto gli studi a Roma, si dedicò alla politica militando nel partito dei populares. Durante la guerra civile si schierò con Cesare che lo ricompensò nominandolo governatore della provincia di Africa nova, comprendente buona parte del regno di Numidia tolto a Giuba, partigiano di Pompeo. Tornato a Roma, si ritirò dalla vita politica per dedicarsi alla storiografia. Morì nel 35 o nel 34 a.C. Scrisse due monografie: il Bellum Catilinae (o De Catilinae coniuratione) e il Bellum Iugurthinum. Di un’opera storica di maggior respiro, le Historiae, comprendente gli avvenimenti fra il 78 e il 67 a.C. e rimasta incompiuta al V libro, sono giunti numerosi e, in alcuni casi, ampi frammenti. Tuttora controversa è l’attribuzione delle due Epistulae ad Caesarem senem de re publica e dell’Invectiva in Ciceronem.
L’opera di S. conobbe un’ininterrotta fortuna sin dall’antichità sia per la versatilità del suo pensiero, adattabile a epoche diverse, sia per la forza dello stile, che influenzò moltissimo tutta la storiografia successiva. Lette con continuità durante tutto il Medioevo, le monografie sallustiane furono frequentemente utilizzate come testi scolastici e pertanto corredate di glosse, commenti e accessus ad auctorem; inoltre, agli inizi del Trecento il Bellum Catilinae e il Bellum Iugurthinum furono volgarizzati dal frate domenicano Bartolomeo da San Concordio. Durante l’Umanesimo e il Rinascimento la già considerevole fortuna dello storico latino aumentò ulteriormente con una cospicua diffusione dei manoscritti e, successivamente, delle stampe: già Francesco Petrarca possedeva copie delle opere di S. e con lui Guglielmo da Pastrengo e Giovanni Colonna. Nel corso del 15° sec. codici sallustiani erano presenti nelle maggiori biblioteche principesche, mentre crescevano negli studiosi l’interesse e la sensibilità per la lingua e lo stile; inoltre, insieme a una maggiore cura testuale, la filologia umanistica si impegnò nella raccolta dei frammenti di tradizione indiretta delle Historiae.
L’editio princeps delle due monografie sallustiane fu pubblicata a Venezia nel 1470 da Vindelino da Spira che, l’anno successivo, diede alle stampe una nuova edizione comprendente anche l’Invectiva in Ciceronem. Le orationes e le epistulae estratte dai frammenti delle Historiae, insieme alle Epistulae ad Caesarem, furono stampate a Roma da Arnold Pannartz nel 1475, mentre sempre a Roma nel 1490, per cura di Pomponio Leto, vide la luce la prima stampa di tutte le opere attribuite allo storico latino. A queste seguirono numerose altre edizioni in tutta Europa, spesso curate da eminenti filologi e corredate di commento.
Secondo solo a Livio fra gli storici latini menzionati, come oggetto delle sue letture, da Francesco Vettori nella lettera a M. del 23 novembre 1513 (Lettere, p. 292), S. fu certo al centro degli studi anche del Segretario fiorentino e la sua eco, quando non citato direttamente, è stata individuata frequentemente nel M. storico. È il caso del ritratto di Castruccio Castracani costruito sul modello del Giugurta sallustiano: «Cresceva in Castruccio con gli anni la grazia, e in ogni cosa dimostrava ingegno e prudenza [...]» (§ 14) riecheggia il «Qui ubi primum adolevit [...]» di Iug. 6, 1, così come la successiva descrizione del rapporto singolare instaurato dal giovane lucchese con i coetanei («vidde più volte Castruccio con gli altri fanciulli della contrada in quegli esercizii ch’io dico di sopra esercitarsi; e parendogli che, oltre al superargli, egli avessi sopra di loro una autorità regia e che quelli in uno certo modo lo amassino e riverissino [...]», § 18) ricorda, secondo un luogo comune nelle vite dei predestinati alla gloria, il giugurtino cursu cum aequalibus certare et, cum omnis gloria anteiret, omnibus tamen carus esse («gareggiare nella corsa con i coetanei, sebbene fosse il primo fra tutti, nondimeno tutti lo amavano», Iug. 6, 1).
Secondo Francesco Bausi (2005, p. 182), S. fu uno degli autori di cui è lecito supporre da parte di M. una conoscenza diretta e integrale, e infatti non ne mancano nei Discorsi citazioni esplicite. Nel cap. viii del II libro (La cagione perché i popoli si partono da’ luoghi patrii e inondano il paese altrui) M., parlando del genere di guerra che ha origine dal moto di un popolo il quale, spinto dalla necessità, invade un territorio non suo, non per sottometterne gli abitanti, ma per sostituirsi a essi, introduce, a conferma di quanto detto, una citazione dal Bellum Iugurthinum:
E di queste guerre ragiona Sallustio nel fine dell’Iugurtino, quando dice che, vinto Iugurta, si sentì il moto de’ franciosi che venivano in Italia: dove ei dice che il Popolo romano con tutte le altre genti combatté solamente per chi dovesse comandare, ma con i franciosi combatté sempre per la salute di ciascuno (§ 7).
M. in effetti traduce quasi alla lettera il sallustiano «Illique et inde usque ad nostram memoriam Romani sic habuere, alia omnia virtuti suae prona esse, cum Gallis pro salute, non pro gloria certare» (Iug. 114, 2), dimostrando quindi una conoscenza precisa del testo. Nel cap. vi del III libro M. rievoca brevemente le vicende del complotto ordito da Catilina, introducendole con la significativa notazione: «Ciascuno ha letto la congiura di Catilina scritta da Sallustio [...]» (§ 166), che testimonia la massiccia diffusione della monografia sallustiana.
Molto più complessa è la questione del rapporto con lo storico latino a proposito del cap. iv del I libro (Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica). Il valore esemplare della storia romana era stato messo in discussione nei secoli da una vasta e variegata tradizione di pensiero; con questi detrattori di Roma, che avevano accentuato il carattere violento delle lotte sociali repubblicane, polemizza M. quando propone la tesi secondo cui proprio da quei conflitti era derivata la grandezza dello Stato romano:
Io dico che coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe, mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori e alle grida che di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano; e che e’ non considerino come e’ sono in ogni republica due umori diversi, quello del popolo, e quello de’ grandi; e come tutte le leggi che si fanno in favore della libertà, nascano dalla disunione loro, come facilmente si può vedere essere seguito in Roma; perché da’ Tarquinii ai Gracchi, che furano più di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte partorivano esilio, e radissime sangue (§ 5).
Gennaro Sasso (1987, pp. 451-59) ha sottolineato che la tradizione antiromana contro cui si scaglia M. aveva fra i suoi maggiori esponenti Agostino, che nel De civitate Dei citava frammenti delle Historiae sallustiane da cui emergeva un profilo della storia romana segnato dall’odio e dalla violenza di parte. In realtà, nota lo studioso, il giudizio di S. sulle lotte fra patrizi e plebei, pur sostanzialmente positivo, si basava sui valori della virtus e della modestia, da cui finiva con il derivare la concordia ordinum et civium, piuttosto che su una reale divisione e opposizione fra le classi. Lo storico latino mancava di cogliere ciò che più interessava a M., ovvero il significato dinamico delle lotte fra patrizi e plebei in vista della futura grandezza romana. La «formale e statica positività del giudizio sallustiano» (Sasso 1987, p. 459) non poteva essere condivisa da M. che, come appare evidente dal brano citato, riteneva i tumulti manifestazione di forze che, scontrandosi fra loro, davano vita a quelle leggi su cui si basava la libertà della repubblica.
Al punto d’arrivo della riflessione di M. sul conflitto fra patrizi e plebei a Roma (Discorsi I xxxvii), di nuovo si avverte un preciso segno sallustiano nell’idea dei diversi effetti provocati dalla contesa per gli «onori» e da quella, catastrofica, per la «roba» (§ 25; cfr. Catil. 11, 1-3, con tagli: primo magis ambitio quam avaritia animos hominum exercebat, quod tamen vitium propius virtutem erat [...] Avaritia [...] semper infinita insatiabilis est, neque copia neque inopia minuitur, «All’inizio più l’ambizione che l’avidità affliggeva l’animo degli uomini, e tuttavia era un vizio che si avvicinava alla virtù [...]. L’avidità [...] è sempre smodata e insaziabile, né l’abbondanza né la penuria la diminuiscono» ecc.) e nella stessa ‘regola’, che M. suggerisce per la salute degli Stati, di «tenere ricco il publico e gli [...] cittadini poveri» (§ 8; cfr. in Catil. 52, 21-22 il paragone, posto in bocca a Catone, fra i Romani delle origini e i contemporanei: alia fuere quae illos magnos fecere, quae nobis nulla sunt [...] pro his nos habemus luxuriam atque avaritiam, publice egestatem, privatim opulentiam, «ben altre furono le cause della loro grandezza, che noi non abbiamo più [...] in cambio abbiamo l’amore per il lusso e per il denaro, lo Stato povero e ricchi i privati»).
Bibliografia: Catilina; Iugurtha; Historiarum fragmenta selecta; Appendix Sallustiana, ed. L.D. Reynolds, Oxford 1991.
Per gli studi critici si vedano: G. Sasso, Machiavelli e i detrattori, antichi e nuovi, di Roma, in Id., Machiavelli e gli antichi e altri saggi, 1° vol., Milano-Napoli 1987, pp. 401-536 (in partic. 451-59); F. Di Legami, Spazio biografico e romanzesco ne La vita di Castruccio Castracani, in Cultura e scrittura di Machiavelli, Atti del Convegno, Firenze-Pisa 27-30 ott. 1997, Roma 1998, pp. 413-22; P.J. Osmond, R.W. Ulery, Sallustius Crispus, Gaius, in Catalogus translationum et commentariorum, 8° vol., Mediaeval and Renaissance latin translations and commentaries, ed. V. Brown, J. Hankins, R.A. Kaster, Washington D.C. 2003, pp. 187-214; F. Bausi, Machiavelli, Roma 2005.