MORETTI, Gaetano
MORETTI, Gaetano. – Nacque a Milano, nella casa paterna in contrada San Damiano, il 26 luglio 1860, da Luigi e da Maria Monti. Il padre, di origini pavesi, era un abile ebanista e affermato arredatore della Milano ricco-borghese, la madre era figlia di Gaetano Monti, apprezzato negoziante di mobili (Rinaldi, 1993).
Nel laboratorio del padre Moretti imparò l’arte dell’intaglio e della modellazione (Annoni, 1959) e maturò quella passione per le arti applicate che lo portò, ad appena 15 anni, a iscriversi all’Accademia Braidense. A Brera ritrovò l’atmosfera già vissuta nell’atelier paterno e acquisì una formazione di prim’ordine entro cui il disegno ebbe un ruolo fondamentale. Inizialmente orientò gli studi alle più frequentate discipline di ornato e disegno di figura per poi iscriversi, dal 1879, alla Scuola di elementi di architettura e, dal 1881, al triennio della Scuola speciale, all’epoca diretta da Camillo Boito, che terminò nel 1883 diplomandosi maestro di disegno architettonico. Dopo due anni ottenne l’abilitazione all’insegnamento nelle scuole tecniche, magistrali e normali.
Furono questi anni decisivi anche nella vita privata. Nel 1885 sposò Candida Bagicalupo, di famiglia benestante di Chiavari. Il matrimonio, dal quale nacquero due figli, nel 1886 Luigi e tre anni dopo Maria (che nel 1913 sposò Ambrogio Annoni, allievo e collaboratore prediletto di Moretti), rafforzò il legame profondo con la cittadina ligure, dove sin da ragazzo trascorreva le vacanze e dove poi svolse importanti incarichi professionali. Gli anni di formazione, tuttavia, che già definirono il profilo eccellente di Moretti, sono legati a Milano dove ottenne numerosi premi e riconoscimenti, come la segnalazione da parte di Giuseppe Mongeri, unico fra gli allievi di Brera, nel concorso dell’Istituzione Canonica per il completamento della facciata del duomo di Milano (1881) e la vittoria, sul tema «il cimitero secondario di Milano», del concorso Vittadini (1885). Nel 1886, quando la Fabbrica del duomo bandì un nuovo concorso per il completamento della facciata – uno dei temi architettonici più dibattuti nell’Italia postunitaria – il suo progetto fu fra i 15 selezionati per il concorso di secondo grado poi assegnato a Giuseppe Brentano. Ancora nel 1886 vinse il concorso di primo aggiunto di architettura presso l’Accademia dove insegnò geometria descrittiva dal 1887 al 1889. Si trovò così a lavorare al fianco di Boito. Dal maestro, che ai suoi allievi aveva lanciato la sfida di definire un’architettura «moderna» per la nazione, Moretti assorbì l’idea della storia come fondamento della progettazione e il convincimento che dalla padronanza dei linguaggi del passato bisognasse trarre ispirazione per un’architettura che, rigettando infeconde imitazioni, risolvesse in modo originale la piena coerenza tra forma e funzione. Sempre a Brera strinse un legame, più efficace sul piano concreto, con Luca Beltrami, del quale divenne fidato collaboratore e amico, in un rapporto molto partecipe sul piano culturale seppure non privo di una certa soggezione verso il maestro (Bellini, 1997, p. 110). Nella prima stagione postunitaria, quando Milano era oggetto d’imponenti trasformazioni urbane, Beltrami – molto più di Boito radicato nella cultura lombarda (Bellini, 1989, p. 668) – offrì a Moretti importanti occasioni di studio dei monumenti cittadini a rischio di demolizione e lo coinvolse, ancora studente, in campagne di rilievo come quella del Lazzaretto (1881), del castello Sforzesco (dal 1883), di palazzo Marino (1884), avviandolo al suo metodo ‘storico’ d’indagine e appassionandolo alla tutela dei monumenti, particolarmente quelli del Quattrocento lombardo. Dal 1892 Beltrami lo inserì anche nel comitato di redazione del periodico Edilizia moderna per il quale, fra il 1892 e il 1905, Moretti firmò circa 30 articoli, per lo più saggi in difesa dell’eclettismo, senza tuttavia mostrare grandi doti di critico (Rinaldi, 1993, p. 31). L’esito più rilevante di questo sodalizio fu la stretta collaborazione all’interno dell’Ufficio regionale per i monumenti della Lombardia – istituito nel 1891 a seguito della riforma nazionale dell’esercizio di tutela – che Beltrami diresse fino al 1896, quando Moretti gli subentrò nella carica.
Prima di questa data, guadagnata una discreta notorietà grazie ai concorsi d’architettura, Moretti aveva già fatto il suo esordio come architetto (Annoni, 1950, p. 42). Delle opere giovanili rimane ben poco, per lo più altari e arredi religiosi (Beltrami, 1912), fra cui un altare dedicato a Leone XIII (1886) che, ispirato ai polittici tardotrecenteschi di area padana, manifesta il raffinato gusto eclettico appreso a Brera.
Nel 1896 aveva accumulato un’esperienza professionale tale da fargli ottenere, per soli titoli, grazie anche alle pressioni di Boito e Beltrami, il diploma di architetto civile. In quegli anni – in cui incassò una pesante delusione per gli esiti del concorso per l’ampliamento di palazzo Montecitorio a Roma (1897-98) – Moretti indirizzò prevalentemente la sua carriera all’insegnamento e alla tutela dei monumenti. Come architetto, alternò l’uso di codici storicisti – in particolare nell’edilizia religiosa e nelle committenze pubbliche – a linguaggi originali, sperimentati anche in relazione ai temi inediti offerti dal mondo della produzione (Calzavara, 1958), che lo costrinsero a un distacco dallo storicismo boitiano, «che pecca di eccessivo ragionamento » (G. Moretti, Camillo Boito, in Atti del Collegio degli ingegneri e architetti di Milano, Milano 1915, p. 15).
Un primo allontanamento dagli insegnamenti del maestro si ebbe nell’architettura funeraria, dove, «essendone nuovo, moderno il tema intrinseco e lo scopo dell’arte» (Annoni, 1922, p. 378), egli manifestò un linguaggio originale, in alcuni casi accostato dalla critica contemporanea alle coeve esperienze art nouveau di derivazione europea (Patetta, 1997, p. 71), come nell’edicola cineraria Fontana (1894) e nella cappella Polvara rispettivamente nei cimiteri di Milano e Annone Bagni (1897). L’evoluzione verso un linguaggio più moderno emerge anche da un confronto fra l’impostazione urbanistico-architettonica marcatamente monumentale del cimitero di Chiavari, primo tema a scala propriamente urbana con il quale si confrontò dal 1893, e la razionalità severa del cimitero e del mausoleo Crespi nel villaggio operaio di Crespi d’Adda (1896-1907). Quest’incarico segnò un rapporto più che decennale con un committente, l’imprenditore Benigno Crespi, appartenente a quella borghesia produttiva rafforzatasi dopo l’Unità, cui Moretti, per provenienza, si sentì sempre profondamente affine e per la quale elaborò le sue opere più originali.
Il rapporto arte-produzione fu al centro dei suoi interessi nell’esperienza d’ispettore delle scuole-laboratorio della Società umanitaria di Milano (1903) e, seppure con finalità e risultati del tutto differenti, negli arredi disegnati per la prima Esposizione di arti decorative del 1902 a Torino, per conto del mobiliere Ugo Ceruti. Tale indirizzo ebbe tuttavia gli esiti più rilevanti su scala architettonica quando, fra il 1904 e il 1907, Moretti fu incaricato di fornire veste decorativa ad alcune centrali idroelettriche, fra cui quella di Trezzo d’Adda, di nuovo per la committenza Crespi, considerata uno dei prodotti più interessanti dell’architettura di primo Novecento per la sua modernità, intesa come licenza dagli stili del passato, rispondenza fra forma e funzione, rapporto con il contesto (Restucci, 1997).
Per l’abitazione-studio progettata per sé in viale Majno a Milano nel 1911 e per la centrale di Trezzo, Zevi (1950) ha ipotizzatol’influenza di Hendrik P. Berlage, prontamente rifiutata dagli allievi di Moretti che ne hanno smentito la contaminazione con l’architettura d’oltralpe e l’art nouveau (Annoni, 1950). Sono di quel periodo anche alcuni edifici residenziali, fra cui la sobria casa Pacchetti in via Legnano a Milano (1907-08).
Forte della lezione boitiana sull’impossibilità di riprodurre forme nuove per gli usi ereditati dal passato (Annoni, 1922, p. 377), negli stessi anni Moretti si misurò, questa volta in chiave marcatamente stilistica, con alcuni temi di edilizia religiosa, fra cui la facciata della cattedrale di Ceneda- Vittorio Veneto (1903-04), la chiesa di S. Francesco a Gallarate (1904), l’asilo e oratorio Polvara ad Annone Bagni (1905- 06), il nuovo campanile per la prepositurale di Trezzo d’Adda (1906-07). Il ripristino di una dimensione storica è rintracciabile anche nel progetto di sistemazione della piazza ducale a Vigevano (1902-10). In rapporto all’architettura religiosa Moretti fu fortemente condizionato dal ruolo entro l’Ufficio regionale lombardo e dal metodo d’indagine e restauro, mai posto in discussione, ereditato da Beltrami, come già si evince nel giovanile intervento sulla facciata della chiesa del S. Sepolcro a Milano, con Cesare Nava (1894-1897).
Come direttore riunì grandi capacità professionali e organizzative e ricoprì numerosi incarichi, seguendo però raramente i cantieri in prima persona. Dal 1903 al 1905 resse anche l’Ufficio regionale per i monumenti del Veneto, investitura necessaria per presiedere ai lavori di ricostruzione del campanile di piazza S. Marco a Venezia, crollato nel 1902, in sostituzione di Beltrami che, nel frattempo e non senza polemiche, aveva lasciato l’incarico. Nell’ambito del restauro, Moretti fu quasi del tutto estraneo alle riflessioni teoriche, come mostrano le sue relazioni sull’attività dell’ufficio, scrupolose sul piano descrittivo ma del tutto prive di riflessioni critiche (Bellini, 1989, p. 673).
In quegli anni, la tutela monumentale si misurava con le esigenze di trasformazione dei centri urbani, che spesso coincidevano – a danno dell’edilizia storica cosiddetta minore – con i programmi di valorizzazione dei monumenti più prestigiosi. Se da un lato, dunque, l’ufficio di Moretti avviò importanti battaglie in favore dei monumenti, come nel caso della quattrocentesca casa dei Missaglia o della Pusterla dei Fabbri a Milano, d’altra parte, in aperta contraddizione con questo atteggiamento, consentì, in nome del rinnovamento urbano, la demolizione di edifici di una certa rilevanza e dei tessuti storici, per promuovere l’isolamento di complessi monumentali quali S. Maria delle Grazie (1892) e S. Ambrogio a Milano (1908) o la cattedrale di Cremona (1914). Quanto l’azione di tutela, in quegli anni, fosse sostanzialmente slegata dalle politiche urbane lo dimostra anche l’attività di Moretti urbanista, quasi interamente rivolta all’estetica della città, come nel caso della sistemazione di piazza De Ferrari a Genova (1904).
Coerente alle tendenze generali, egli concepì un atteggiamento di rigorosa conservazione solo nel restauro archeologico, le cui problematiche approfondì, nel 1901, durante un viaggio di studio in Grecia e Egitto per conto del Ministero della Pubblica istruzione (G. Moretti, La conservazione dei monumenti in Egitto e Grecia, in Bollettino ufficiale del ministero dell’Istruzione pubblica, XXIX [1902], 48, pp. 3-64, suppl.). Per il resto, declinò la lezione ‘storica’ di Beltrami secondo necessità fino ad approdare, negli anni Venti, a una teoria del caso per caso (G. Moretti, Criteri nei restauri dei monumenti sacri, in Arte cristiana, IX [1921], 11, pp. 328-340) che rendeva ancor più labili gli orientamenti del restauro storico (Bellini, 1989, p. 673).
Moretti lasciò la direzione dell’Ufficio regionale nel 1908 quando, «per meriti insigni », ottenne, presso l’Istituto tecnico superiore di Milano – dove dal 1905 svolgeva già la libera docenza – la prestigiosa cattedra di architettura civile già occupata da Boito (Rinaldi 1989, p. 618).
Nel frattempo, all’apice della carriera professionale, la sua fama di architetto ‘moderno’ lo precedette oltreoceano, in Sudamerica dove, fra il 1907 e il 1927 ottenne incarichi importanti. La sua opera – influenzata da una committenza che richiedeva architetture celebrative e retoriche – segnò qui un’involuzione in chiave stilistica e monumentale come nel monumento alla Repubblica argentina a Buenos Aires (1909), con Luigi Brizzolara, la cui travagliata realizzazione gli procurò non poche amarezze, o il completamento del palazzo legislativo di Montevideo (1913- 25) e la sistemazione delle adiacenze che lo costrinsero, per circa un decennio, a ripetute assenze dall’Italia. Il Rinascimento fiorentino gli ispirò la Galleria di belle arti a Lima, mentre adottò una «moderna intonazione classico-arcaica» per il monumento alla bandiera argentina a Rosario (ibid., p. 217).
L’esperienza in Sudamerica coincise con una riduzione degli incarichi in Italia. Del resto, alla fine del conflitto bellico, la generazione di architetti di fine Ottocento – che di fatto aveva favorito, con una «lezione di onestà e moralità », le condizioni per la nascita delle avanguardie razionaliste – risultò del tutto inattuale (Zevi, 1950). In quegli anni, Moretti ebbe un ruolo decisivo nel travagliato dibattito sulla riforma degli studi d’architettura (Ricci, 1989, p. 610). Fedele alla tradizione milanese, difese l’importanza, nella formazione, del rapporto stretto fra teoria e applicazione e insistette con i suoi allievi sul ruolo della storia per il progetto. Non ebbe però seguaci; per via della liberalità del suo insegnamento, come sostennero i suoi allievi (Portaluppi, 1939), ma più probabilmente per la sua personalità schiva e accomodante che lo portò a ritirarsi proprio quando la cultura architettonica italiana richiedeva nuovi impulsi.
Raggiunti i vertici dell’insegnamento, al contempo abbandonò la ricerca di linguaggi architettonici originali, tenendosi al margine della polemica fra ‘passatisti’ e ‘modernisti’. Né si lasciò permeare, nei suoi ultimi incarichi professionali, dalle sperimentazioni dei suoi allievi Giovanni Muzio, Piero Portaluppi, Giuseppe Terragni, coerente solo con il programma boitiano sulla razionalità degli organismi architettonici, come nel progetto del 1926 per il palazzo delle Assicurazioni generali in piazza del Duomo, con Annoni e Meizza, i cui lavori di edificazione si avviarono nel 1928. Questa data fu segnata dalla morte della moglie Candida, alla quale dedicò gli studi per il nuovo piano regolatore di Chiavari, di cui fu incaricato nel 1934, quando ormai trascorreva nella cittadina ligure lunghi periodi di villeggiatura. A Chiavari attese anche ai lavori di completamento della facciata della chiesa di S. Giovanni Battista (1932), affrontando, per la prima volta in chiave non rigorosamente stilistica, un tema di edilizia religiosa. Nello stesso anno fu nominato primo preside della neonata facoltà di architettura di Milano, carica del tutto simbolica che coronava i suoi cinquant’anni d’insegnamento sempre in prima fila nelle battaglie per l’istituzione della nuova facoltà all’interno del Politecnico milanese. Un anno dopo, all’età di settancinque anni, fu collocato a riposo e festeggiato, nel 1936, con la consegna della Grande Medaglia dei benemeriti del Comune di Milano. Dopo il pensionamento, continuò a ricoprire importanti cariche quali la presidenza della Commissione edilizia milanese e di quelle per i restauri dell’abbazia di Chiaravalle (1936) e della chiesa di S. Ambrogio a Milano (1937). Rimase anche molto attivo all’interno della Fabbrica del duomo, di cui fu architetto dal 1904 al 1907 e amministratore dal 1917 al 1926. La sua ultima opera fu il fonte-monumento delle cave di Candoglia (1938), dove spesso si era recato a scegliere i marmi per il «suo amatissimo duomo» (Rinaldi 1993, p. 81).
Morì il 30 dicembre 1938 nella sua casa di viale Majno e fu seppellito nel cimitero di Chiavari, «genialissima opera sua» (Griffini, 1939, p. 57).
Fonti e Bibl.: G. M. Costruzioni, concorsi, scritti, a cura di L. Beltrami, Milano 1912; A. Annoni, G. M., in Arte cristiana, X (1922), 12, pp. 371-381; E.A. Griffini, G. M. (1860-1938), in Architettura, XVII (1939), 1, p. 57; P. Portaluppi, G. M., in R. Politecnico di Milano. Annuario anni accademici 1937-38, 1938-39, Milano 1939, pp. 62 s.; A. Annoni, Tre architetti dell’Ottocento: G. M., Luca Beltrami, Camillo Boito, in Metron, 1950, n. 37, pp. 42-46; B. Zevi, Eredità ottocentesca, ibid., p. 41; A. Annoni, Una precisazione, ibid., n. 39, p. 52; M. Calzavara, L’architetto G. M., in Casabella Continuità, 1958, n. 218, pp. 69-83; A. Annoni, Un maestro dell’architettura tra Ottocento e Novecento: G. M., in R. Politecnico di Milano, Annuario anni accademici dal 1951-52 al 1954-55, Milano 1959, pp. 15-21; M. Nicoletti, L’architettura liberty in Italia, Roma-Bari 1978; A. Bellini, La cultura del restauro 1914-1963, in Il politecnico di Milano nella storia italiana (1914-1963), Milano-Bari 1989, pp. 663-690; G. Ricci, Il dibattito culturale e legislativo per l’istituzione delle scuole superiori d’architettura, ibid., pp. 585-612; L. Rinaldi, G. M. e la formazione degli architetti fra eredità boitiana e rinnovamento, ibid., pp. 613–621; Id., G. M., Milano 1993; A. Bellini, Luca Beltrami architetto restauratore, in Luca Beltrami architetto. Milano tra Ottocento e Novecento, a cura di L. Baldrighi, Milano 1997, pp. 92-139; L. Patetta, L’architettura a Milano al tempo di Luca Beltrami, ibid., pp. 54- 75; A. Restucci, M. e lo stile dell’industria: centrale elettrica Enel, Trezzo d’Adda, 1905-1906, in Casabella, LXI (1997), 651-652, pp. 6-13;