GANDOLFI, Gaetano
Nacque a San Matteo della Decima (San Giovanni in Persiceto, presso Bologna) il 30 ag. 1734 da Giuseppe Antonio e Francesca Maria Baldoni; adolescente, poté raggiungere il fratello Ubaldo a Bologna per dedicarsi accanto a lui allo studio delle arti del disegno. Gli fu maestro E. Lelli, singolare figura di notomista, scultore, coniatore, pittore, ottico e ceroplasta, che svolse il ruolo di tramite tra l'insegnamento impartito in bottega e il più aulico sapere della prestigiosa Accademia Clementina di pittura, scultura e architettura, a questa data istituzionalizzata per volere di Benedetto XIV. Di tale situazione culturalmente vantaggiosa approfittò il giovane G., abile a destreggiarsi tra le varie voci presenti in Accademia, come dimostra l'opera dell'esordio del 1751, un saggio di scultura, il Sacrificio di Abele (per questa e per le altre opere che si citeranno si veda Biagi Maino, 1995). A diciassette anni si aggiudicò il premio Marsili per la seconda classe con un rilievo che dichiara, nella duttile qualità del modellato pieno e nell'efficace scansione dei piani, gli esiti di tanta applicazione alla notomia, alla disposizione, all'espressione degli affetti, così come sarà nella prova che vincerà per la prima classe nel 1753, lo Svenimento di Cornelia. In quegli anni il G. partecipò ai concorsi Fiori e fu premiato per quattro volte non consecutive, tra il 1752 e il 1756 (con disegni smarriti), a conferma di un cursus studiorum solido e ben condotto secondo un orientamento di nuovo volto, auspici nell'immediato G.P. Zanotti, segretario della Clementina e da lontano il pontefice bolognese Benedetto XIV, a condurre i discepoli allo studio dei modelli degli Incamminati e dei loro precedenti. È certa, dagli esiti delle prove grafiche di quegli anni, l'assiduità sua allo studio degli affreschi dei Carracci e della scuola del chiostro di S. Michele in Bosco, dei disegni e stampe di questi e di maestri del Cinquecento che nelle raccolte dell'Istituto delle scienze e presso collezionisti erano numerosi.
Uno di costoro, il mercante A. Buratti, aprì al giovane la sua casa adorna tra le altre di opere di V. Bigari, dal quale in un primo tempo il G. mutuò il tono della tavolozza; lo coinvolse, quindi, in un'operazione destinata a celebrare i rinnovati fasti dell'Accademia, l'edizione, introdotta da G.P. Zanotti, di un volume stampato a Venezia nel 1756 presso G.B. Pasquali, Le pitture di Pellegrino Tibaldi e di Niccolò Abbati estistenti nell'Istituto di Bologna… (Biagi Maino, 1995, pp. 15-17). Per questo libro, sontuoso, il G. apprestò i disegni per 11 tavole (incise da J. Wagner, G.B. Brustolon, B. Crivellari), nonché per antiporte e finalini, con esiti tali che il committente gli richiese, oltre ad alcune statue per la sua casa (oggi divise in varie collezioni), la copia in disegno delle più celebri pale d'altare di Bologna. Da quei disegni, eseguiti tra il 1756 e il 1760 (Bologna, Collezioni d'arte della Cassa di risparmio in Bologna), preludio ai bei fogli che gli commetterà, nel decennio successivo, il bibliotecario del re d'Inghilterra Giorgio III, R. Dalton (Kurtz), emerge sicura la qualità del tratto del giovane pittore, abile a tradurre in monocromo, attraverso la risaltata resa dei contrasti luministici, le magnifiche prove bolognesi di Raffaello, Girolamo da Carpi, le opere di A. e L. Carracci, G. Reni, G. Cavedoni, Guercino. Ancora il Dalton acquistò un celebre rame del G., il Presepe del Parmigianino, del medesimo periodo in cui eseguì l'inedita antiporta, elegantissima, per i Sermoni del padre Giuseppe Francesco Morani, stampati dal Sassi (Bologna 1769); per tutta la vita infatti il G. proseguì anche l'attività di incisore, ancora da indagare compiutamente, e offerse modelli ad altri artisti (Biagi Maino, 1994).
In questi anni il G. si misurò con le difficoltà della pittura su tela, negli olii con S. Girolamo e S. MariaMaddalena dell'oratorio del Suffragio a Bazzano, prime prove pittoriche note (1756-57). Le più antiche prove su muro risalgono al 1758 circa: si tratta della decorazione, memore degli studi sul Tibaldi, della galleria al pianterreno del palazzo del conte C. Malvasia, alla cui riattazione partecipò anche Ubaldo. Ancora accanto a compagni e maestri della Clementina dipingerà una delle stazioni di una Via Crucis per la quale scelse un modello colto, l'incisione che illustra un testo di G. Baruffaldi, la Via della Croce (1732), inaugurando quello che diventerà un costume mentale, di rivolgersi, cioè, alle belle lettere cercando ispirazione alle sue pitture nei testi dell'amico L. Savioli e degli altri arcadi della Colonia Renia per poi evolvere, col procedere del secolo e il mutare del gusto, verso spunti letterari di più austero rigore, per dare espressione ai miti riproposti dalla cultura neoclassica. Nel 1760 il mecenate Buratti gli concesse di ripercorrere le orme dei Carracci: così venne inteso dai contemporanei il senso del soggiorno a Venezia (Calvi). Un anno, per dipingere poche bagattelle ma soprattutto per disegnare, copiare le opere di Tiziano, Veronese, Tintoretto, e poi S. Ricci, G.B. Piazzetta e soprattutto G.B. Tiepolo; e quindi le pitture di C. Maratti, P. Batoni, la più recente accademia, e i pastelli di Rosalba Carriera, le scene di genere di P. Longhi e i ritratti del figlio Alessandro. Un bagaglio di esperienze straordinario per un artista così dotato, dal talento affabulatore e curioso di ogni novità, delle quali diede conto al rientro a Bologna, impegnandosi con entusiasmo alla resa di impegnative pale d'altare: la Sacra Famiglia e santo vescovo (1761); la Crocifissione di Cristo e santi (1763: Reggio Emilia, Musei civici); oppure il Miracolo del b. Piccolomini (Pinacoteca Vaticana) e la Gloria d'angeli (Bologna, S. Maria della Carità) entrambe del 1764, e quindi degli affreschi in S. Rocco (1764). E nel contempo le opere profane: il dipinto Armida con Rinaldo nel giardino incantato inviato in Russia, che lui stesso cita (Oretti, ms. B.95), o l'Ulisse e la maga Circe (Piacenza, Museo civico), firmato e datato 1766; le molte teste di carattere, busti di uomini e fanciulle in profilo, di quotidiana presenza o idealizzate (Biagi Maino, 1995, nn. 10, 15), ma sempre di serena concretezza nella resa matericamente sostanziata, che è la medesima che concede spessore di verità alle mezze figure di santi (ibid., nn. 8, 11) alle Maddalene sensuosamente belle. Accanto, i ritratti di famiglia: per il matrimonio nel 1763 con la molto amata Giovanna Spisani che gli darà sette figli, e che gli fu modella per dipinti di qualità sorprendente - stanti le date - quali il Dalila e Sansone o la tela dell'ambasciata italiana di Londra (Busto di fanciulla), che si collocano tra le prove più affascinanti del primo lustro del settimo decennio, allorché il G., non ancora accolto tra gli accademici del numero (per tre volte fu respinto ai voti, e lo divenne solo nel 1765), fu chiamato per il talento di disegnatore a un'impresa della quale era destinato a divenire protagonista. L'ostensore dell'orto botanico dell'Università e dell'Istituto delle scienze, F. Bassi, scelse infatti di celebrare i più illustri scrittori di storia naturale facendo eseguire a maestri e allievi della Clementina i ritratti di questi, in fogli a penna acquarellata, per il suo "domestico museo" avendone comunque in vista la destinazione istituzionale; in breve tempo, secondo quanto si apprende scorrendo gli elenchi autografi del botanico ma soprattutto dall'esame dei fogli, il G. prese in mano l'impresa e ne divenne assoluto protagonista. Su questa raccolta, custodita tra quelle dell'Università di Bologna (Orto botanico) e solo di recente recuperata alla conoscenza (Biagi Maino, 1992), scrissero i biografi, il Grilli Rossi (1802) e il Lanzi soprattutto (1809), che ne lodava la varietà e la puntualità descrittiva, quasi da scienziato, dei fregi riproducenti oggetti di natura; del pari eccellente è la capacità del G. di restituire spessore di verità psicologica al sembiante dell'effigiato, i cui tratti desumeva da incisioni o disegni, per lo più di scuole oltramontane, sottopostigli dal Bassi. Sono gli stessi anni del ritratto del figlio Mauro, futuro pittore, che effigiò nel 1768 in una piccola tela, tra i capolavori del genere in Europa; della Pentecoste di Rimini, distrutta, della quale resta il ricordo nel luminosissimo bozzetto; della Liberazione di Pietro nella prima versione di Stoccarda (la seconda, oggi a New Haven, è del decennio successivo); di studi per sfondati di soffitto (la Giustizia del Louvre), di favole galanti (Venere e Vulcano, nell'interpretazione sciolta e fluente della teletta di Stoccarda e in quella, più rattenuta e composta nella resa della giovane dea, nel dipinto di Detroit). Col procedere della ricerca il G. mosse verso forme di più composta grazia, abbandonando quasi insensibilmente (si veda la splendente bellezza, di segno e libertà ancora rocaille, delle tavole che dipinse su fondo oro per la carrozza di gala del senatore V.A.M. Marescalchi, approntata per la venuta in Bologna dell'imperatore Giuseppe II d'Asburgo Lorena, che convivono per cronologia con l'Adorazione dei pastori della Pinacoteca nazionale di Ferrara, nella quale attraverso Batoni recupera Correggio) i modelli dello stile della gioventù, impellenti nella pittura su muro (Aurora e Cefalo di palazzo Guidotti a Bologna, tiepolesco per invenzione e colore), per sperimentare un modo di fare pittura che contemperasse le nuove esigenze di classicità con la libertà dell'estro, cui non poteva, per temperamento, venir meno. I due Ritratti di vecchi delle Collezioni della Cassa di risparmio in Bologna (Zucchini, 1953) sono opere di sofferta intensità che sembrano cercare il confronto con la pittura fiamminga da lui conosciuta anche attraverso la raccolta di stampe dell'amico conte C. Gini del quale affrescò la casa in collaborazione con S. Barozzi, realizzando un ciclo di dipinti, preceduti dal sensuoso bozzetto della Fondazione Longhi, tra i più affascinanti del Settecento bolognese, e per il quale entrambi gli artisti, da maestri d'Accademia, vollero accanto giovani allievi. La sua arte tende sempre più all'artificio, colto e rarefatto; il G. esegue infatti dipinti suggestivi (e astrusi per soggetto) quali il Cavaliere che spara a una statua, accanto alle dolcissime Sacre Famiglie, rese con veloci tratti del pennello intriso di colore. A scorrere il suo catalogo, ricostruito solo di recente (Biagi Maino, 1995), si rileva un crescere impressionante delle commesse dal clero (di Carignano, Ponte in Valtellina, Limisano di Riolo, Bazzano e Bologna) e dai collezionisti bolognesi, che mostrano di apprezzare la sua maniera colta ed elegante (Sacrificio di Ifigenia; Giudizio di Salomone; Cristo e l'adultera, nella versione di Leeds, City Art Gallery, soprattutto). Accanto, i virtuosismi degli affreschi di palazzo Centurioni e delle Quattro Stagioni riproposte da seguaci e copisti; l'aulica correttezza di dipinti esemplari quali per esempio la grande pala di Porto San Giorgio o le Nozze di Cana, già in S. Salvatore e ora nella Pinacoteca nazionale di Bologna.
In essi il G. si misurò con le esigenze della persuasione cristiana, in risposta alla ricerca serrata che in questo torno di anni, la metà dell'ottavo decennio, il fratello proseguiva nel medesimo campo della pittura sacra: e diversamente da questo scelse di raffigurare i soggetti che gli venivano proposti diminuendone l'impatto emotivo a favore del richiamo alla solidità dell'esempio. Si veda la tela di Porto San Giorgio con S. Giacomo della Marca, s. Margherita e s. Diego, firmata e datata 1775, la cui composizione in un primo tempo, come documentano i progetti grafici, aveva immaginato di diverso impatto e che, nella realizzazione finale, propone la figura di s. Giacomo come modello di ascesi al cristiano. Anche l'altra impresa ultimata quell'anno, la riattazione del refettorio di S. Salvatore, verte sulla chiarezza del dettato secondo un orientamento mentale che, come mostra il raffronto con il precedente delle Nozze di Cana di Veronese (Louvre), evolve verso un'impostazione severa, concentrata sull'assunto esemplare del racconto evangelico; a tale limpida scelta corrisponde il mutare del tono della tavolozza, giocata su colori fondamentali che le luci non più svaporanti del tardo barocco ma ormai terse colpiscono secondo un sentire fortemente venato di classicità. È così anche nella più celebre operazione su muro, la decorazione con l'Assunzione della Vergine della cupola di S. Maria della Vita (e sfortunata: fu restaurata nel 1857 da N. Angiolini, che certo intervenne con ridipinture, e l'intervento del 1993 ne ha definitivamente compromesso la lettura; a documento dell'invenzione resta il bozzetto di Kansas City); è esemplare in questa illustrazione della dottrina cattolica nella volontà di offrire, attraverso il risalto previsto per le figure dei patriarchi che assistono al miracolo, modelli di virtù cui rifarsi nel cammino della fede.
Considerando le date e il pubblico per cui il G. era chiamato a operare nella seconda città dello Stato pontificio, si comprende lo spirito delle scelte che privilegiano, per l'invenzione, rispetto all'illustrazione di miracoli e misteri, la raffigurazione di figure di forte impatto morale. È il caso della pala che gli fu richiesta come ex voto per S. Petronio nel 1782, nella quale, a fronte del S. Emidio che implora la Madonna di s. Luca raffigurato nel più canonico dei modi, il G. effigiò S. Ivo, cui è dedicata la cappella, come una delle più intense raffigurazioni di "filosofo" della pittura italiana di questi anni. Il G. si ritrasse al cavalletto secondo un criterio che nulla ha di prevedibile, ma è frutto della sua notevole libertà mentale, la medesima che gli permise di immaginare accanto alle solenni raffigurazioni sacre dipinte per Rimini, per Crespino, le più scopertamente licenziose favole del Settecento bolognese, il Trionfo di Venere e la Diana e Callisto che eseguì per un moscovita, note sinora solo attraverso i bozzetti (Volpe), ma delle quali una, la prima, è stata riconosciuta (Biagi Maino, Prolegomeni al classicismo accademico…)
Con la scomparsa, nel 1781, del fratello Ubaldo il G. restò unico caposcuola; il conseguente crescere delle commesse registra la capacità del G. di adeguarsi alle più diverse esigenze, adottando uno stile severamente classicizzante per opere quali la fondamentale Morte di Socrate del 1782, risposta alle suggestioni di ragione etica e sociale di G. Ristori (Biagi Maino, 1995, pp. 95-97), in linea con il più colto accademismo europeo, o la magnifica pala di Napoli, con i Ss. Giorgio e Pantaleone, destinata al medesimo tempio dei Gerolomini che custodiva opere del Domenichino e del Reni. Nel contempo eseguì la Partenza per la caccia e un Viandante e fanciulla, due telette che Longhi volle alla mostra bolognese del 1935 nel cui catalogo segnalava il rischio per il pittore di piegare tante capacità a mera accademia: è il caso della pala di Vercelli con il Martirio di s. Eusebio, o la Continenza di Scipione di Forlì (Collezioni della Cassa dei risparmi), e di talune delle tante telette per la devozione privata che fece per sbarcare il lunario. Fu infatti sempre modestissimo nelle richieste e generoso di sé e del suo talento; restio a farsi pagare, come concordemente ricordano i biografi, e pronto a donare a chi glielo chiedeva dipinti affascinanti come il Busto d'uomo barbuto o la Testa d'uomo in profilo, o disegni, quei fogli sui quali, sin dalla giovinezza, era solito definire progressivamente la giustezza dell'intuizione. Sono decine e decine gli schizzi, i disegni del G. nei musei o nelle collezioni private di tutto il mondo; oggetto di collezionismo dal Settecento (è noto che glieli richiesero da tutta Europa, e forse il figlio Mauro, nel primissimo Ottocento, ne portò nelle lontane Americhe, e l'allievo J. Da Silva in Brasile) sono il mezzo sicuro per conoscere lo sviluppo del suo pensiero, l'evoluzione dello stile che influenzerà, sino a metà del secolo successivo, la scuola bolognese.
Tra i tanti disegni, molti stupiscono per la freschezza del segno: le due versioni del Sansone legato dai filistei; i quattro fogli che preludono alla carrozza Marescalchi; il Giudizio di Paride che fu "del Sig. Avocatto Goldoni"; i velocissimi schizzi con un Miracolo di Leonardo da Porto Maurizio; la Morte di s. Giuseppe; le orrifiche Scena stregonesca e Furia di Atamante (tutti in Biagi Maino, 1995) o per la piena rotondità del modellato che l'uso del lapis piombino a segnare ombre e luci sottolinea con effetti di estrema suggestione. Si vedano i teneri ritratti dei suoi stessi figli (il Bambino addormentato) gli studi per le pale (il S. Pietro per il dipinto di Bazzano, i molti fogli, già riuniti in album e poi passati separatamente sul mercato antiquario, per l'affresco di S. Maria della Vita); lo studio per la Continenza di Scipione del 1784 e il Nudo femminile sdraiato, pressappoco coevo, e i tardi disegni per il Martirio di s. Lorenzo o il Ratto delle sabine. Sono i disegni sui quali si formeranno gli allievi, non tanto in bottega che non volle aperta a seguaci ma alle lezioni della Clementina, ai cui corsi più volte rivestì la carica di direttore di figura (Farneti) ricusando sempre quelle presidenziali (sarà l'emergenza degli anni giacobini a costringerlo all'incarico di viceprincipe, nel 1800, solo per senso del dovere).
Tra il luglio del 1788 e il maggio dell'anno successivo, consegnata la tela per il duomo pisano, la Fondazione dell'ospedale degli Innocenti, il G. accettò l'invito più volte reiterato dell'amico Dalton, e partì alla volta di Londra dove si fermò per pochi mesi. Si rifiutò di dipingere opere impegnative per non essere costretto a un soggiorno prolungato, e accontentò gli intendenti con piccoli dipinti e disegni, scegliendo di usare il poco tempo prezioso per conoscere dal vivo le tele ammirate in incisioni e concedersi pochi facili diletti. Possiamo credere che su di lui agisse lo sconcerto di chi, venendo da una situazione sociale e politica assestata da secoli, cui era aduso e forse non scontento, si sia trovato improvvisamente di fronte una realtà così diversa, in evoluzione rispetto ai racconti già degli amici inglesi, e soprattutto alla varietà dei culti e delle religioni. Gli esiti di quella breve vacanza sono evidenti nel Ritratto di giovane della collezione Molinari Pradelli o nel Paesaggio a Porta Galliera e soprattutto nei tardi dipinti orrifici, memori certo dell'arte di B. West, di J.H. Füssli che aveva visto, e ammirato, nella sosta londinese. A "segnare una parabola di tangenze tra le più estese del secolo" (Ruggeri, p. 548) sono gli affreschi di palazzo Odorici e alcune tra le tante pale d'altare e tele come, per esempio, quelle per il Corpus Domini e la chiesa della Beata Vergine Addolorata di Forlì che custodisce un capolavoro, il Compianto sul Cristo morto del 1795, il quale, con l'Istituzione dell'Eucarestia di Budrio (chiesa di S. Lorenzo) del 1797, chiude esemplarmente il secolo in Italia in forme di algida quanto eletta maniera, nel campo della pittura sacra. I molti dipinti invece di tema mitologico, che il G. eseguì soprattutto per la nuova committenza attenta al segno distintivo del modello francese, sono preceduti dalle due tele già Sonnino Castelfranco apparse di recente sul mercato antiquario newyorkese (catal. d'asta Christie's, New York, 29 genn. 1998), Apelle e Campaspe e Diogene e Alessandro, del quale eseguì una replica (Biagi Maino, 1995, n. 219: ivi ritenuto erroneamente il pendant dell'Apelle, allora smarrito) con l'aiuto del figlio Mauro che a quella data, al 1793, lo aiutava in bottega (Id., La pittura…, 1990, p. 296).
Fu una collaborazione breve, assai fruttuosa per il figlio, che però presto scelse la strada dell'autonomia, traducendo comunque in incisione le belle invenzioni del padre, ad esempio la S. Cecilia e l'angelo (catal. d'asta Christie's, New York, gennaio 1999). Il G. continuò a operare con pochi aiuti, i garzoni ritratti nell'Apelle citato e nella seconda versione del tema, del 1797, parte di una serie di quattro racconti per i quali a evidenza guardò alla pittura neoclassica, abbandonando, certo per ragioni di opportunità quella sottile, raffinata vena di ironia che gli aveva concesso il capolavoro, nel Diogene, in un racconto la cui aulicità è irrisa dall'ambientazione dinanzi a un casolare bolognese.
L'incalzare degli eventi, eventi tristi per un pittore bolognese che assisteva impotente allo scempio perpetrato nelle chiese, dalle quali erano sottratti i capolavori del passato più amato, dovette incidere sulla vecchiaia, e il 20 giugno del 1802 il G. morì a Bologna per un colpo apoplettico. Lanzi scrisse che la città, generosa verso i suoi figli, gli tributò funerali grandiosi quali quelli di Agostino Carracci: ma si trattò di un tentativo, l'estremo, di salvare l'identità dell'Accademia.
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