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FILANGIERI, Gaetano

di Fausto Nicolini - Enciclopedia Italiana (1932)
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FILANGIERI, Gaetano

Fausto Nicolini

Terzogenito di Cesare principe di Arianiello e di Marianna Montalto dei duchi di Fragnito, nacque a Napoli il 18 agosto 1752. Nel 1766 divenne alfiere nel reggimento Sannio, che lasciò nel 1769 per darsi agli studî. Intorno al 1771 veniva mentovato con grandi elogi nelle lettere da Napoli del Bjornstaehl, che ricorda un suo abbozzo sulla Pubblica e privata educazione, il quale, insieme con l'altro, poco posteriore, sulla Morale de' principi fondata sulla natura e sull'ordine sociale, fu rifuso nella Legislazione. Avvocato nel 1774 per volere dei suoi, scrisse in pochi giorni e pubblicò in due parti, con dedica al Tanucci, alcune brevi Riflessioni politiche in difesa della prammatica sull'obbligatorietà della motivazione nelle sentenze giudiziarie. Circa quel tempo, lasciata la vita forense, concepì il disegno di ridurre la legislazione a unità di scienza normativa; e, previa la stesura di taluni Aforismi politici, tratti per lo più da Platone e Aristotele, cominciò a colorirlo nella Scienza della legislazione, divisata in sette libri, che avrebbero dovuto trattare delle norme generali, delle leggi politiche ed economiche, del diritto e procedura penale, dell'educazione, della religione, della proprietà, della patria potestà e buon ordinamento della famiglia. Né l'essere divenuto nel 1777 maggiordono di settimana e gentiluomo di camera del re Ferdinando IV e, quasi contemporaneamente, ufficiale nel real corpo dei volontarî di Marina, lo distolse dal lavoro, del quale diede via via (1780, 1783, 1785), presso il Raimondi di Napoli, sette volumi, comprendenti i primi due libri, le due parti del terzo e le tre del quarto. Una sciocca guerra di libelli mossagli a Napoli (1782-84) da un Giuseppe Grippa, elevatosi a difensore dei privilegi feudali dei baroni, e la stessa proibizione da parte della Congregazione dell'Indice (6 dicembre 1784, 12 giugno 1826) non fecero se non diffondere maggiormente l'opera, tradotta più volte, di mano in mano che appariva, in francese, tedesco e spagnolo, e rendere il nome dell'autore ancora più celebre in tutto il mondo civile. Suo grande ammiratore fu, tra altri, Beniamino Franklin, che gli chiese spesso consiglio circa lo statuto della neonata repubblica americana. Nel 1783, sposata la contessa Carolina Fremdel da Presburgo - mandata nel 1780 a Napoli da Maria Teresa quale istitutrice di una infante reale, e donna di grande ingegno e sapere - si stabilì a Cava dei Tirreni, donde, al principio del 1787, chiamato dal re al Supremo consiglio delle finanze, tornò a Napoli nel palazzo avito del fratello primogenito, Cesare, principe di Arianiello, al largo Arianiello. E là, nel marzo, ebbe più d'una visita del Goethe che presso lui e per suggerimento di lui conobbe primamente la Scienza nuova del Vico; delineò di lui un profilo ("il suo contegno, tra di militare, cavaliere e gentiluomo, era raddolcito da un tenero sentimento morale, che, sparso sopra tutta la sua persona, traluceva amabilmente dalle sue parole e dal suo aspetto"); e consacrò alcune pagine del Viaggio in Italia anche alla "principessina ***", conosciuta in casa Filangieri, ossia a una bella e bizzarra sorella di Gaetano, Teresa, sposata al vecchio Filippo Fieschi Ravaschieri principe di Satriano. Sennonché, già dal 1781 minato dalla tisi e sempre più rovinato in salute dalle dodici ore giornaliere di tavolino, il F. si ritirava nel 1788 a Vico Equense in un castello appunto della Teresa, ove moriva il 21 giugno. Qualche mese dopo furono pubblicati la prima parte e il solo indice della seconda del quinto libro della Scienza della legislazione: gli ultimi due libri e altre due opere divisate da lui - una Nuova scienza delle scienze e una Istoria civile e universale perenne - non si trovarono tra le sue carte, perite del resto quasi tutte durante i saccheggi del 1799. Nel quale anno, negli ultimi giorni della repubblica napoletana (1° giugno), una solenne tornata della Sala d'istruzione fu consacrata alla sua memoria: il che costrinse poi la vedova e i figli giovinetti, Carlo (v.) e Roberto, a esulare in Francia, dove, con decreto del 20 brumaio anno IX (1800), furono adottati dalla repubblica, non senza che il primo console Bonaparte, mostrando loro la Scienza della legislazione, che aveva sul tavolino, dicesse del suo autore: "Ce jeune-homme, notre maître à tous". Giudizio nel quale, alla stessa guisa di tanti altri affini contemporanei, è colto assai bene il lato positivo di quel libro. Anima candida, pura, mite, benefica, devota all'inflessibile dovere, fervida di carità patria, ardente di redimere l'umanità dai mali che la bruttavano, e, al tempo stesso, mente quadrata, equilibrata e nutrita di forti studî, il F. riesce tanto più efficace in quanto il tono alquanto concionatorio nulla toglie all'opera sua di ordine, di nitidezza, di perspicuità. Si aggiunga che vi si ragionano, soprattutto in fatto di procedura penale, sennate proposte di riforme, più tardi attuate; che vi si combatte una lotta coraggiosa e tempestiva contro gli ultimi residui della feudalità; che vi si propugna un sistema d'educazione pubblica d'ispirazione platonico-rousseauviana; che vi si pone e vi si traduce parzialmente in atto, circa venti anni prima dei legisti della rivoluzione francese, l'esigenza della codificazione delle leggi; e si spiega la fortuna immensa che le arrise per oltre un quarantennio. Ma ciò non deve far dimenticare che essa, più che di severa scienza, è sostanzialmente una grande opera di propaganda politica, destinata a vivere nel suo tempo e a morire con esso: il che spiega a sua volta perché oggi non la si legga più, e da circa settant'anni non si ristampi.

L'astratto razionalismo e tutti gli altri caratteri dell'illuminismo del sec. XVIII si ritrovano nel F. Di certo, egli, come già altri illuministi, respinge vichianamente l'immaginosa costruzione d'uno stato di natura, e vede bene l'impossibilità della convivenza civile fuori dell'autorità dello stato, e delle leggi che ne sono l'espressione. Ma già in lui, come poi più apertamente in Mario Pagano (v.) e in altri "vichiani" della scuola giuridica napoletana, codesto apparente vichismo vien contaminato con la giustapposizione o sovrapposizione (che si risolve in contraddizione) dei principî più repugnanti alla filosofia della Scienza nuova. Pel F., stato e leggi non sono già, come pel Vico, organismi storici, sorti, rebus ipsis dictantibus, dal fondamentale bisogno dell'uomo di vivere in società, e inscindibili pertanto dalle innumeri forme storiche che codesto bisogno assume; bensì immote entità extrastoriche, la cui logica, anziché nel corso stesso dei fatti umani, sia da rinvenire nelle norme dell'astratta ragione. Criterio per giudicare della maggiore o minore razionalità di stati e di leggi non è già, per lui, come pel Vico, quello storico, della durevole vitalità, ossia dell'intima virtù di adattamento al continuo mutare dei tempi, ma l'altro affatto meccanico della loro maggiore o minore corrispondenza con la monarchia paterna e riformistica, tanto cara agl'illuministi prerivoluzionarî. Il Vico aveva insegnato che la legislazione, a differenza della filosofia, deve considerare gli uomini, non quali dovrebbero essere ma quali sono; dunque, salvo pochi eletti, più vicini alla feccia di Romolo che alla repubblica di Platone: il F. dimentica del tutto la feccia di Romolo che non tarderà a presentarsi in Francia ai legislatori del 1789 e a Napoli a quelli del 1799, nella sua più dura realtà. Da che, altresì, errati giudizî storici, più errate profezie politiche e, generalmente, un ottimismo così ingenuo da far quasi maraviglia potesse allignare nella realistica città, dove, contemporaneamente o quasi contemporaneamente al F., vissero, ben diversi "vichiani" l'ab. Galiani e Vincenzo Cuoco (v.). Per es., il F., pur non giungendo, come altri illuministi, a considerare stato perfettissimo la lontana e ignota Cina e poco men perfetto la poco men lontana e ignota Russia di Caterina II, spezza anch'egli una lancia contro l'aborrita costituzione inglese, di cui non vede la stretta aderenza col paese in cui sorse e fruttificò, e alla quale contrappone genericamente l'astratta costruzione d'una monarchia in cui tra il re e il popolo s'interponga equilibratrice una classe intermedia di nobili priva di poteri politici, e, mediatore tra i sudditi e il sovrano, un corpo di magistrati depositario delle leggi. Una sua errata profezia politica restata famosa è quella, formulata qualche anno prima della rivoluzione francese, d'un'imminente "rivoluzione pacifica", che sarebbe stata compiuta esclusivamente dai "troni" col semplice ausilio delle leggi. E grande ingenuità ottimistica è nella stessa teoria fondamentale della Scienza della legislazione: che una serie di leggi "illuminate" sarebbe bastata ad adeguare l'umanità al concetto che ne aveva il razionalismo e, con ciò, a instaurare nel mondo il regno della felicità. Del quale utopistico potere delle leggi faceva già giustizia sommaria l'indotta sorella del F., quando, nel folleggiare col Goethe sul fastidio che le nuove leggi invocate da quel "buon uomo" del fratello avrebbero arrecato ai cittadini, costretti a escogitare il modo di trasgredirle alla stessa guisa ch'erano riusciti per quelle esistenti, soggiungeva: "Vedete com'è bella Napoli! Gli uomini vivono da tanti anni spensierati e felici: di tanto in tanto se ne impicca uno, e tutto il resto procede magnificamente per la sua via". Vero è, d'altra parte, che gli stessi errori teorici del F., considerati dal punto di vista, non più della critica filosofica, ma della storia politica, si traducono in azioni fruttuose, ossia in insistenti affermazioni di rinnovamento sociale: del rinnovamento che quei discepoli entusiastici del Filangieri che furono, a Napoli, quasi tutti gli uomini del 1799, del decennio francese e del 1820, tentarono e, in quella misura che era consentita dalle contingenze storiche, riuscirono ad attuare.

Ediz.: L'ultima e migliore delle ristampe della Scienza della legislazione è quella con discorso proemiale di Pasquale Villari (Firenze 1864). La più vulgata dalle traduzioni, quella francese del Gablois (Parigi 1821), con introduzione biografica di Francesco Salfi e largo commento (stampato anche a parte e più volte tradotto in italiano) di Benjamin Constant. Una larga esposizione critica del solo quarto libro è data da G. Nisio (Roma 1904), e del IV libro ha curato una buona edizione S. Carassali (Torino 1922).

Bibl.: Sulla vita: D. Tommasi; Elogio storico del cav. G. F., Napoli 1788; Goethe, Italienische Reise, lettere da Napoli del marzo 1787; B. Croce, Aneddoti e profili settecenteschi, 2ª ed., Palermo 1922, pp. 86-102. Sul pensiero: G. Gentile, in Critica, III (1905), pp. 151-53; G. De Ruggiero, Il pensiero politico meridionale nei secoli XVIII e XIX, Bari 1922, p. 67 segg.; U. Spirito, Il pensiero pedagogico di G. F., Firenze 1924; B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Bari 1925, indice dei nomi.

Vedi anche
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