MERINO, Gabriele Stefano
– Nacque a Santisteban del Puerto, in Andalusia, nel 1472 o nel 1473 da Mayor de Amorcuende e da Alonso, soldato al servizio di Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia e sulla frontiera di Granada. I genitori erano di famiglia molto umile, provenivano dal Regno di León e si stabilirono nel territorio di Jaén prima della nascita del Merino.
L’educazione del M. dovette essere sommaria e s’interruppe nella prima adolescenza. Rimasto molto presto orfano di padre, si trasferì a Roma con un sacerdote amico di famiglia. La partenza da Jaén fu probabilmente legata a un incidente che lo portò a ferire a morte un ecclesiastico in un gioco di spada, crimine per cui più tardi, nel prendere i voti, ottenne la dispensa dal papa Alessandro VI.
A Roma entrò a servizio del cardinale Ascanio Maria Sforza, cominciando come umile cameriere e arrivando a conquistarne la fiducia.
G. Garimberti descrive la mirabile parabola del M.: «chi può abbassarsi tanto mai col pensiero a questo proposito che giunghi col effetto alla bassezza di Gabriele Spagnolo detto Gabrieletto, nel tempo che da fanciullo fu veduto in Roma governare i cani in casa del cardinal Ascanio, portar legna pel fuoco dell’anticamera, dipoi della camera di detto cardinale, col qual mezzo riuscì sotto camariero e finalmente camariero di quel signore, et con gli anni tuttavia crescendo di autorità e di ricchezza, divenne arcivescovo di Bari, patriarca delle Indie e cardinale di Clemente VII, assai stimato dal collegio et molto più da Carlo V imperatore?» (p. 348). Le sue umilissime origini e le rapide fortune furono fonte di un vivace dibattito. Dalla seconda metà del Cinquecento molti autori spagnoli contrastarono l’immagine del «Gabrieletto» cortigiano venuto dal niente e approdato a grandi fortune, immagine che, come cercava di mettere in evidenza Gonzalo Jiménez de Quesada nel suo Antijovio, era espressione di un antispagnolismo feroce che aveva in Italia le sue radici più forti. Gli studi si concentrarono allora sui primi anni del M., cercando di nobilitarne le origini e la cultura; gli venne attribuito un curriculum di studi che lo stesso M. aveva negato. G. González Dávila, per esempio, nel suo Theatro lo volle addirittura capitano militare tra l’Italia e le Fiandre e poi ambasciatore di Filippo il Bello a Roma.
Per quanto probabilmente enfatico, teatrale e non certo benigno, il ritratto di Garimberti, che lega le fortune del M. a quelle del cardinale Sforza, è decisamente più vicino al vero.
Nella primavera del 1500 era al fianco di Ascanio Sforza in Lombardia e fu tra i pochi familiari del cardinale a poterlo seguire negli anni di prigionia a Bourges. Liberato il 3 genn. 1502 insieme con il prelato, fu da questo inviato a Roma come procuratore per risolvere una delicata questione economica. Ormai segretario personale favorito del cardinale, assistette come suo conclavista alle elezioni di Pio III e Giulio II. Fu nominato protonotario apostolico nel 1504.
Alla morte di Ascanio Sforza (maggio 1505) si legò al cardinale Francesco Alidosi e a Giulio II. Dal papa fu inviato a Firenze per sollecitare l’appoggio militare della città nell’impresa di Bologna (agosto 1506) e, insieme con i cardinali Francesco Soderini e F. Alidosi, partecipò a Nepi all’incontro tra Giulio II e l’inviato fiorentino Niccolò Machiavelli.
In quegli anni il pontefice conferì al M. il titolo di arcidiacono di Baeza e cameriere personale, affidandogli il compito di trattare con i re di Francia e di Spagna e con il gran capitano Gonzalo Fernández de Córdoba la restituzione di alcune terre agli Orsini.
Nell’estate del 1509 era a Milano al seguito di Alidosi, in missione diplomatica presso Luigi XII e poi a Bologna, dove il cardinale era stato nominato legato. Tornò a Roma con una lettera per il datario che attestava tutta la benevolenza di Alidosi, che auspicava per il M. ulteriori benefici.
Non è noto se assistette alla tragica morte del suo protettore, ucciso nel maggio del 1511. Certo è che, pur tornato a Roma e insignito dell’incarico di scrittore di lettere apostoliche, il M. si trovò a corto di denaro. A. Ferrajoli, nell’ampia e dettagliatissima biografia del M. nella sua opera Il ruolo della corte di Leone X, riporta il documento in cui il M. si fece prestare 45 ducati da María Fernández, cortigiana spagnola.
Avvicinatosi a un altro protettore, il cardinale Marco Corner, il M. lo seguì al conclave successivo alla morte di Giulio II. Entrò immediatamente nelle grazie del nuovo papa, Leone X, che il 13 maggio 1514 lo nominò arcivescovo di Bari, dopo averlo creato, il 1° maggio, conte palatino e destinatario di ben undici benefici ecclesiastici, tra canonicati, parrocchie e pensioni nel territorio di Jaén (Baños, Arjonilla, Otíña, Iznatoraf, La Guardia, Arjona e Santiesteban del Puerto). A legarlo in modo così stretto a Leone X contribuirono anche la comune passione per la caccia e soprattutto quella per la musica. Musicista egli stesso, il M. sovrintese al folto gruppo di musici di corte del pontefice.
Per diversi anni tentò, invano, di ottenere il vescovato di Jaén. Nel giugno 1516 riuscì ad avere quello di León, che gli fu ceduto dal cardinale Luigi d’Aragona dietro la somma di 5000 ducati. Morto improvvisamente il cardinale, gli fu confermato con difficoltà da Carlo V e, dopo l’intervento di Leone X, ne prese possesso nell’aprile 1517, sotto l’espressa condizione che entro due anni ne diventasse vescovo residente a tutti gli effetti.
A Roma assistette a tutte le fasi del concilio Lateranense V (1512-17), mai come rappresentante della Chiesa spagnola ma sempre come inviato pontificio. Nel 1517 le sue abilità diplomatiche furono al servizio del pontefice durante le difficili fasi della guerra di Urbino e nella trattativa con il cardinale Alfonso Petrucci, accusato di congiurare contro Leone X.
Nel marzo 1520, dopo avere inutilmente tentato di resistere all’obbligo di risiedere nella diocesi di León, si recò in Spagna. Nelle sue intenzioni doveva essere un viaggio di breve periodo, nel corso del quale avrebbe preso possesso della diocesi e rassicurato l’imperatore, per poi tornare a Roma. Fu invece un soggiorno più lungo, a partire dal quale il M. riprese contatto con il suo Paese di origine, cambiando ancora una volta padrone: il re di Spagna e imperatore Carlo V divenne il suo protettore; il M. si adattò e si inserì con la consueta abilità nel vivace clima politico e culturale della Spagna imperiale.
Arrivò a León nel pieno della rivoluzione delle Comunidades e seppe mantenere la città salda alla fedeltà imperiale. Svolse un ruolo determinante nel placare la rivolta in Andalusia, dove la situazione sembrava volgere al peggio per il giovane Carlo V. Visitata la madre a Úbeda, il M. evitò il passaggio di quella città, di Baeza e di Murcia ai comuneros. Nel momento in cui un numero sempre maggiore di città castigliane si univano alle forze di Juan de Padilla e dei comuneros, e l’Andalusia sembrava sul punto di ribellarsi la mediazione del M. si rivelò essenziale.
La morte del vescovo di Jaén, nel giugno 1520, riaccese le speranze del M. di ottenere il vescovato. Il Municipio, il capitolo cittadino e altri personaggi importanti della città scrissero una lettera al cardinale Adriano di Utrecht, chiedendo l’elezione del M., che fece pressioni anche presso l’ambasciatore a Roma, don Juan Manuel, dal quale si recò nel febbraio 1521, ma fu tutto inutile.
Tornato in Castiglia conquistò definitivamente la fiducia di Carlo V, e ancor prima quella dei tre governatori in Castiglia, giocando un ruolo essenziale negli ultimi mesi di resistenza di Toledo e nelle ultime fasi della guerra delle Comunidades.
Processati a Villalar Juan de Padilla e altri capi comuneri, a Toledo la resistenza fu riannodata dalla moglie del capo della rivolta María Pacheco y Mendoza, figlia di Iñigo López de Mendoza (eroe della guerra di Granada e suo primo governatore) che proveniva da una delle più importanti famiglie di Castiglia. Con la sua abilità diplomatica il M. riuscì a ottenere un salvacondotto per entrare nella zona ribelle, si stabilì nel convento gerolimiano di La Sisla, nei pressi della città, e iniziò a intessere preparativi per una pace che fino ad allora pareva impossibile. Lo fece in un momento in cui la situazione per i ribelli era difficile ma non del tutto perduta, visto che la Pacheco era riuscita a stabilire contatti con le truppe francesi che contemporaneamente invadevano la Navarra. Con un abile gioco di sponda, fatto anche con i Mendoza, che guardavano ormai con sempre maggior preoccupazione al ruolo di María a Toledo, riuscì a ottenere la resa. Il M. entrò a Toledo il 31 ott. 1521 con una convenzione non ancora approvata dall’imperatore, e divenne corregidor ad interim della città. Il 3 febbr. 1522 soffocò l’ultimo tentativo delle forze comunere di riprendere il potere e una congiura ai suoi danni. Le cronache lo rappresentano mentre combatte, con il rocchetto in testa e la spada in mano, a capo di un piccolo esercito di laici ed ecclesiastici. Il suo ruolo centrale nella lotta contro i comuneros fu riconosciuto dai maggiori scrittori contemporanei, da Pietro Martire d’Anghiera a Juan Ginés de Sepúlveda, a Pedro de Mexía, a Prudencio de Sandoval a Francesillo de Zúñiga a Gonzalo Jiménez de Quesada.
Sembra che, convocato a Vitoria da Adriano VI, appena eletto papa, il M. avesse chiesto in cambio dei suoi numerosi servizi all’imperatore ancora una volta il vescovato di Jaén. Già lo aveva fatto con una lettera a Carlo V nel maggio 1522, e ancora, invano, nell’agosto dello stesso anno.
Adriano VI lo volle come nunzio in Francia, con la facoltà di passare in Inghilterra. Per tutto il 1523 il M. continuò a trasmettere informazioni sui movimenti delle truppe francesi e anche copia delle lettere che Francesco I e la madre inviavano al papa.
Alla morte di Adriano VI, nel settembre 1523, il M. fu per circa un anno, dal novembre 1523 al maggio 1524, l’uomo chiave nelle trattative tra Carlo V e il re di Francia Francesco I. Il 12 giugno 1523 fu finalmente eletto vescovo di Jaén, ma continuò a mantenere il titolo di arcivescovo di Bari e parte delle entrate connesse alla carica. Con il titolo di arcivescovo di Bari era conosciuto in Castiglia, e così firmò tutti i documenti ufficiali.
Nel corso del 1525 si stabilì a Jaén ed ebbe modo di reprimere un tentativo di rivolta di alcuni membri della Municipalità contro l’imperatore. Fu anche coinvolto, insieme con l’arcivescovo di Toledo, Alfonso de Fonseca, in un conflitto giurisdizionale contro l’Ordine di Calatrava, causa che si protrasse a lungo e passò alla competenza della Cancelleria di Granada, per la quale si giunse a un accordo solo nel 1528.
Nel luglio 1526 Mercurino Arborio marchese di Gattinara, cui il M. era molto vicino, lo fece nominare membro del Consiglio di Stato, appena creato. Formava ormai parte del gruppo imperiale e nei mesi successivi al sacco di Roma (maggio 1527) non fece mancare il suo appoggio al segretario imperiale Alfonso de Valdés – autore del Diálogo de las cosas ocurridas en Roma, dove il sacco è presentato come una punizione divina contro il pontefice e la corruzione della Chiesa romana – nella violenta polemica con Roma e con il nunzio Baldassarre Castiglione. Del resto, durante l’offensiva di scritture antiromane che precedette il sacco, il M. era stato indicato dallo stesso Carlo V come il responsabile di una delle invettive.
Alla luce degli anni spagnoli e delle sue illustri frequentazioni, l’immagine del M. uomo «romano», cortigiano e pratico, tutto volto all’azione, alieno da ogni interesse culturale, intessuta da Ferrajoli nella sua biografia pare stemperarsi. Il M. appare invece completamente immerso nella vita politica e culturale spagnola. A lui fu indirizzata una delle celebri lettere dell’epistolario fittizio di Antonio de Guevara. Con il poligrafo spagnolo, autore di enorme successo dell’epoca, il rapporto fu intenso, e il M. lo aiutò nella trattativa con i marchesi di Cenete. La sua corrispondenza con il segretario imperiale, l’umanista Alfonso de Valdés, rivela una dimensione di letture e interessi assente dagli studi italiani. In una lettera del 1526, per esempio, il M. chiedeva notizie della corte e pregava Valdés – uno dei portavoce di Erasmo da Rotterdam in Spagna – di inviargli scritti dell’umanista olandese. Nel 1527 il M. ringraziava Valdés per avergli fatto avere una lettera di Erasmo e lo rassicurava che avrebbe contribuito a finanziare le sue opere; pregava quindi l’umanista di inviargli quanto di nuovo, soprattutto pasquinate, potesse avere a disposizione. Marcel Bataillon lo annovera tra i prelati del partito erasmista spagnolo, convinti sostenitori di Erasmo contro la fronda più tradizionalista della Chiesa spagnola. Ma seppe anche approfittare, non troppo erasmianamente, della devozione degli Spagnoli per il S. Volto di Jaén e dei loro pellegrinaggi per finanziare la costruzione della nuova cattedrale della città, con una bolla ottenuta da Roma nel 1529.
In quell’anno, passate le tempeste antiromane, il M. fu nominato responsabile dell’organizzazione degli uomini e dei mezzi al seguito di Carlo V da Barcellona a Genova nella nave ammiraglia di A. Doria. Accompagnò l’imperatore in Italia e discusse i preparativi e i dettagli dell’incontro con il pontefice e dell’incoronazione di Carlo V a Bologna. Da Bologna si spostò in Germania al seguito dell’imperatore. Nel settembre 1530, dietro compensazione economica, rinunciò all’arcivescovado di Bari e assunse il titolo puramente onorifico di patriarca delle Indie. Nel giugno 1531, malato di gotta, era a Gand e nel 1532 a Ratisbona, incaricato di occuparsi della guerra contro il Turco.
Uomo vicinissimo all’imperatore, il M. fu uno dei tre ministri imperiali incaricati di discutere a Bologna del problema della Riforma in Germania e di tentare una conciliazione. Nel 1533 fu creato cardinale e continuò a rappresentare gli interessi di Carlo V anche nel S. Collegio. A Roma riprese gli studi con l’aiuto del suo segretario personale Iacopo Bonfadio (che nel 1550 fu condannato a morte a Genova come sodomita e luterano), al quale lasciò 2000 scudi e la sua biblioteca.
Il M. morì a Roma il 28 luglio 1535. Fu sepolto nella chiesa di S. Giacomo degli Spagnoli; il suo monumento funebre è nella chiesa di S. Maria in Monserrato.
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S. Pastore