ROSA, Gabriele.
– Nacque a Iseo il 9 novembre 1812, primo di cinque figli, da Giambattista e Giuseppina Caronni.
La panetteria che i genitori aprirono nel 1819 assicurò alla famiglia una discreta agiatezza. Dopo aver frequentato le scuole normali, intraprese gli studi ginnasiali: sensibile a «ogni manifestazione di bello naturale e artistico», ma d’altra parte incline «alle cose serie, ai fatti, ai raziocini» (Rosa, 1963, p. 38), dopo i quindici anni sentì la ragione ribellarsi alle dottrine cattoliche, mentre avvertiva le prime commozioni d’amore. Così avrebbe raccontato Rosa nella prima delle sue due autobiografie, redatta tra il 1840 e il 1863 (e pubblicata la prima volta nel 1912, indi in G. Rosa, Autobiografie, a cura di G. Tramarollo, Pisa 1963, pp. 25-108).
Morta la madre nel 1827, il giovane lasciò gli studi per impiegarsi nell’azienda familiare. Il padre gli concesse di dedicare alcune ore del giorno allo studio del latino e del francese. Si appassionò allora all’Emilio di Rousseau e alle Vite di Plutarco, come avrebbe narrato nella seconda autobiografia compilata e pubblicata nel 1890 (ibid., pp. 109-134). I viaggi che compì all’epoca (portando nella bisaccia una copia del Viaggio sentimentale di Laurence Sterne), gli offrirono l’opportunità di soddisfare le sue vive curiosità storiche ed etnografiche.
Nel 1831 Giambattista Cavallini, uno degli iseani coinvolto nei moti del 1821, lo associò alla Giovine Italia: al giovane Rosa, che il «raziocinio» aveva da tempo allontanato dalla fede materna, la vocazione patriottica si impose con «l’efficacia di un principio che infondeva religione novella» (ibid., p. 51). Arruolato nelle file mazziniane, svolse nei due anni successivi un’intensa attività di propaganda e di reclutamento nei centri della Valcamonica e del lago d’Iseo.
Tra il 4 e il 5 ottobre 1833, in seguito alla confessione del farmacista Carlo Foresti, Rosa fu tratto in arresto. Accusato di alto tradimento, fu tra gli imputati del processo alla Giovine Italia condotto a Milano da Paride Zajotti tra il 1833 e il 1835. Ammise le proprie responsabilità e con sentenza del 21 aprile 1835 fu condannato a tre anni di carcere duro. Destinato allo Spielberg, vi giunse il 6 giugno; nei tre anni di reclusione entrò in relazione con altri patrioti italiani, tra i quali Federico Confalonieri, e studiò il greco e il tedesco.
Liberato il 21 aprile 1838, scelse di dedicarsi allo studio delle «cose pubbliche e sociali», investigandone «le origini storiche» (ibid., p. 84). Nel 1842 prese in moglie Clarice Borni, che a tre anni dalle nozze, celebrate nel 1842 e allietate dopo un anno dalla nascita di Erminia, morì di tubercolosi. Pur senza abbandonare lo studio di avvocato dove si era impiegato come scrivano, Rosa si gettò allora con moltiplicata passione nello studio «dei libri, degli uomini, della natura» (ibid., p. 89). Il primo suo scritto importante fu pubblicato nel numero del novembre-dicembre 1843 del Politecnico con il titolo Sull’escavazione del ferro in Lombardia; l’amicizia che si strinse allora tra Cattaneo e Rosa non si sarebbe più interrotta.
Nel febbraio 1848 Rosa si portò a Torino; qui Lorenzo Valerio e Giuseppe Revere l’accolsero nella redazione del giornale La Concordia. Alla notizia dell’insurrezione di Milano, raggiunse la città lombarda, dove prese contatto con Cattaneo, Cesare Correnti e Carlo Tenca e fu da questi chiamato a collaborare alla redazione del 22 Marzo. Dopo la defezione di Cattaneo, accolse la proposta di redigere a Bergamo un foglio politico: il giornale si chiamò L’Unione e uscì per tre giorni la settimana dal 15 aprile al 29 luglio.
Secondo la testimonianza dello stesso Rosa (ibid., p. 104), la linea del giornale fu concordata con Mazzini, che era a Milano dal 7 aprile. Contro chi da un lato invocava la repubblica e chi dall’altro propugnava l’immediata fusione della Lombardia al Piemonte, Rosa sostenne fermamente nei suoi articoli che non si sarebbe dovuto discutere e decidere della forma di governo prima che la guerra avesse consentito di liberare l’Italia tutta. La questione sarebbe stata allora da demandarsi a un'Assemblea costituente da eleggere con il più ampio suffragio possibile.
In linea teorica, la «fusione di Stati governati tutti uniformemente» sarebbe stata la via maestra, ma poiché tale uniformità non esisteva, «nessuno Stato, nessun partito» avrebbe dovuto «violentare l’altro» – così si legge nell’articolo Quale forma di governo deve assumere l’Italia (in L’Unione, 20 aprile 1848), in cui è evidente quanto il mazziniano Rosa fosse sensibile alle preoccupazioni di Cattaneo. Del resto – sosteneva in quel medesimo scritto – la repubblica non avrebbe potuto costituire che il punto di arrivo di un processo di rigenerazione morale e politica della nazione al cui compimento era indispensabile la partecipazione delle moltitudini alle cose pubbliche. Il comune era il luogo in cui tale esperienza della libertà si sarebbe potuta meglio dispiegare.
All’indomani della sconfitta di Custoza, Rosa chiuse il giornale e accorse a Brescia, dove assunse l’incarico di segretario del generale Saverio Griffini al quale era stata affidata l’estrema difesa della città. Caduta Brescia, dopo un vano tentativo di organizzare la resistenza in Valtellina, abbandonò la lotta. Nel marzo 1849 partecipò alle Dieci giornate di Brescia, quindi, nell’intento di mettersi al riparo dalle persecuzioni poliziesche, si trasferì a Caprino Veronese, dove si impiegò come precettore dei figli di Teresa Mellegori Sozzi, fervente mazziniana. Vi sarebbe rimasto fino al 1866.
Dopo il 1848 Rosa tornò a dedicarsi intensamente alle ricerche storiche ed etnografiche, a ispirare la maggior parte delle quali fu anzitutto uno spiccato interesse per i dialetti e i costumi delle popolazioni lombarde in specie. Negli anni Quaranta suoi saggi erano comparsi, oltre che sul Politecnico, sulla Rivista Europea; nel 1850 iniziò la sua collaborazione al Crepuscolo, che si protrasse fino al 1859; nel 1855 fu pubblicato il primo dei suoi contributi nell’Archivio storico italiano.
Negli scritti teorici – per i quali Rosa è ritenuto un esponente non trascurabile della linguistica preascoliana – è ben ravvisabile la lezione di Cattaneo: si pensi all’interpretazione della lingua come fenomeno essenzialmente sociale nonché alla considerazione dei dialetti alla stregua non di prodotti della corruzione delle lingue, ma di depositi stratigraficamente ordinati delle culture dei popoli (Documenti storici posti nei dialetti, nei costumi, nelle tradizioni e nelle denominazioni de’ paesi intorno al lago d’Iseo è il titolo significativo della principale opera dialettologica di Rosa, stampata la prima volta nel 1850 a Bergamo). Rosa ignorava peraltro opere fondamentali della linguistica a lui contemporanea, tra cui i lavori di Friedrich Diez, ciò che concorre a spiegare la mancanza nei suoi scritti linguistici di un principio ordinatore e di un metodo di descrizione dei fenomeni scientificamente fondati e rigorosi.
In altre sue opere – Le origini della civiltà in Europa (Milano 1863); Storia generale delle storie (Milano 1865); Storia naturale della civiltà (Brescia 1880) e Storia dell’agricoltura nella civiltà (Milano 1883) – Rosa si propose invece di comporre vasti quadri storici delle civiltà umane e di individuare, attraverso la comparazione e secondo una propensione caratteristica della cultura positivistica, leggi generali del progresso dell’umanità. Dal volume del 1880 risultavano chiare le idee portanti della concezione di Rosa, anche in quest’ambito dipendente in buona misura da Cattaneo. All’agricoltura era attribuito il ruolo di fondatrice delle civiltà in quanto attività spiccatamente sociale, ma era con il commercio che si moltiplicavano le combinazioni di culture che del progresso delle civiltà costituivano secondo Rosa la chiave. Se la civiltà, pensava, aveva toccato i suoi apici laddove con più forza si era affermato il ‘cosmopolitismo’, l’ideale della unità nella varietà additava nella unificazione federativa la strada da imboccare. Fu sulla base di queste convinzioni che Rosa auspicò fin dal 1848 la nascita degli Stati Uniti d’Europa e fu richiamandosi a esse che nel 1887 contestò, sulle pagine di Cuore e Critica, l’opinione – intesa a legittimare la politica coloniale – di Giovanni Bovio, secondo il quale sarebbe stato possibile provare l’esistenza di differenze di valore tra le stirpi.
Nel 1859, dopo l’uscita degli Austriaci da Bergamo, Rosa fece parte della giunta comunale. Ristabilita nel 1866 la sua dimora a Iseo, l’anno seguente fu eletto consigliere provinciale ed entrò nella deputazione provinciale di Brescia, della quale sarebbe stato membro fino al 1886.
Dal 1859, come testimoniato dall’opuscolo L’Italia. Pensieri politici stampato a Bergamo quell’anno, Rosa aveva ripreso la riflessione avviata nel 1848 sul futuro della nuova Italia. Anche negli scritti dedicati all’ordinamento dello Stato – Unità, scentramento e trasformazioni degli Stati (Brescia 1867); I Comuni (Milano 1869); Federazioni comunali (Milano 1879); L’Amministrazione della Provincia di Brescia (Brescia 1883); Lo Stato e il Comune (Brescia 1886), La legge comunale e provinciale per l’Italia (Brescia 1887) – ebbe ben presente l’insegnamento di Cattaneo (del maestro appena scomparso tenne nel 1869 una commemorazione all’Istituto lombardo di scienze e lettere): denunciò la lesione all’autonomia dei comuni che comportava la tutela esercitata su di essi da prefetti subordinati ai voleri del ministero in carica e si oppose ai provvedimenti che – a partire dalla legge sull’amministrazione comunale e provinciale del 1865 – disponevano l’accorpamento dei comuni più piccoli ai più grandi, persuaso com’era che non solo il comune costituisse la cellula fondamentale della vita democratica, ma che la partecipazione dei cittadini potesse essere più intensa e fruttuosa proprio nei comuni più piccoli. La sua proposta che questi si federassero in consorzi per la realizzazione di opere e la fornitura di servizi costituì il contributo più originale di Rosa al dibattito sulle autonomie.
Negli anni Settanta Rosa profuse molte energie nell’opera di organizzazione e di rafforzamento del movimento repubblicano e nell’azione per la difesa e lo sviluppo delle libertà, collaborando inoltre a diversi fogli di indirizzo democratico e repubblicano tra i quali Il Preludio e La Rivista Repubblicana di Arcangelo Ghisleri. Quanto il repubblicanesimo di Rosa fosse sensibile alla questione sociale e, più precisamente, alle istanze del socialismo risultò da quel momento in poi sempre più evidente. Tra il 1874 e il 1876 collaborò alla Plebe di Enrico Bignami con sei scritti, nel più significativo dei quali si compiaceva dell’importanza che nel programma di Gotha dei socialisti tedeschi era stata attribuita alle libertà democratiche. Di lì a poco nel Programma del circolo repubblicano di Brescia che fu pubblicato nell’Ordine del 3 agosto 1877, Rosa proclamò la necessità che l’emancipazione del quarto stato fosse assunta come proprio compito precipuo dalle forze della democrazia e, pur senza rinnegare i propri convincimenti liberali, auspicò che lo Stato promuovesse le condizioni più propizie allo sviluppo del cooperativismo e di forme di partecipazione dei lavoratori agli utili. Fautore di un associazionismo operaio sottratto alle tutele del padronato, negli scritti degli anni Ottanta comparsi su giornali quali Il Quarto Stato e Il Proletario giunse a riconoscere l’opportunità delle società di resistenza e dell’arma dello sciopero. Quanto all’intesa tra repubblicani e socialisti, Rosa era convinto che non si sarebbe potuta compiere se non si fosse rinunciato a costringere il progresso sociale entro schemi precostituiti, perché si trattava al contrario di assicurare le condizioni della massima libertà affinché «l’organismo dell’umanità» potesse svolgersi «mirabilmente da sé»: così scriveva nell’articolo Capitale e lavoro comparso nel numero del 20 aprile 1891 della Critica Sociale di Filippo Turati, alla quale aveva accettato di collaborare fin dal primo numero. Le ultime sue energie furono dedicate alla edizione per Barbera delle opere di Cattaneo e, tra il 1895 e il 1897, alla fondazione e alla costruzione del Partito repubblicano italiano.
Morì nella sua casa di Iseo il 25 febbraio 1897.
Fonti e Bibl.: Un Fondo Gabriele Rosa composto da circa mille volumi è conservato presso la Biblioteca dell'Ateneo di Brescia - Accademia di scienze, lettere ed arti. Le autobiografie citate nel testo costituiscono la principale fonte per la ricostruzione della vita di Rosa. La bibliografia più completa è opera di C. Cortinovis, Opere e scritti di G. R. (1812-1897). Saggio di bibliografia, in Archivio storico bergamasco, 1986, vol. 10, pp. 127-155; ibid., 1987, vol. 13, pp. 323-343. Una preziosa Nota bio-bibliografica (che contiene informazioni anche sulle corrispondenze epistolari di Rosa con Carlo Cattaneo, Federico Confalonieri, Carlo Tenca, Arcangelo Ghisleri e altri) e un’antologia degli scritti sono comprese in G. Angelini, L’ideale e la realtà. L’itinerario politico e sociale di G. R., Milano 2003, pp. 75-86 e 87-207. Tra gli studi dedicati a Rosa sono da segnalare: E. Rotelli, Le autonomie locali nell’esperienza politico-amministrativa di G. R., in Id., L’alternativa delle autonomie, Milano 1978, pp. 154-173; P.C. Masini, Il pensiero politico di G. R. e Il pensiero sociale di G. R., in Id., Eresie dell’Ottocento. Alle sorgenti laiche, umaniste e libertarie della democrazia italiana, Milano 1978, pp. 31-53 e 55-64; G. Angelini, G. R. tra Mazzini e Cattaneo, in Id. L’ideale e la realtà, cit., pp. 9-73. A questi studi sono da aggiungere i contributi compresi negli atti di due convegni: G. R., Atti dei convegni regionali sui democratici lombardi, Bergamo, Iseo, Brescia, Chiavenna... 1976, II, Milano 1976; G. R. nel bicentenario della nascita. Atti delle giornate di studio, Iseo, Brescia, Bergamo... 2012, a cura di S. Onger, Brescia 2014.