FALLOPPIA, Gabriele
Nacque nel 1523, a Modena, dal matrimonio di Caterina Bergomozzi con Girolamo, figlio naturale di un Gabriele, la cui origine de Falopijs testimoniava l'appartenenza a famiglia ragguardevole, nella città, per onorabilità e una certa agiatezza.
Di una buona situazione economica si giovò Girolamo, che dallo zio paterno, il canonico Michele Antonio, ebbe l'aiuto per gli atti necessari alla sua agognata legittimazione, oltre al sostegno delle donazioni fatte in suo favore che si andarono ad assommare al cospicuo bene dotale che il canonico Lorenzo Bergomozzi, fratello della moglie Caterina, aveva potuto consegnargli dopo un proficuo soggiorno alla corte papale, quale cantore e buffone personale di Leone X. Ciononostante il F., rimasto, già a dieci anni, insieme con il fratello Giulio, minore di età, orfano del padre, si trovava in una situazione d'indigenza: Girolamo dai suoi trascorsi prima come orafo e poi come strenuus vir, uomo d'arme di successo a servizio del cardinale Ippolito d'Este e del conte Guido Rangoni, non riusciva, infatti, a lasciare altro ai figli se non la tara, probabile, della sua lue e la fama, certa, del suo comportamento impudente, orientato, del resto, anche ad usare a fini loschi e truffaldini la perizia guadagnata nell'arte della "trasmutazione de' metalli".
Ma il F., benché costretto a vivere "di limosina" e dell'aiuto dei parenti, benché costretto, nell'approccio agli studi, a un iter quanto mai irregolare, rispose subito con straordinario ingegno agli insegnamenti di Ludovico Castelvetro, che introdusse lui e Carlo Sigonio alle discipline umanistiche. Così pure rivelava una vivida intelligenza ascoltando le lezioni sulle lettere greche e latine che Francesco Porto pubblicamente teneva in Modena negli anni 1536-1546. Seguendo questi maestri, prese così a fruire della cultura libera e innovativa che circolava nella "spetiaria de li Grillenzon, a l'insegna de la fontana nel mercato de l'ove", dove, per volontà di Antonio Grillenzoni, farmacista, e, soprattutto, del fratello Giovanni, medico, si dava convegno quel gruppo di ingegni che dai Modenesi prese ad essere indicato con il nome di "Accademia".
Un'Accademia che, nell'arco di un decennio e poco oltre (1530 c-1542 c.), si distingueva nella città - e in Italia - per le discussioni su argomenti letterari e scientifici, "sopra i quali", asseriva Castelvetro, "ognuno degli ascoltatori poteva dire liberamente il parer suo, et si faceva giudizio delle cose lette". Questa scelta, per la pratica della polemica, per l'esame della tradizione, per la consuetudine del criticismo, ben presto non esimeva i partecipanti dall'esprimere anche parere in merito alle delicate tematiche religiose, ormai dappertutto - e peculiarmente in Modena -, alle soglie del concilio di Trento, pervase dalle inquietanti influenze ereticali dei riformatori tedeschi. Caduta, a ragione, in sospetto di eresia, l'attività dell'Accademia venne esemplarmente soppressa, con editto ducale, nell'anno 1545, ma già in precedenza agli accademici era stato fermamente consigliato, infine intimato, di dimostrare apertamente la sottomissione ai dogmi della Chiesa cattolica.
Anche il F., per l'accusa di essere "haereticus lutheranus pessimus", si trovò a dover sottoscrivere gli Articuli orthodoxae professionis dei formulario di fede del 3 sett. 1542, stilato dai cardinali G. Morone, I. Sadoleto e G. Cortese.
D'altra parte, un altro firmatario del formulario, lo zio del F. Lorenzo Bergomozzi, lo aveva da sempre esortato affinché egli abbracciasse la stessa carriera ecclesiastica che a lui aveva portato non lievi benefici, per la prospettiva di poter così sopperire alle ristrettezze economiche della famiglia. Tuttavia, pur se già nel '34 il F. compare come presbyter, le alterne vicende della sua accettazione del canonicato dallo stesso zio (dal 1547 al 1549) si accompagnavano a quelle che lo portarono alla sua rinunzia ad esso che confluì infine nella rinunzia anche al titolo di sacerdote. In effetti, ciò era conseguente al ruolo secondario di questa carriera di fronte alla preminenza di ben altri intenti: il F. aveva anteposto a tutti i suoi interessi di studio quelli medici e anatomici ed a tutti appariva chiaro che egli studiava "in l'arte medecina, più che d'esser prete".
Già nell'anno 1528, in un'età davvero inconsueta, aveva mentalmente annotato alcuni atroci decorsi della peste; in seguito "si diede senza Maestro alla conoscenza dell'erbe, et al tagliar corpi umani" ed inoltre "visitava i malati, li confortava, e se avevano bisogno si dava ad accattar per loro", mentre non si esimeva dall'esercitare appunto come medico. Da autodidatta - anche perché in Modena non era stato ancora istituito l'insegnamento di medicina - il F. aveva acquisito pertanto rapidamente competenza e perizia tanto nella conoscenza della struttura del corpo umano quanto nella capacità di intervenirvi con l'attività chirurgica e farmacologica. Tutto ciò procedendo nello studio dei "semplici" e dei "fossilia", nello studio dell'opera di Galeno e di Berengario da Carpi (Iacopo Barigazzi) nella pratica di moltissime anatomie di animali, nell'esame di quei resti dei giustiziati, i cui cumuli costituivano uno dei materiali primari d'indagine al quale era potuto sempre ricorrere a Modena e poi anche in Ferrara, Firenze e Pisa. E la tecnica da lui raggiunta nella dissezione era così avanzata - e riconosciuta come tale - che il Collegio dei medici di Modena dette a lui l'incarico di eseguire l'anatomia di un giustiziato per istruire i giovani addottorati. La dissezione, eseguita dal F. nell'ospedale di S.Giovanni della Morte, nei giorni 13 e 14 dic. 1544, fu magistrale ed egli, inoltre, per consentire la "nottomia delle ossa", provvide a ricavarle dal cadavere con la tecnica della bollitura, e preparò poi uno scheletro le cui parti assemblate con fili di rame dovevano con buona probabilità permettere alle articolazioni quella mobilità che negli esemplari montati da A. Vesalio si osservava soltanto nella mandibola.
Seppure questa esperienza si concluse con "eccellentia", la pratica chirurgica, che da allora il F. cominciò ad esercitare, è costellata di insuccessi e su questi, probabilmente, si delineò l'urgenza di un corso regolare di studi che lo indusse, nel 1545, a lasciare Modena per recarsi, forse, e per un breve periodo, a Padova, per seguire le lezioni di Realdo Colombo - successore nella cattedra anatomico-chirurgica del Vesalio - e di Giambattista Da Monte. Con certezza, invece, sempre in quell'anno, si recò a Ferrara, per giovarsi, nello studio della medicina, degli insegnamenti di Antonio Musa Brasavola. Il Brasavola lo stimava ed anche Ercole d'Este gli elargì la sua fiducia e considerazione: benché il F. non fosse addottorato, fu incaricato, per l'anno accademico 1547-48, di insegnare la "scientiam, quae est de herbis, stirpibus, et ceteris quae oriuntur e terra", incarico che doveva significare l'inizio ufficiale delle sue lezioni su Dioscoride, anche se è ipotizzabile il mantenimento, in via ufficiosa, delle dimostrazioni di anatomia, di cui peraltro, sicuramente, anche a Ferrara, aveva dato una esemplificazione pubblica degna di ammirazione anche per coloro che avevano avuto il modo di presenziare, in Padova, alle anatomie eseguite dal Vesalio, "allora famosissimo tagliatore oltre tutti gli altri".
Fu Cosimo I de' Medici a chiamarlo allo Studio pisano con l'offerta specifica della cattedra di anatomia che il F., accettando, tenne dall'ottobre del 1548 alla fine del 1551. Ed è al periodo pisano che sono da ascriversi alcuni suoi discussi esperimenti sull'efficacia dell'oppio da lui somministrato, in più di un caso, a un condannato a morte, consegnatogli dallo stesso Cosimo "ut nobis dent hominem, quem nostro modo interficimus, et illum anatomisamus".
Esperimenti che, se non al suo tempo, in seguito gli valsero l'accusa di praticare la vivisezione dell'uomo, da cui traeva spunto una accesa diatriba incentrata appunto sulla definizione del momento in cui, durante l'osservazione della suddetta efficacia con la graduale, progressiva, infine letale somministrazione del veleno ai giustiziandi, il F. avesse poi dato effettivo inizio alla dissezione del loro corpo. Ma al di là della discussione fra gli storici in merito alla liceità di un agire, ipotetico, su un corpo "morto" o soltanto "addormentato", certo è che gli studi sui veleni e sui loro ricercatissimi antidoti - su cui poggiavano gli esperimenti del F. - scaturivano dalle pressanti richieste di un'epoca in cui la morte per "maleficio" era minacciosamente e popolarmente diffusa in ogni strato sociale. E certo è, parimenti, che al tempo tali studi si sviluppavano nella consueta e lecita pratica della somministrazione del veleno ai condannati alla pena capitale, previo il loro consenso che, nel migliore dei casi, sarebbe stato propedeutico della grazia, qualora il giustiziando fosse scampato alla sperimentazione, mentre, nel peggiore, gli avrebbe comunque consentito una fine scevra dell'ignominia pubblica dell'esecuzione di piazza. E, d'altra parte, era condivisa certezza che il sottoporre il condannato a tali necessarissimi esperimenti, fondasse la sua lecita ratio nella possibilità di riscatto che a lui veniva comunque offerta, di giovare cioè, da morto, proprio a quella comunità che, in vita, aveva vessato.
Nello specifico, gli studi sull'efficacia dell'oppio inerivano, inoltre, a insiemi tematici di grande rilievo per il F., quelli che riguardavano i suoi interessi "naturalistici", dove lo studio dei semplici e dei fossilia (cioè terrae, lapides, metalla, succi) si sviluppava come confronto tanto con il sapere della tradizione quanto con le filosofie preposte alle insorgenti discussioni in merito all'utilizzazione nella terapeutica medica dei rimedi "vegetali" o di quelli "minerali".
Le erborizzazioni da lui compiute nella campagna pisana, sul monte S. Giuliano, muovono sempre da quella volontà, così comune e tipica degli scienziati del suo tempo, di comprensione effettiva dei grandi - e riscoperti - erbari della scienza latina, greca ed araba, attraverso l'identificazione di fatto delle piante in essi descritte, che sia pertanto propedeutica dei progetti miranti alla loro classificazione e di quelli applicati al loro uso farmacologico. Così il F. scopre che la salsapariglia altro non è che la smilace aspra di cui parla Dioscoride e che individua rigogliosamente spontanea sul monte pisano e tutto ciò, egli scrive, "magis confirmavi experientia", poiché la seconda può essere egregiamente utilizzata in luogo della prima proprio nella profilassi curativa dello stesso specifico male, per cui, durante tutto il biennio trascorso in Pisa, prese ad usarla, riuscendo a liberare "cum successo plurimos a lue gallica". Dove l'esposizione di uno dei moltissimi esempi delle procedure di una emergente metodologia interpretativa della tradizione scientifica, qui vale anche come una delle moltissime testimonianze sul problema che, in campo medico, andava ponendo, dopo i primi anni del '500, la spaventosa diffusione di una malattia che soltanto nel 1530 guadagnava un nome proprio - sifilide - fissato al poemetto didascalico Syphilis seu morbo gallico, pubblicato in quell'anno, in Verona, da Girolamo Fracastoro.
Al laborioso lavoro che gli autori della moltiplicata trattatistica de morbo gallico compivano per dare fisionomia a questa malattia partecipava anche il F.; in prima persona ne discuteva, allora, tenendo le sue lezioni allo Studio di Pisa ma, egli stesso, da uditore a Ferrara, ne aveva sentito discutere nel corso delle lucide esposizioni offerte dal suo maestro Brasavola.
Per il F. tale problema riguarda ancora, e innanzi tutto, un processo di individuazione, quindi di distinzione: di quello specifico morbo rispetto alle altre, non meno nefaste, malattie di passato e presente attraverso la disamina della ricchissima serie di denominazioni ("quae sunt principium, fons, et origo omnis nostrae cognitionis") che ne segnalavano la sinistra presenza ormai in tutta Europa, della complessa sequenzialità della sintomatologia, della difficoltosa storia eziologica. E se da quegli anni a venire anche il F. seguirà gli orientamenti di una terapeutica brancolante nella scelta tra l'uso del mercurio (l'"argento vivo" somministrato come unguento, come empiastro, e per fumigazioni) e l'uso del legno di guaiaco (il "legno santo" propinato per decotto, dalla cui vendita i Fugger, detentori di importazione e commercio, incrementavano le loro ingenti fortune) - il che poi rivelava i limiti di una terapeutica sprovveduta nell'arginare tanto l'intossicazione mercuriale susseguente all'irrazionale uso del cinabro quanto la debilitazione susseguente all'estenuante quarantena curativa col guaiaco - la controversia farmacoterapica non impedirà ai suoi studi di orientarsi con sicurezza a favorire la tesi contagionistica all'origine del male. L'influenza degli insegnamenti del Brasavola lo indirizzerà alla negazione del male come epidemialis, dunque alla negazione delle tre cause ubiquitarie aqua, aer, et regio, quindi all'attribuzione al morbo di causa bensì communis ma non communissima. Soprattutto, su queste direttive, attraverso l'esatta precisazione della sua più grave eziologia "actiones hominum, et hae sunt contractus, et confricatio homines inter se"), il F. giunge ad indicare nell'osservanza dell'uso degli appropriati mezzi profilattici da lui descritti quell'efficace sistema che, se non era in grado di sconfiggere il male, con più che buone probabilità era atto a preservare da esso. Da notare che il F. distinse chiaramente i condilomi sifilitici da quelli natura non sifilitica.
Il soggiorno pisano si rivelava proficuo all'approfondimento di questi interessi medici e, in senso lato, all'insieme degli interessi medico-naturalistici del F.: a Pisa, sulla comune passione per questi studi, prese l'avvio la sua amicizia con Luca Ghini - in questa stessa città lettore di botanica (1544-1554) e fondatore del prestigioso orto botanico (1547) - e l'amicizia con il discepolo del Ghini, Bartolomeo Maranta. Al Ghini resterà debitore in re botanica e legato da affetto fraterno ché, come scriverà ad Ulisse Aldrovandi, la notizia della sua morte gli "trafisse il cuore", obbligandolo moralmente con la vedova a occuparsi del figlioletto Galeazzo (lettera del 29 maggio 1556). E altresì farà le veci del Ghini, leggendo, commentando e lodando con affetto il Methodi cognoscendorum simplicium (Venetiis 1559) del Maranta quando questi gli spedirà il suo lavoro in forma manoscritta "non tam videndum, quam emendandum" prima della pubblicazione (lettere di Maranta al F. e del F. a Maranta - del luglio e dell'agosto del 1558).
D'altra parte in queste ed in altre occasioni, che coinvolgevano l'aspetto direttamente privato del suo vivere, il F. rivelava una sensibile profondità di sentimenti, una pacatezza e modestia nei modi del comportamento che i suoi contemporanei con costanza continueranno a indicare come suoi peculiari e che, fors'anche, taluni accentuavano considerandoli quasi inspiegabili per il pessimo modello che, nei primissimi anni della vita, doveva essere stato per il F. quel suo violentissimo padre, di cui tardava a spegnersi la scellerata fama. Certo è che gli interessi di studio che il F. scopriva in comune con alcuni grandi ingegni del suo tempo erano per lui veicolo tanto di progresso nel lavoro quanto dell'instaurarsi di ben radicate amicizie. Sarà così anche nei confronti dell'illustre naturalista Ulisse Aldrovandi, con il quale lo scambio e la promessa di semplici desueti alimentavano il desiderio di andare ad erborizzare insieme, e sarà così anche per il rapporto del F. con Melchiorre Wieland, il coltissimo "Guilandinus", con il quale stabilirà addirittura dimora comune in Padova, con il quale andrà ad erborizzare sul monte Somano e per il quale non esiterà a pagare un riscatto di 200 scudi d'oro ai pirati saraceni, nelle cui maglie era appunto incappato il Guilandino durante uno dei suoi avventurosi peregrinaggi.
Nella città di Padova il F. si era trasferito, nell'anno 1551, a seguito della nomina, conferitagli dalla prestigiosa università, all'incarico della "duplice lettura de' Semplici e di Chirurgia", cattedra unica che però di fatto concerneva "Semplici, chirurgia et obligo di [tagliar la] Notomia". Era così chiamato a coprire il ruolo che, prima di Realdo Colombo, aveva tenuto Andrea Vesalio e quello lasciato vagante da Francesco Buonafede, a partire dal 1551 per un biennio - rinnovabile per un terzo anno - e con il consistente stipendio annuo di 200 fiorini, e nonostante gli mancasse ancora quel grado dottorale che, presso lo Studio estense, promotore il Brasavola, conseguirà infatti soltanto in data 3 ott. 1552.
È nell'ambito del suddetto incarico patavino, che sarà successivamente riconfermato, la serie più cospicua delle sue pregevoli lezioni, con le quali dà esempio della sua competenza come medico, chirurgo e anatomista, della sua conoscenza di botanica e di farmacologia, oltre che di argomenti specialistici quali, ad esempio, la sifilografia e l'idrologia. Lezioni quindi che saranno "de morbo gallico" nel 1555, "de medicatis aquis" e "de tumoribus praeter naturam" nel 1556, "de metallis atque fossilibus" e "de luxatis et fractis ossibus" nel 1557, "de ulceribus et morbo gallico" e "de medicamentis purgantibus simplicibus" nel 1558, "in Hippocratis librum de vulneribus capitis" nel 1560, "de materia medicinali in librum I. Dioscoridis" nel 1561, e ancora "de ulceribus" e "de morbo gallico" l'anno seguente.
Mentre, di pari passo, le sue dimostrazioni di anatomia normale e patologica dell'uomo, le sue dissezioni degli animali costituivano l'oggetto di un corso così seguito e ricercato che le modifiche imposte nel 1554 dai Riformatori dello Studio, al fine di dividere la prassi dell'insegnamento tra il lettore dell'Anathomia del Mondino (Andrea Appellato), l'ostensore (Vittore Trincavelli) e il dissecatore (il F.), fallivano per i tumulti degli studenti che volevano la riunificazione di detto insegnamento sotto la responsabilità del solo Falloppia. Egli andava così dispiegando, a Padova, tanto i risultati del suo approfondimento delle tematiche medico-naturalistiche quanto i progressi che nella comprensione della struttura del corpo umano gli consentiva la pratica anatomica. Ed in quest'ultimo campo, soprattutto, non si esimeva dal ribadire la necessità di una metodologia che, nell'indagine scientifica, traesse primo fondamento dall'osservazione diretta ("quoniam ex sensu hoc est cognoscendum, non autem ex ratione"), fino al punto di denunciare le discordanze tra quanto con essa scoperto e quanto asserito nei libri dai medici, fin'anche fossero stati questi i testi di Galeno o quell'ultimo mirabile trattato, a titolo De humani corporis fabrica libri VII (Basileae 1543), con il quale il "divino" Vesalio aveva stupito l'intera Europa.
È su queste procedure e su questi intendimenti che, a partire dal 1557, il F. prese ad organizzare la stesura delle sue Observationes anatomicae: se concretizzano i risultati della sua eccezionale capacità nella "nottomia", sono anche il frutto, in quegli anni, della sua pertinace diligenza nel procurare cadaveri per praticarla, sempre supplendo, quando mancano "corpora humana", con "preterea [corpora] brutoruni omnis generis". In realtà, se la dimostrazione settoria sui "bruti" era stata utilizzata talvolta dal F. per trattenere nel teatro anatomico gli studenti, in preoccupata attesa che da Venezia si provvedesse convenientemente alla deficienza di corpi umani, all'anatomia degli animali egli si era da sempre riferito per ricavare i dati per indagini che riteneva di estrema importanza proprio per gli studi sull'uomo. E in proposito ne era un luminoso esempio quell'anatomia della testa di phoca che gli aveva permesso l'individuazione dei quattro piccoli muscoli preposti al movimento delle palpebre, da cui era stato poi condotto a scoprire l'unico muscolo elevatore della palpebra superiore del bue, che aveva poi individuato parvum e tenuem preposto al movimento della palpebra superiore dell'uomo. Di qui l'osservazione anatomica del ricchissimo serraglio veniva dal F. praticata - come d'altra parte dagli altri anatomisti - ma soprattutto utilizzata e auspicata come anatomia comparata.
Il F. poi, nello specifico dell'anatomia umana, dall'esame di quanti più soggetti di sesso e di età diversi, aveva cominciato a tracciare proficue linee esplicative di confronto: in tale senso l'anatomia dei feti, dei neonati, dei bambini era posta in "relazione" con quella dei soggetti adulti, diventando in tal modo anatomia esplicativa dei processi evolutivi e prodromo dell'embriologia. E mentre questi due nuovi metodi riformatori dello studio anatomico si riveleranno, a posteriori, fecondi per due dei suoi più illustri studenti, Girolamo Fabrici d'Acquapendente e Volcher Koyter, già allora i risultati di tutte queste indagini innovative del F. non tardavano a dimostrarsi essenziali e così, appunto, alle Observationes anatomicae, che uscivano in stampa a Venezia nell'anno 1561, "apud Marcum Antonium Ulmum", rimanevano fissate le sue fondamentali scoperte.
Moltissime riguardavano soprattutto il sistema osseo (osteologia), esaminato anche alla luce del suo sviluppo, e quello muscolare (miologia), di cui ne erano esempio la summenzionata scoperta del muscolo elevatore della palpebra superiore e la precisa descrizione dell'organo dell'udito (proposto con l'esatta definizione delle cavità del timpano, del labirinto e della coclea, così da lui denominati). Studiò la struttura e il decorso dei vasi cerebrali, individuò i nervi degli occhi. Mentre, nell'ambito dello studio dei visceri (splancnologia), era esemplare la descrizione degli organi riproduttivi femminili, ridefiniti nella fondamentale scoperta di quei dotti seminali (meatus seminarii) che il F. asseriva essere strutture uterine (a cornibus ipsius uteri ortae) e alle quali apponeva il nome specifico di "tube uterine" proprio per quella peculiare conformazione di ognuna di esse che dall'inizio all'estremità mostrava l'aspetto di una tromba di guerra: sono note come trombe di Falloppio. E, se nelle Observationes il F. non aveva proposto l'arredo di quell'apparato iconografico al quale erano ricorsi per esemplificare la pagina scritta Berengario e soprattutto il Vesalio con le meravigliose tavole incise dall'allievo del Tiziano, Giovanni Stefano von Calcar, le sue descrizioni anatomiche raggiungevano una così dettagliata esposizione da supplire quasi alla mancanza dell'immagine, che si avviava ad essere ormai elemento costitutivo del testo scientifico e che egli stesso, d'altronde, prometteva di introdurre per illustrare quel trattato sistematico di anatomia al quale attendeva.
Nonostante questi progressi e successi, a partire dall'anno 1556-57, si delinea per il F. l'insorgere di una situazione di stanchezza. L'insegnamento cominciava a risultargli gravoso, fors'anche perché era continuamente angariato dalle pressioni della nazione germanica che, per tutelare gli interessi dei suoi studenti, pretendeva che il F. non venisse mai meno ai suoi impegni di lettore di anatomia, anche quando egli si trovava ad essere sempre più inibito da quei malanni - propri di un'affezione cronica dell'apparato respiratorio - che da sempre lo opprimevano e che erano così concomitanti a quella sua professione da svolgersi soltanto in gelidi spazi, durante l'inverno. Ed a ciò è anche da aggiungere un serpeggiante malcontento nei confronti dello Studio di Padova, cui lo legava oltre all'incarico una serie onerosa di crediti. Le lettere inviate dal F. all'amico Ulisse Aldrovandi cominceranno così a registrare il resoconto sull'infittirsi delle malattie che lo affliggevano, da lui interpretate come la risultanza di una sua scelta di vita, che era da evitare (lettera del 16 marzo 1557). Mentre si profilava il fermo proposito di orientare in maniera diversa la sua professione.
Non aiutavano certamente a distoglierlo da questi propositi le soddisfazioni che, in campo squisitamente medico, era andato via via raccogliendo: per giovarsi delle sue cure, un'estesa clientela lo chiamava a consulto da più parti d'Italia; il pontefice Giulio III lo richiese a Roma per curare il fratello Baldovino Del Monte (1552) gli Estensi - ai quali rimarrà sempre legato - si rivolgevano con costanza a lui, nonostante avessero in Giambattista Canani il Giovane il loro protomedico di corte, sicché il F., cui Paolo Manuzio era gratissimo debitore della risoluzione di una cronica malattia agli occhi (1559), prese a curare un grave trauma oculare subito da Ercole Zanella, il cameriere di Alfonso d'Este, giunto a Padova appunto per volere del duca (1560), mentre sotto controllo del F. si svolgevano le cure termali ad Abano da lui prescritte a Eleonora d'Este (1561-1562). E, d'altra parte, anche i viaggi che nel 1560 il F. compirà in Francia e in Grecia non allenteranno la tensione con lo Studio patavino.
Per tali considerazioni il F. cominciava già forse nel 1557 a rivolgersi all'amico Ulisse Aldrovandi, affinché egli, lettore di logica, di filosofia e dei semplici nello Studio di Bologna, facilitasse la via per fargli ottenere, presso quello stesso Studio, la cattedra di medicina pratica o teorica. Questo progetto appariva di sicuro successo perché i buoni uffici dell'Aldrovandi cementavano una situazione che era già tutta in suo favore: la politica dello Studio bolognese era soprattutto interessata a incrementare il numero degli studenti e l'entrata del F., ormai famoso per indubbia competenza "sì ancora per essere amato da scolari quanto nissun altro", non poteva essere che caldamente auspicata. Ma lo scambio epistolare che, tra gli anni 1559-1562, intercorreva tra il F. e l'Aldrovandi, testimonia la storia di trattative che andavano per le lunghe, forse anche ulteriormente impacciate dal proposito di mantenerle segrete, come il F. pregava l'Aldrovandi, affinché "non dica però altro di questa ... risoluta opinione ... acciò che per disgratia non si sappia a Vineggia" (lettera del 30 genn. 1559), in considerazione degli obblighi che per un altro biennio lo vincolavano alla lettura dei semplici, di chirurgia e di anatomia nello Studio di Padova. La cattedra di medicina a Bologna gli appariva certa soltanto a partire dall'anno accademico 1562-63, e al F. quest'attesa, protrattasi nel corso di incarichi che a mala pena riusciva ormai ad espletare, risultava fatale.
Al principio dell'ottobre del '62 si ammalò gravemente: il "mal di punta" lo colpì il giorno 3 di quel mese e l'acutezza di questa probabile pleuropolmonite fu così nefasta che lo condusse a morte, a Padova, il giorno 9 dello stesso mese.
Già il giorno 12, con una lettera a Renato Brasavola, Alfonso d'Este, informato della morte del F. da un'affranta Eleonora, cercava di procurare per la Biblioteca ducale "tutte le sue composizioni et scritture fatte da lui in materia de' suoi studj" e anche tutti quei testi di sua proprietà che avessero recato in margine un qualche appunto od una noticella vergata di sua mano, intimando, inoltre, con ferma autorevolezza, di non procedere ad alcuna stampa senza che egli ne fosse stato prima informato. Ma, a quanto pare, alla Biblioteca non giunsero le opere del F. e, in seguito, furono pubblicati invece sotto il suo nome gli appunti che alcuni suoi studenti, come Pietro Angelo Agato, Andrea Marcolini, Francesco Michino ed il Koyter, avevano preso nel corso delle sue lezioni: nel 1563, a Venezia, uscivano i Libelli duo, alter de ulceribus, alter de tumoribus praeter naturam ("apud D. Bertellum") e, a Padova, il De morbo gallico tractatus ("apud L. Bertellum"). Sempre a Venezia furono editi: nel 1564, i De thermalibus aquis libri VII. De metallis et fossilibus libri duo ("apud L. Avantium") e, nel 1565, il De simplicibus medicamentis purgantibus tractatus ... cum epistula in qua agitur de utriusque asparagi in medicamentis utilitate ("apud I. Zilettum"). Nel 1566, a Padova, fu pubblicato, insieme con altri opuscola, l'Arcanorum liber ("apud L. Bertellum"). A Venezia furono ancora editi: nel 1569, gli Opuscola tria, quorum primum est De vulneribus; II, Complectitur explicationem in lib. Hippocratis de vulneribus capitis; III, Continet tractatum de vulneribus oculorum, aliarumque partium capitis ("apud P. Mejettum"); nel 1570, l'Expositio in librum Galeni de ossibus - legato ad alcune Observationes anatomicae, ripubblicate da sole come Observationes de venis ("apud S. Galignanum") - e il De compositione medicamentorum, cui accesserunt Tabulae de cauteris ("apud P. Mejettum"); nel 1571, il De parte medicinae, quae chirurgia nuncupatur ("apud P. Mejettum") e il De humani corporis anatome compendium (id.). Nel 1573, a Norimberga, uscivano le Lectiones ... de partibus similaribus humani corporis ("apud Geriachium"). Lavori tutti che si intesero poi ripresentare congiunti con l'intento di pubblicare l'Opera omnia del F. nell'anno 1584 a Francoforte ("apud Haeredes A. Wecheli") e a Venezia ("apud F. Valgrisium"); nel 1600, di nuovo a Francoforte ("apud C. Marnium et J. Aubrium") e nel 1606, di nuovo a Venezia ("apud Jo. Antonium et Ja. de Franciscis"), in tre volumi, nella più esaustiva ed accurata delle edizioni. Dunque si tratta di una produzione scientifica la cui origine "indiretta" non fu esente dall'incentivare i dubbi che, se nel caso dell'Arcanorum liber ne inficiavano l'autenticità, in tutti gli altri comunque aprivano la questione se il F. ne avesse o meno attuata la revisione. Ciononostante, in grado di concretizzare nel tempo la fama del suo autore, ad onorare la cui morte, d'altra parte, aveva testimoniato la lunga teoria degli elogi, delle orazioni, delle odi e degli epigrammi.
Il F. venne sepolto prima nella basilica di S. Antonio poi, a seguito di quell'apertura della "porta settentrionale" della basilica che rese necessaria la demolizione del suo sepolcro (sec. XVIII), i suoi resti furono conservati nell'ossario e infine trasferiti nella cappella S. Felice, nel chiostro del capitolo del Santo, tumulati nella stessa tomba del suo carissimo amico Melchiorre Guilandino.
Fonti e Bibl.: Per i dati biografici del F. occorre innanzi tutto rifarsi alle pagine a lui dedicate da G. Tiraboschi, Biblioteca modenese, II, Modena 1782, pp. 236-253. Il Tiraboschi si giovò infatti di alcune delle fondamentali - e allora inedite - fonti relative al F. e cioè delle note biografiche stilate negli anni 1550-1551 da L. Castelvetro, Memorie di Ludovico Castelvetro intorno alla vita e scritti d'alcuni letterati modenesi e pubblicate soltanto nel 1903 (cfr. G. Cavazzuti, L. Castelvetro, Modena 1903), come della coeva Cronaca modenese stilata da Iacopino de' Bianchi detto de' Lancellotti che fu anch'essa pubblicata molto più tardi (Cronaca modenese, in Monum. di storia patria d. prov. modenesi, s. Cronache, I, a cura di G. Borghi, Parma 1861), fonti che dovranno essere pertanto riconsiderate in maniera esaustiva in queste loro moderne edizioni. A tutt'oggi l'unico - e, purtroppo, di non facile reperibilità - lavoro nel quale l'autore si sia proposto di esporre di nuovo in maniera organica la biografia del F. è lo studio redatto da G. Favaro (G. F., Modena 1928): esso costituisce il necessario punto di partenza per successive ricerche in quanto fornisce la più completa - seppure datata - serie delle informazioni bibliografiche, alla quale è da aggiungere: A. Zappoli, Brevi illustrazioni ai busti dei medici celebri posti nell'attico dell'arcispedale di S. Spirito in Sassia, Roma 1868, pp. 57-60, e G. Montalenti, G. F., anatomico e medico, in Gli scienziati italiani, II, Roma 1926, pp. 43-59. A riguardo degli studi biografici posteriori saranno altresì da consultare: P. Di Pietro, G. F. (1523-1562) nella storia dell'anatomia, estratto dal Boll. d. Soc. medico-chirurgica di Modena, LXII (1962), 4, pp. 3-11; Id., G. F., in Profili di medici e biologi modenesi dal XV al XIX secolo, in Boll. mensile dell'Ordine dei medici di Modena, XII-XIV (1963-65), pp. 248-251; G. Falloppia, Observationes anatomicae ad Petrum Mannam, Introd., a cura di G. Righi Riva -P. Di Pietro, II, Modena 1964, pp. 11-41; P. Di Pietro, F. G., in Scienziati e tecnologi dalle origini al 1975, Milano 1975, I, pp. 481 ss. La consultazione sub voce dei repertori, nazionali e non, di storia della medicina sarà utile non tanto per l'arricchimento di nuove informazioni - carenti, nella maggior parte dei casi, per la ripetitività delle medesime inesattezze - quanto per la raccolta della bibliografia concernente gli studi sul F. fuori d'Italia, al cui proposito cfr. A. Hirsch, Biographisches Lexikon ... der hervorragenden Ärzte, II; Dictionary ofscientific biography, New York 1970-78; Diz. biogr. della storia della medicina e delle scienze naturali (Liber amicorum), a cura di R. Porter, Milano 1985. Per l'epistolario attualmente noto del F. - che è di esigua entità trattandosi di quarantaquattro lettere -, cfr. P. Di Pietro, Epistolario di G. Falloppia, Ferrara 1970. Per l'approfondimento di alcune tematiche specifiche cfr.: R. Gallo, Due informazioni sullo Studio di Padova della metà delCinquecento, in Archivio veneto, s. 5, LXXII (1963), 108, pp. 17-100; M. Gioffrè-P. Di Pietro, Il contributo di tre grandi modenesi (Berengario, F. e Folli) all'otologia, estratto dal Boll. d. Soc. medico-chirurgica di Modena, LXIII (1963), Suppl. al n. 6, pp. 1-19; C.D. O'Malley, Andreas Vesalius of Brussels, Berkeley-Los Angeles 1964, pp. 289 ss.; P. Di Pietro-G. Cavazzuti, La descrizione falloppiana delle tube uterine, in Acta medicae historiae Patavina, XI (1964- 1965), pp. 51-60; P. Franceschini, Luci e ombre nella storia delle trombe di Falloppia, in Physis, VII (1965), 2, pp. 2115-250; C.D. O'Malley, G. F. Account of the cranial nerves, in Medizingeschichte im Spektrum, Wiesbaden 1966, pp. 132-137; Id., G. F. Account of the orbital muscles, in Medicine, science and culture, Baltimore 1968, pp. 77-85; P. Di Pietro, Le lezioni De partibus similaribus di G. F., in Scritti in onore del prof. A. Pazzini, Roma 1968, pp. 114-122; G. Zanier, G. F. e la filosofia dei minerali, in Medicina e filosofia tra '500 e '600, Milano 1983, pp. 5-19; G.E. Ferrari, L'opera idrotermale di G.F.: le sue edizioni e le sue fonti, in Quaderni per la storia d. Università di Padova, XVIII (1985), pp. 1-41; G. Cosmacini, La medicina e la sua storia, Milano 1989, pp. 38 s.