CASATI, Gabriele
Nacque, probabilmente a Milano, intorno al 1509 da Francesco di Nicolino e da Caterina Resta. Sin dagli anni giovanili aderì attivamente a quel movimento di rinnovamento religioso in campo cattolico che a Milano andava sviluppandosi ad opera di singoli individui o di gruppi ristretti di riformatori. Già verso il 1530 entrava a far parte della cerchia di laici che si riunivano intorno ad A. M. Zaccaria, il fondatore dei chierici regolari di S. Paolo Decollato, noti poi come barnabiti. Proprio per queste sue relazioni, il C. ebbe a passare qualche momento difficile allorquando alcuni degli spiriti più irrequieti del gruppo finirono col rendersi sospetti all'autorità ecclesiastica: così, nel 1555, a causa della sua amicizia con il barnabita M. A. Pagani, le cui Rime erano state messe all'Indice, al C. si interessava l'Inquisizione milanese, ma, apparentemente, senza conseguenze.
All'epoca il C. aveva già iniziato la carriera amministrativa: dopo aver conseguito la laurea in utroque iure, nel 1546 era stato accolto nel Collegio dei giureconsulti. Nel 1551, figurava tra i giurisperiti della Fabbrica del duomo. Sei anni più tardi giungeva la sua nomina a senatore ed in quello stesso anno Filippo II lo chiamava presso di sé, in Spagna, ad occupare l'importante carica di reggente milanese nel Supremo Consiglio d'Italia.
Il 5 maggio 1563 diveniva consigliere segreto e, in quella occasione, riceveva l'autorizzazione a recarsi a Milano per "visitar su casa".
La licenza, però, non era stata concessa per motivi esclusivamente privati: lo stesso giorno della nomina del C. a consigliere segreto, Filippo II indirizzava una lettera al governatore Fernando de Cordoba nella quale impartiva istruzioni affinché il reggente fosse ammesso in tutti gli uffici dell'amministrazione regia con il potere di assumere informazioni e prendere visione di qualsiasi incartamento avesse giudicato opportuno. A sottolineare il carattere ufficiale dell'incarico, veniva inoltre stabilito che nelle cerimonie il C. dovesse avere precedenza su tutti i magistrati milanesi, ad eccezione del presidente del Senato. Quali fossero la natura e lo scopo della missione, non è dato sapere: non sembra però si trattasse di una visita generale vera e propria, quanto piuttosto di un'indagine informativa, forse connessa con la riforma del magistrato delle Entrate, realizzata appunto in quei giorni. Come che sia, il fatto che una indagine sull'amministrazione lombarda fosse stata affidata a un senatore milanese e non a un magistrato spagnolo dimostra quale fiducia il sovrano riponesse nel Casati. La documentazione, peraltro, non consente di stabilire se questi abbia poi effettivamente svolto l'incarico affidatogli: l'unica cosa certa è che, tra il luglio ed il settembre 1563, egli si trovava a Milano.
Rientrato quindi in Spagna, riprendeva le sue funzioni di reggente fino a quando, il 1° sett. 1565, Filippo II lo nominava alla presidenza del Senato milanese.
Il C. giungeva a Milano agli inizi di dicembre e, su richiesta del governatore, assumeva immediatamente l'incarico: il 9 prestava giuramento nelle mani del duca d'Alburquerque e due giorni più tardi prendeva ufficialmente possesso della carica.
Oltre alle normali incombenze connesse alla presidenza del massimo organo amministrativo dello Stato, una delle prime questioni a essere sottoposte all'esame del C. fu quella delle misure di ritorsione da prendere contro i Cantoni svizzeri che, nonostante le pressioni della Spagna, avevano rifiutato di aderire a una proposta di alleanza: in una relazione al governatore, il C., rilevata l'impossibilità di giungere a un accordo, si faceva sostenitore della opportunità di inviare nella Confederazione elvetica un residente; dato che gli Svizzeri godevano di facilitazioni commerciali negli scambi con lo Stato di Milano, al rappresentante diplomatico non sarebbe stato difficile attuare una politica flessibile, basata su un oculato dosaggio delle concessioni in funzione degli interessi spagnoli.
Ma il problema che avrebbe maggiormente impegnato il C. durante il suo mandato fu indubbiamente quello delle contese con l'autorità ecclesiastica in materia di giurisdizione.
Con l'arrivo, nel 1565, dell'arcivescovo Carlo Borromeo nella diocesi ambrosiana era stato dato l'avvio alla sistematica applicazione dei canoni tridentini: proprio per garantire i risultati della sua azione riformatrice, il cardinale aveva rivendicato il libero uso dei propri poteri giurisdizionali sul clero e, in determinati casi, anche sui laici. Ma siccome, per l'incuria e l'assenteismo dei predecessori del Borromeo, tali poteri da tempo non venivano più esercitati, tanto che il Senato di fatto se n'era arrogato una parte, non stupisce che la maggiore opposizione alle proprie rivendicazioni l'arcivescovo la dovesse incontrare nel supremo organo dell'amministrazione lombarda. L'atteggiamento del Senato non era ispirato da tiepido sentire in materia di religione: non lo era certamente per il C., che ancora nel 1562 figurava nell'elenco dei benefattori dei barnabiti e che, l'anno successivo, era intervenuto presso l'arcivescovo, in quel momento residente a Roma, affinché favorisse lo stabilimento dei gesuiti a Milano. Oltre che dalla doverosa esigenza di difendere i diritti del sovrano di fronte alle pretese della Chiesa, la reazione dell'alto consesso milanese era dettata anche dalla consapevolezza che la tutela di quanto esso considerava prerogativa propria si identificava con la salvaguardia di quelle autonomie tradizionali che sopravvivevano ancora sotto la dominazione spagnola. E di ciò si sarebbe avuto conferma più tardi, allorquando, nel vivo delle controversie, il governatore farà giungere in Spagna le proprie lamentele per il libero procedere del Senato, colpevole di avere preso iniziative all'insaputa della suprema autorità politica dello Stato.
Nelle controversie, che lo vedranno coinvolto in prima persona, il C. cercò di mantenere una posizione moderata. Così, quando nel dicembre del 1566, il tribunale ecclesiastico veniva ad essere paralizzato in seguito all'intimazione di un precetto mediante il quale il capitano di giustizia vietava gl bargello arcivescovile di procedere alla cattura di laici, il C. si fece promotore di una soluzione di compromesso: in attesa che l'arcivescovo ottenesse dal papa un breve che gli consentisse di disporre di sbirri armati, il Senato concedeva l'impiego di essi per l'esecuzione delle sentenze contro gli ecclesiastici, purché in cause non patrimoniali; nei confronti dei laici e nelle cause patrimoniali dei chierici, il cardinale doveva invece chiedere l'intervento del braccio secolare. Il compromesso, che inizialmente sembrava avesse buone possibilità di essere accettato, non ebbe seguito, anche perché, nel frattempo, l'arcivescovo aveva ricevuto istruzione dal papa di mantenersi nel possesso dei suoi diritti, in attesa che sul problema fosse presa una decisione definitiva.
Mentre a Roma la questione veniva esaminata da un'apposita commissione cardinalizia, il C. interponeva, nell'aprile del 1567, i suoi buoni uffici per mitigare le reazioni ostili delle monache di S. Marta e dei loro parenti di fronte alla riforma dei monasteri alla quale il cardinale attendeva; in seguito all'intervento del C. e del governatore, l'arcivescovo accettava di attenuare alcune delle disposizioni più severe.
Un nuovo, più grave contrasto si verificava nel luglio successivo: l'arresto di un concubinario di Gallarate, tale A. M. Castiglione, operato dal bargello arcivescovile, aveva suscitato l'immediata reazione del Senato, che faceva catturare l'ufficiale del tribunale ecclesiastico e gli faceva infliggere pubblicamente la pena di tre tratti di corda. Al provvedimento del Senato il cardinale replicava con misure altrettanto rigorose: scomunicava gli esecutori materiali della pena e citava a comparire dinnanzi al proprio tribunale coloro che avevano pronunciato la condanna, fra i quali ultimi il C. come presidente del Senato, sebbene questi gli avesse fatto sapere di non avere avuto parte nella decisione. I provvedimenti dell'arcivescovo venivano successivamente confermati da Pio V, che anzi intimava ai senatori di comparire personalmente nella Curia romana.
La questione per allora poté essere composta senza che il C. e gli altri senatori si recassero a Roma, anche perché Filippo II, fermamente deciso a difendere il Senato, aveva annunciato l'invio di un ambasciatore dalla Spagna. Ormai, però, i rapporti tra potere laico e potere ecclesiastico erano entrati in una fase di tensione: altri contrasti, infatti, sarebbero avvenuti in seguito alla pubblicazione, da parte dell'arcivescovo, della bolla In Coena Domini (pentecoste del 1568) e in occasione dell'ordine, emanato pochi giorni dopo, con il quale l'autorità civile vietava alla famiglia armata dell'arcivescovo di partecipare alla processione del Corpus Domini. In questi conflitti, però, il C. non sarebbe più stato coinvolto personalmente.
Morì a Milano il 22 febbr. 1569 e fu sepolto nella tomba che si era fatto preparare due anni prima nella chiesa di S. Marco.
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