CAPODILISTA, Gabriele
Nacque intorno alla seconda decade del sec. XV a Padova da Giovan Francesco, che per più di quaranta anni insegnò diritto civile e canonico in quell'università, e da Margherita di Nascimbene da Rodi. Fece i suoi studi nella città natale, e non ci sono elementi per avvalorare la supposizione di R. J. Mitchell che li abbia completati a Bologna o a Parigi.
A Bologna, infatti, il C. non venne ordinato prete, come la studiosa ritiene fraintendendo il Vedova, il quale scrive invece che vi "coprì il carico di pretore"; e la preziosissima reliquia della circoncisione di Cristo che egli visitò nel 1440 non si trovava nella cattedrale parigina, bensì a Notre-Dame di Puy, in Alvernia, perciò cade il legame erroneamente istituito con la città della Sorbona. Comunque le ricerche condotte dalla studiosa inglese negli atti bolognesi non hanno portato al ritrovamento di una sua laurea o di testimonianze di un soggiorno nella città, e in quanto al viaggio in Francia si ha soltanto la notizia alla quale abbiamo accennato.
Negli anni della giovinezza il C. fu per un lungo periodo al servizio del cardinale Ludovico Scarampi Mezzarota, patriarca d'Aquileia e camerlengo della Chiesa, insieme col cugino e amico carissimo Antonio Capodilista, che aveva la funzione di auditore. Con l'alto prelato fu probabilmente nelle Marche, ma molto tempo dovette trascorrerlo a Padova, dove verso la metà del secolo la casata alla quale apparteneva manteneva costantemente molti dei suoi membri nelle massime magistrature e nel Consiglio della città. Nel 1446 prese in affitto, insieme con Giovanni de Castro, la posta delle ghiande dei boschi dell'abbazia di S. Eufemia di Villanova.
Meno per spirito d'avventura che per convinzione religiosa, nel 1458 intraprese un pellegrinaggio in Terrasanta. Il viaggio, al quale s'era determinato con "fermo proposito", mosse da Padova il 16 maggio, quando, accompagnato da un corteggio di parenti e di altri gentiluomini, il C. s'imbarcò per Venezia. Erano con lui un servitore, Tommaso, e il cugino Antonio. I pellegrini che il giorno dopo salirono insieme con loro sulla galera di Antonio Loredan furono un centinaio, ed era a bordo anche il capitano Roberto da Sanseverino, nipote di Francesco Sforza, il quale scrisse un racconto del viaggio così come l'inglese William Wey, che pero viaggiò sull'altra galera che faceva parte del convoglio.
La navigazione, che fu rallentata da venti contrari e da bonacce e per qualche giorno - a nord di Durazzo - da un violento fortunale, si snodò secondo l'itinerario consueto lungo le coste della Dalmazia e quindi da Cefalonia per Zante, Modone, Cerigo fino a Rodi. La galera procedeva a remi o a vela, con pochissime soste e si rinunciò anche a quella prevista a Candia, per la peste che vi infieriva. I ventiquattro giorni che occorsero per raggiungere Rodi da Venezia furono un tempo veramente ottimo. A bordo della "Loredana" i due nobili padovani avevano una posizione privilegiata non solo in virtù del proprio rango, ma anche per l'amicizia col conte di Worcester, John Tiptoft, che al ritorno dal pellegrinaggio si fermerà con loro a Padova per dedicarsi agli studi umanistici. Il C. era attentissimo alla distanza percorsa e alle ore impiegate e seguiva la rotta su una carta nautica, con tanta precisione da accorgersi di un errore del pilota. A Rodi il convoglio si fermò tre giorni e i due Capodilista furono ospiti del cardinale Scarampi Mezzarota, inviato in Levante come legato pontificio de latere.Ripresa la navigazione il 13 giugno, quattro giorni dopo il C. scese a terra nell'isola di Cipro con una dozzina di compagni, i quali s'ammalarono tutti per il clima malsano; alcuni di loro morirono e il gentiluomo padovano fu l'unico a rimanere indenne, "ma gli restò nel pecto e nel stomacho uno fectore che durò giorni XV". Le due galere arrivarono a Giaffa il 19 giugno, ma i pellegrini dovettero restare a bordo altri due giorni in attesa del salvacondotto.
Vestiti poveramente, non per umiltà ma per non esporsi ad estorsioni da parte degli Arabi, i pellegrini raggiunsero a dorso d'asino Gerusalemme e di là si portarono ad Ebron, a Samaria, a Nazareth, al lago di Tiberiade, percorrendo sulle vestigia del passaggio terreno di Cristo un cammino denso di preghiere e di intensa commozione lungo un itinerario ormai consacrato da antiche tradizioni. Essi sperimentarono gli insulti e le percosse degli Arabi, dormirono nelle grotte, furono contati e ricontati più volte come bestie, sottoposti a pedaggi. I luoghi santi apparivano in rovina e profanati dall'invadenza del culto maomettano. Compiuto il giro, al quale presiedeva un'organizzazione senza dubbio curata dagli appaltatori delle galere, il 3 luglio i pellegrini erano di nuovo a Giaffa, a bordo del convoglio, che partì due giorni dopo. L'8 luglio era a Saline di Cipro.
Qui, in compagnia del cugino, il C. approfittò della sosta per recarsi a Nicosia da Andrea Cornaro, zio di Caterina. Questi lo presentò al re, che allora si trovava nel convento nel quale solo pochi giorni dopo doveva trovare la morte. Giovanni II gli fece l'onore di concedergli la propria arma "apichandogela cum sue mani al pecto". Il 14 luglio le galere riprendevano il viaggio, il 22 erano a Rodi, il 4 ag. a Candia, dove i due Capodilista dimorarono per dieci giorni in casa di padre Antonio Querini, loro parente. Il 24 agosto il convoglio arrivò a Corfù, il 2 settembre a Zara, il 6 a Venezia, dopo un viaggio notevolmente più lungo di quello d'andata.
Il C. tornò subito a Padova, dove nel gennaio 1459 venne a trovarlo Roberto da Sanseverino, appena rimpatriato dal Cairo, il quale lo trovò infermo. L'anno dopo, il 12 maggio, il C. partecipò al Consiglio comunale e la vigilia di Natale conseguì il dottorato in diritto canonico. "Eques et comes", conduceva una vita splendida in un bel palazzo sulla strada per Abano, dedicandosi volentieri agli studi, come mostra un codice del Fons Memorabilium di Domenico Bandini conservato nella Bibl. Apost. Vaticana (Chig. G. VIII. 235), che reca una sua nota di possesso con un elogio della città di Padova, in cui sono citati Strabone e Alberto Magno.
Il 13 luglio 1465 è a Roma, dove Paolo II lo nomina senatore, con una solenne cerimonia. Rientrato a Padova, il 4 apr. 1470 fece testamento, lasciando la moglie Romea, figlia di Antonio Borromeo, usufruttuaria di una vasta proprietà fondiaria concentrata in gran parte nel territorio di Mandria. Podestà di Perugia dal settembre 1473, di questa sua attività si ricorda la vertenza per il furto dell'anello della Madonna, che rischiò di far scoppiare una guerra con Siena. La questione era ancora aperta quando egli esaurì il suo mandato nell'ottobre del 1475. L'anno seguente assumeva l'ufficio di senatore a Roma, e in tale veste confermava gli statuti dei mercanti di panni e dell'arte della lana. Lasciata la carica capitolina, nella quale gli successe Pietro Chitani, tornò a Padova, dove morì nel gennaio o ai primi di febbraio del 1477. Fu sepolto nella basilica di S. Antonio, nella cappella di S. Prosdocimo.
La fama del C. è affidata all'Itinerario in Terra Santa, nel quale sono raccolte le sue esperienze di viaggio, stampato a Perugia nel periodo in cui vi fu podestà.
Ne curò l'edizione un Paolo Boncambio, vincendo una certa ritrosia del C., che con lui era in cordiali rapporti. Il Boncambio ne fece la presentazione e aggiunse un carme latino alla Vergine, composto da Publio Gregorio Tiferno. L'operetta si conclude con una orazione al Redentore, in versi italiani. È ignoto il nome dello stampatore, che per il Gesamtkatalog der Wiegendrucke (VI, 6024) dovrebbe essere Johann Vydenast e compagni, ma altri propendono per Pietro da Colonia e Giovanni da Bamberga, o per Enrico Klayn o per Giovanni di Giovanni da Augusta. La Mitchell è dell'opinione che il libro, tra i primi o addirittura il primo uscito a Perugia, sia stato stampato dal Vydenast anteriormente al 15giugno 1475.
La sua struttura è comune a quella delle composizioni di questo tipo, che di regola avevano l'intento dichiarato di guide per altri pellegrini. Qui tale carattere è evidente nel taglio del racconto, dove le descrizioni, ricche di particolari topografici, s'alternano con le speciali preghiere da recitare nei luoghi santi (spesso introdotte dalla formula "qui dirai"), nei consigli pratici rivolti al buon cristiano che voglia intraprendere il viaggio, nella specificazione delle spese da sostenere. La traversata marittima è narrata seguendo uno schema più libero, ma anche in questa parte le indicazioni sulle distanze e sul tempo impiegato sembrano rispondere al desiderio di fornire una guida, o per lo meno una dimensione concreta della fase forse più tormentosa del pellegrinaggio; ciò forse spiega perché le notizie si limitino al viaggio d'andata, con l'inserimento di brevi accenni a due episodi del ritorno. Obbedendo alla medesima preoccupazione l'Itinerario include anche il pellegrinaggio al monte Sinai e in Egitto, il cosiddetto viaggio di S. Caterina, al quale il C. non partecipò. Come i testi consimili, esso deve aver avuto per base delle liste di indulgenze concesse nei vari luoghi santi e dei "processionali", con le preghiere e gli inni da cantare di volta in volta perché la "devotissima visitatione" fosse veramente efficace. Altre sue fonti sono state individuate nel Liber Secretorum di Marin Sanuto il Vecchio e nel viaggio di John Mandeville. Moltissimi passi sono identici al racconto del Sanseverino, ciò che fa pensare che tutti e due possano aver tratto profitto dallo stesso materiale o che un testo sia servito di modello all'altro. La Momigliano Lepschy ritiene che sia stato il C. a copiare, soprattutto nella sezione del Sinai e dell'Egitto, stesa dal Sanseverino su esperienza diretta, perché compì anche tale pellegrinaggio, ma basta un confronto anche rapido tra i due testi per mettere in chiaro come il racconto del capitano milanese, più ampio, più immediato, più spontaneo, sia servito al C. per compilare il suo in ogni sua parte, con qualche adattamento ed integrazione e inoltre con l'interpolazione di fronzoli eruditi che peraltro non sempre appaiono ben assimilati. Schematizzando al massimo si potrebbe dire che l'Itinerario del C. è costruito su un rimaneggiamento del Viaggio del Sanseverino, nel quale vengono incorporati dei brani di uno o più processionali. Anche la parte più propriamente diaristica, quella iniziale, fino all'arrivo a Gerusalemme, è debitrice al Sanseverino; essa lo ricalca pedissequamente, mutuandone la trama essenziale e discostandosene solo per qualche riferimento personale. La mancanza di una narrazione distesa del viaggio di ritorno potrebbe anche spiegarsi col venir meno del modello, che per essa non poteva essere utilizzato perché si riferiva a un itinerario differente.
L'operetta, dunque, come s'addice al suo carattere di guida per il viaggio in Terrasanta, è per buona parte copiata da compilazioni precedenti, con pochi spunti originali. Il sentimento del contatto col soprannaturale riesce talvolta a ravvivare la descrizione dei luoghi santi, pure così arida nel suo sforzo di minuziosa completezza. La Terrasanta era un paese troppo noto perché la narrazione del viaggio potesse sconfinare nel meraviglioso, ma del Mar Morto, descritto caliginoso, amaro, di colore mutevole, si dice che "à natura et effectu contrario a tutte le altre aque", perché mantiene a galla il ferro mentre lascia andare a fondo le piume. Il C. ha presente anche Plinio, che è citato per l'origine fenicia di Giaffa, ma poiché al centro del racconto è la localizzazione degli episodi evangelici, inseparabile dal miracoloso, anche nel pellegrinaggio narrato in queste pagine l'attesa di un segno divino viene appagata. È una sfera d'oro cadente dal cielo "cum grandis suavitade" per mostrare al C. e ad altri pellegrini, che stavano disputando circa il suo punto preciso, la collinetta sulla quale gli angeli annunciarono ai pastori la nascita di Gesù.
Il racconto del pellegrinaggio del C., dedicato alle monache di S. Bernardino di Padova, ebbe un'unica edizione a stampa, ma fu la fonte principale del fortunatissimo Viaggio in Terra Santa di Santo Brasca (Milano 1481, 1497, 1519), che vi attinse con larghezza, ricalcandone numerosi passi. I manoscritti che si conoscono sono quattro. Il più importante è certamente quello offerto dal C. al convento padovano di S. Bernardino, ora posseduto da un privato. Consta di cc. 78 ed è illustrato da una carta della Terrasanta, da una bella miniatura e da numerosi disegni. La Biblioteca nazionale di Parigi conserva due manoscritti della seconda metà del Quattrocento (It. 2121 e 896), ilsecondo probabilmente copia dell'edizione a stampa, perché ne riproduce gli errori. Il quarto manoscritto, del British Museum (Add. 17481), è una copia cinquecentesca abbreviata. L'opera è stata recentemente ristampata a cura di A. L. Momigliano Lepschy, Santo Brasca - Viaggio in Terrasanta,1480,con l'Itinerario di G. C., Milano 1966; l'edizione ha per base quella a stampa del 1475, ma tiene conto anche dei manoscritti.
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