futuro
Il futuro (o futuro semplice) è un tempo verbale dell’➔indicativo (➔ coniugazione verbale) con cui si esprimono azioni o eventi successivi al momento in cui si emette l’enunciato (tecnicamente, il momento dell’enunciazione):
(1) domani farà bel tempo
(2) ci sposeremo presto
Il futuro semplice ha inoltre vari usi modali (➔ modalità), anche non riconducibili all’idea di posteriorità cronologica.
Gli eventi che si collocano nel futuro hanno uno status nozionale piuttosto variegato (Dahl 2000). Si caratterizzano infatti come eventi futuri le intenzioni, cioè le azioni e gli stati di cose non ancora realizzati e che sono il prodotto della volontà del soggetto, le predizioni, che riguardano avvenimenti che sfuggono al controllo del soggetto, e gli eventi pianificati. Questa differenziazione cognitiva si riflette variamente sulle strutture linguistiche impiegate per codificare l’idea di futuro. In alcune lingue esistono mezzi appositi per esprimere intenzioni, predizioni e pianificazioni: in inglese, ad es., per codificare eventi prodotto di intenzioni o predizioni, si ricorre alla perifrasi will + infinito, mentre per esprimere eventi futuri pianificati è preferito l’uso del presente (I will leave Rome «lascerò Roma / ho l’intenzione di lasciare Roma»; (the train leaves at noon «il treno partirà alle 12,00 / è in programma che il treno parta alle 12,00»).
In molte lingue non esiste una forma verbale sintetica riservata all’espressione di eventi futuri: nelle lingue europee il futuro flessivo si trova in area romanza (accanto a vari tipi di futuri perifrastici), mentre nelle lingue germaniche, in quelle ugro-finniche e nella maggior parte delle lingue slave la referenza temporale futura è espressa mediante perifrasi diverse. Anche le lingue che hanno un futuro sintetico possono inoltre ricorrere ad altri mezzi per riferirsi a eventi non ancora accaduti: il francese ha, per es., come lo spagnolo, un futuro immediato: formato da aller + infinito (je vais partir «parto tra poco»).
Il futuro sintetico italiano, come quello delle altre lingue romanze, deriva dalla perifrasi habeo + infinito («avere (da) infinito»), che nel latino volgare e più spesso nel latino tardo aveva iniziato a sostituire la forma sintetica (amābo «amerò», amābis «amerai»). In latino i principali mezzi per la codifica di eventi successivi al momento dell’enunciazione sono il futuro sintetico e la perifrastica attiva (participio futuro + esse). Invece la perifrasi habeo + infinito aveva originariamente un valore modale e più specificatamente deontico; indica, cioè, un dovere o un obbligo:
(3) habeo etiam dicere quem contra morem maiorem […] de ponte in Tiberim deiecerit
«devo anche citare il caso di uno che egli, contrariamente al costume dei nostri antenati, gettò giù da un ponte nel Tevere» (Cicerone, Pro Sex. Roscio Amerino, XXXV, 100)
Quest’uso, non attestato nel latino classico prima di Cicerone e Lucrezio, è più frequente negli autori cristiani; si tratterebbe dunque di un colloquialismo (Fleischman 1982: 52). Il fatto che la perifrasi si concentri in contesti caratterizzati dalla compresenza dei tratti dell’obbligo e dell’orientamento futuro determina il fissarsi di un valore temporale. Tale fenomeno interessa tutte le lingue romanze, a eccezione del romeno (che sviluppa il futuro analitico voi cînta da volo cantare) e del sardo (in cui il futuro deppo cantare deriva da debeo cantare). Nei dialetti dell’Italia meridionale invece la perifrasi con habeo ha dato luogo a un futuro sintetico autoctono, il cui uso sarebbe poi regredito a causa della concorrenza di altre formazioni futurali (Loporcaro 1999; cfr. § 4).
Nel latino tardo la perifrasi habeo + infinito sostituisce dunque il futuro sintetico (cantābo), la cui progressiva scomparsa è dovuta alla scarsa chiarezza morfologica della forma: la marca di futuro è infatti -b- nelle prime due declinazioni latine (cantābit; tenēbit), ma è la vocale -e- nelle altre (perdet «perderà»; dormĭet «dormirà»). Con la perdita della distinzione tra i ed e brevi atone la terza persona del futuro perdet e quella del presente indicativo perdit non si distinguono più (Maiden 1998: 168). Il passaggio da /b/ a /v/ avrebbe inoltre condotto a una piena sovrapposizione tra le forme del perfetto e dell’imperfetto e quelle del futuro (D’Achille 2001: 97).
Relitti del futuro sintetico latino ricorrono sporadicamente nei testi settentrionali antichi, dove eran «saranno» ed er «sarà» continuano ĕrunt ed ĕrĭt del latino classico. In toscano antico erano previste forme suppletive (➔ suppletivismo) di futuro derivate dal lat. fĭeri «divenire»: fia / fie «sarà», fiano / fieno «saranno». Tali forme si sono conservate nella lingua poetica fino a tutto l’Ottocento (Serianni 2009: 230).
Le prime attestazioni della fusione dei due elementi della perifrasi in una forma sintetica datano tra VI e VII secolo d.C. Nella Cronica di Fredegario si legge:
(4) Et ille respondebat: “non dabo”. Iustinianus dicebat: “daras”. Ob hoc loco illo, ubi haec acta sunt, civetas nomen Daras fundata est iusso Iustiniano quae usque hodiernum diem hoc nomen nuncopatur
«e quello rispondeva: “non darò [le province]”. Giustiniano diceva: “[le] darai”. Per questo nel luogo dove avvenne questo scambio fu fondata per ordine di Giustiniano una città che fino ad oggi conserva questo nome»
(Fredegario, Chronicarum II, 62, 32-35)
In questo passo la forma agglutinata daras (da dare habes) codifica un futuro con valore iussivo.
Nei Giuramenti di Strasburgo, una delle più antiche testimonianze scritte del volgare in area francese (843), compaiono le forme prindrai «prenderò» e salvarai «assisterò».
La fusione sembra avvenuta secondo la seguente trafila (Nocentini 2001):
(a) in un primo momento si determina l’inversione dei due elementi della perifrasi: l’infinito viene preposto all’ausiliare (habeo cantare > *ayo cantare > *ao cantare > cantar *ao). Lo spostamento, che non avviene nelle perifrasi che danno luogo al passato composto (habeo cantatum), indicherebbe che l’ausiliare, in seguito alla sua evoluzione fonetica, è percepito come semiclitico; come tale deve, in posizione iniziale di frase, seguire la parola a cui si lega;
(b) in un secondo momento si determina un aggiustamento prosodico: l’accento principale si sposta sull’ausiliare (*cantàr ào > cantarào > cantarò).
Lo stesso processo interessa la formazione del ➔ condizionale sintetico derivato dall’infinito e dal perfetto (o in alcune aree dall’imperfetto) di habeo (habui cantare > cantare *hebui > cantare *ei > canterei); in questo caso da un significato deontico collocato nel passato «ebbi a cantare / dovetti cantare» si origina un valore di futuro nel passato, che assume in seguito un valore modale ipotetico (Fleischman 1982: 57-66).
Nella perifrasi avere ha progressivamente assunto il ruolo di marca flessionale, per un processo di ➔ grammaticalizzazione. In italiano tale processo ha determinato una serie di cambiamenti fonetici: molto frequente è la sincope della vocale protonica nell’ambito della radice verbale, seguita in alcuni casi da assimilazione consonantica: *vederò > vedrò; *venirò > *venrò > verrò. In modo asistematico la /a/ della radice verbale si trasforma in /e/ davanti a /r/: cantarò > canterò (in starò e darò la /a/ si conserva probabilmente per analogia con le forme del presente; lo stesso accade sistematicamente in spagnolo).
In italiano antico, in cui il verbo avere prevedeva una prima persona alternativa (aggio), ricorrono anche le forme faraggio, averaggio. In antico senese compaiono forme in -abbo (dirabbo, farabbo).
Nei dialetti il futuro sintetico mostra una morfologia differente per via delle diverse forme del presente del verbo avere. Negli antichi volgari settentrionali la prima persona ajo dà luogo alle desinenze -ai (ant. lombardo farai «farò») ed -è (ant. padovano anderè «andrò»). A partire dal Settecento si diffondono però le desinenze toscane (le desinenze antiche si conservano tuttora in alcune aree del Piemonte, nei dialetti istriani e nelle zone ladino-friulane dolomitiche).
Il futuro semplice italiano mostra diversi valori in cui temporalità e modalità giungono spesso a sovrapporsi. Usi e funzioni del futuro possono essere classificati mediante una prima distinzione tra usi deittici e usi non deittici (epistemico e retrospettivo).
Si ha un uso deittico quando il futuro è usato per riferirsi a eventi futuri: un dato avvenimento è localizzato in un momento successivo rispetto a quello rappresentato dal momento dell’enunciazione. Il futuro può essere impiegato con valore temporale assoluto o assumere, in corrispondenza dell’idea di ‘futurità’, varie sfumature modali.
3.1.1 Il futuro temporale. Designa accadimenti puramente eventuali perché non si sono ancora verificati nel momento in cui l’enunciato è prodotto:
(5) tra un mese sarà Natale
(6) domani aprirà un nuovo centro-commerciale
Da un punto di vista aspettuale (➔ aspetto) il futuro tende ad assumere valore pienamente perfettivo: viene infatti sottolineato il punto finale dell’evento, che è considerato complessivamente:
(7) domani i bambini andranno al mare
In altri contesti il futuro ha una sfumatura imperfettiva: il processo verbale viene considerato dall’interno e la sua conclusione rimane indefinita. Quando ha valore imperfettivo il futuro semplice può esprimere una sfumatura abituale, progressiva o continua:
(8) ogni martedì Luca frequenterà il corso di tedesco
(9) quando arriverai a casa, i bambini dormiranno [«staranno dormendo»]
(10) a partire dal prossimo anno saranno istituiti corsi di inglese per bambini
Non si osservano restrizioni rispetto alla distanza temporale che separa il momento dell’enunciazione dall’evento. Il futuro può infatti esprimere un’idea di futurità immediata:
(11) Qualunque cosa accada, desidero che non me ne parlino prima di domani sera. Domani riposerò tutto il giorno, sono stanca (Massimo Bontempelli, Vita e morte di Adria e dei suoi figli, p. 27)
come anche un futuro remoto:
(12) La sfida per il futuro è quella di continuare a seguire l’evoluzione del web: «Tra dieci anni internet sarà diverso da qualunque cosa possiamo immaginare» («La Repubblica» 21 maggio 2010)
Tuttavia, nel parlato, il futuro immediato è più spesso reso con il presente o con altre perifrasi (cfr. il § 4). L’esistenza di un’ampia distanza temporale è uno dei parametri che più favoriscono il ricorso al futuro, almeno nelle varietà colloquiali (Bazzanella & Wiberg 2002: 55).
Il futuro semplice può comparire nella protasi e nell’apodosi di periodi ipotetici della probabilità (➔ periodo ipotetico):
(13) se andrai a Parigi, potrai visitare il Louvre
Il futuro rimanda qui a due eventi, legati tra loro da un rapporto di implicazione, non ancora realizzatisi nel momento dell’enunciazione.
3.1.2Il futuro volitivo. L’uso deittico del futuro è compatibile con l’espressione di varie sfumature modali. Il futuro può indicare l’intenzione da parte del parlante di compiere una data azione (che è in ogni caso successiva rispetto al momento dell’enunciazione):
(14) – Scusa, potresti chiedere a Maria se va a prendere il caffè?
– Non ti preoccupare: più tardi ci andrò io
Nella seconda battuta dell’es. (14) il parlante manifesta la propria volontà di assumersi un compito.
3.1.3Il futuro iussivo. Si può ricorrere al futuro anche per esprimere ordini o ingiunzioni (un tipico esempio è rappresentato dal secondo comandamento: non avrai altro Dio all’infuori di me). Il futuro può avere una carica iussiva molto elevata, simile a quella dell’➔imperativo:
(15) Mendel Singer diresse lo sguardo dalla finestra alla stanza e disse al figlio: «Ci darai subito notizie di te, appena puoi, non dimenticarlo!» (Joseph Roth, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, p. 58)
Un fenomeno simile è rappresentato dal futuro deontico, con il quale si sottolinea l’obbligatorietà di una prescrizione. Questo tipo di futuro ricorre molto spesso nei testi giuridici, burocratici e amministrativi:
(16) i trasgressori pagheranno una multa di cinquanta euro.
3.1.4Il futuro attenuativo. Il parlante può decidere di collocare un evento nel futuro per mitigarlo (➔ mitigazione), frapponendo «una distanza psicologica tra l’enunciazione e la realizzazione di un fatto» (Serianni 19912: 474) in modo tale da attenuare un’affermazione. Tale uso rientra tra i fenomeni pragmatici di cortesia (➔ cortesia, linguaggio della):
(17) ammetterai che il tuo atteggiamento è stato fuori luogo
Il fenomeno, presente nella prosa argomentativa e nella narrativa, assume spesso carattere formulare e ricorre soprattutto in incisi o tra parentesi (➔ incidentali, frasi; ➔ parentetiche, frasi):
(18) Essi [i figli di Israele] ci devono guardare un po’ come degli stranieri, che vivono loro d’attorno: come dei caproni […] E alla compagnia di questi caproni finiscono, non dirò per affezionarsi, ma per assuefarsi (Carlo Emilio Gadda, Racconto italiano di un ignoto del Novecento, p. 185)
Un valore attenuativo si riscontra anche nell’esempio seguente, ove il futuro connota una affermazione, una definizione o una denominazione come non del tutto soddisfacente:
(19) Il processo simbolico che chiameremo con termine approssimativo sessualizzazione della natura è fenomeno di vastissima portata (Guido Almansi, L’estetica dell’osceno, p. 143)
Sono da segnalare per il loro valore pragmatico anche alcune espressioni formulari caratterizzate dal ricorso al futuro semplice, come ti dirò, capirai, vedrai, si vedrà (➔ intercalari). La formula ti dirò rappresenta un segnale discorsivo (➔ segnali discorsivi) di apertura, che preannuncia il compimento di un atto linguistico. Tale segnale ha spesso la funzione di avvisare l’interlocutore che si sta per dire qualcosa di contrario alle sue aspettative:
(20) – Pensi di andare alla festa di Luca?
– Ti dirò, non ne ho proprio voglia
Appare cristallizzata anche la formula capirai, frequente nella conversazione spontanea. A seconda del contesto in cui appare e dell’intonazione con cui è pronunciato capirai ha diversi valori. Il parlante vi può ricorrere per rafforzare la validità delle proprie affermazioni, dando per scontato l’accordo dell’interlocutore (Spitzer 2007: 149):
(21) – Ti spiego il movimento – diceva: – è un’azienda in grande, compravendita di automobili, denaro che va, denaro che viene, grosse combinazioni. I privati, capirai, quelli si prendono per il collo. Si compra a cinque e si rivende a dieci (Alba de Cèspedes, Nessuno torna indietro, p. 90)
In altri contesti, capirai è piuttosto un’esclamazione, che di volta in volta può segnalare stupore, ironia, disprezzo o essere impiegata come espressione di sufficienza. Essa è tipica del parlato romano:
(22) – Ho vinto due euro con il gratta e vinci. – Capirai!
In molti casi il futuro non istituisce un rapporto di posteriorità rispetto al momento dell’enunciazione (non è dunque deittico), ma esprime «una qualche soggettiva deduzione del parlante circa la situazione presente» (Bertinetto 1986: 491). Tale impiego è definito solitamente epistemico. Il futuro nell’es. che segue:
(23) mio marito non ha pranzato: avrà fame a quest’ora
consente di esprimere inferenze o congetture su un determinato evento. Mediante il futuro il parlante segnala il proprio atteggiamento rispetto al contenuto della frase, qualificandolo come una supposizione.
L’uso del futuro epistemico è maggiormente compatibile con verbi stativi, che indicano un processo persistente. Con verbi non stativi la lettura epistemica non è esclusa, ma deve essere in genere rafforzata da un segnale contestuale. Nell’es. (24) il verbo parentetico (credo) e la determinazione temporale indicano che il processo verbale è contemporaneo al momento dell’enunciazione e che rappresenta una supposizione del parlante:
(24) in questo momento fuori comincerà a piovere, credo
Molto spesso il futuro epistemico esprime un’approssimazione rispetto a una quantità:
(25) Il castello non è lontano dal borgo. Saranno tre chilometri
L’uso epistemico del futuro è attestato già nell’italiano antico (Ageno 1965):
(26) Il portinaio andò a l’abate e disse: – Alla porta è giunto uno pellegrino che dice che ha gran bisogno di favellarvi – L’abate, ciò udendo, dice: – Sarà qualche gaglioffo che vorrà limosina (Sacchetti, Il Trecentonovelle CCXII, 4, p. 746)
Secondo alcuni studiosi (Bertinetto 1986: 495-498) la precocità degli usi epistemici del futuro nella storia dell’italiano, la loro maggiore frequenza nel parlato rispetto agli usi deittici nonché l’origine modale del futuro italiano e romanzo indicherebbero che nella semantica del futuro il valore modale sia centrale, mentre il valore temporale sarebbe derivato e secondario. Secondo altri (Fleischman 1982: 154) la lettura epistemica si sarebbe sviluppata soltanto dopo il fissarsi dell’accezione propriamente temporale, secondo il percorso obbligo → valore prospettivo → futurità → probabilità / volizione / mitigazione.
Può essere avvicinato al futuro epistemico, anche se se ne distanzia sotto vari aspetti, il cosiddetto futuro concessivo (Berretta 1997):
(27) La cosa più bella sembra lo schermo: finalmente via lo sfondo così nero che sarà anche chic ma alla fine stufa («La Repubblica» 16 giugno 2010)
Nell’es. (27) all’iniziale accordo (sarà anche chic) segue un contro-argomento (ma alla fine stufa). Usando il futuro, il parlante indica l’ammissibilità di un certo stato di cose e al tempo stesso prende le distanze da quanto affermato, minimizzandone l’importanza. Ciò che differenzia il futuro epistemico da quello concessivo è il fatto che quest’ultimo esprime un contenuto proposizionale che appartiene al discorso altrui o a conoscenze enciclopediche e di cui dunque il parlante non si assume in prima persona la responsabilità (Rocci 2005: 288).
Questo tipo di futuro, chiamato anche futuro degli storici, ha valore temporale: contribuisce infatti a localizzare un evento lungo l’asse cronologico. Tuttavia, a differenza del futuro temporale deittico, segnala che un evento è posteriore non al momento dell’enunciazione, ma a un momento di riferimento contenuto nell’enunciato stesso. Il futuro retrospettivo istituisce insomma una relazione di posteriorità anaforica:
(28) La risposta non può essere che una sola: la Germania stava vincendo la guerra e Hitler attendeva con calma la resa dell’Inghilterra; come di lì a poco avrà quella della Francia e del Belgio (Lucio Villari, L’insonnia del Novecento. Le meteore di un secolo, p. 170).
L’uso del futuro in senso temporale è piuttosto ridotto nel parlato colloquiale (Berruto 19984). I valori temporali, modali e aspettuali del futuro sono infatti realizzati ricorrendo ad altri strumenti.
Uno di questi è il cosiddetto presente pro futuro (domani vado al mare), il cui uso è favorito dalla presenza di un’indicazione temporale, dal riferimento a una situazione pianificata (le cui basi sono già state poste al momento dell’enunciazione) e dal sussistere di un’idea di intenzionalità. Il futuro può essere sostituito anche da vari tipi di perifrasi: in particolare l’idea di futuro immediato è affidata spesso alla perifrasi imminenziale (sto per andare al bar; ➔ perifrastiche, strutture). Negli usi iussivi e deontici il futuro alterna con la perifrasi dovere + infinito: devi impegnarti molto per superare l’esame. Negli usi futurali con sfumatura volitiva è possibile ricorrere al costrutto volere + infinito: voglio andare in vacanza la prossima settimana.
Le perifrasi futurali abbondano soprattutto nei dialetti, dove evolvono da costrutti già presenti nel latino volgare tardo, occupando lo spazio lasciato vuoto dal futuro sintetico. Sono frequenti in particolari le perifrasi:
(a) devolitive (da volo + infinito), presenti in alcuni dialetti settentrionali (ticinese al völ mandà «lo manderò»; ant. milan. lo pe ghe vol fì tronco «il piede gli sarà amputato», Bonvesin da la Riva, Vulgare de Elymosinis, 513, p. 46);
(b) deobbligative (da debeo + infinito o habeo ad [o de] + infinito): oltre al caso del sardo (cfr. § 2) si possono citare le forme diffuse nei dialetti meridionali, ma anche nel toscano popolare, come ho a scrivere, aggiu a fare, ecc., che costituiscono il tipo di futuro più diffuso.
Da segnalare infine la perifrasi imminenziale essere per, diffusa in italiano antico, ma oggi limitata alle varietà dialettali: sono per uscire.
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