Funzione socio-antropologica della choreia: danze di guerra/danze di pace
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Espressione di un contesto sociale e culturale che essa contribuisce a modellare, la danza nella Grecia antica è un’esperienza centrale in cui i valori della comunità sono definiti, condivisi, tramandati. Attraverso un’analisi socio-antropologica delle fonti antiche è possibile cogliere il ruolo che il movimento ritmico del corpo assume in relazione ad esperienze fondamentali quali la guerra, il culto delle divinità, la formazione del carattere.
Il quadro della danza greca antica è tratteggiato da numerose testimonianze – letterarie, epigrafiche, iconografiche – che fissano, nella stasi di un testo scritto o di una immagine, quello che un tempo fu movimento e azione. Riportare la danza antica alla sua dimensione dinamica è stato l’obiettivo specifico di studi che hanno tentato di ricostruire la successione dei movimenti sulla base delle testimonianze iconografiche, interpretando le singole immagini come fotogrammi di un movimento continuo e classificandole secondo le categorie della moderna danza. Per altra via, allargando lo sguardo a comprendere il maggior numero possibile di testimonianze e ponendo sempre estrema attenzione al contesto sociale e culturale, si è tentato di ridare spessore alla danza greca antica ricostruendo significati e valori espressi dai movimenti. In questa prospettiva socio-antropologica la danza è analizzata come strumento di creazione, condivisione e trasmissione di valori collettivi.
L’alta presenza di esperienze coreutiche nell’antica Grecia e la loro importanza nella vita individuale e collettiva sono aspetti ben documentati. Le testimonianze descrivono una cultura in cui si danza per eventi come la nascita e la morte, il matrimonio, la vendemmia, le iniziazioni religiose e sociali; si danza a teatro, a simposio e nelle palestre; danzano bambini, giovani e meno giovani, professionisti e dilettanti, persone e animali, divinità e astri. Le grandi espressioni letterarie dell’antica Grecia, come la lirica corale e la tragedia, sono anche espressioni coreutiche, essendo caratterizzate da una compenetrazione di parole, musica e danza. Tradizioni e costumi locali intervengono a diversificare e moltiplicare occasioni e contesti, disegnando una geografia degli eventi coreutici in cui il gesto fisico è inseparabile dallo sfondo sociale e culturale in cui prende forma.
Nelle fonti antiche la danza (orchesis) è talvolta definita, in maniera molto semplice, “un movimento del corpo”, come tale è considerata parte della ginnastica; ma sono i suoi contenuti e le sue possibilità espressive a definirla essenzialmente, differenziandola dagli altri movimenti del corpo.
La danza ha potere mimetico: può rappresentare “i caratteri, le passioni e le azioni” (Aristotele, Poetica, 1447a 27). Per farlo si serve degli schemata, le “figure” della danza: unità espressive che possono coinvolgere tutto il corpo così come minime parti, per esempio le mani. “Gli schemata che mi ha dato la danza sono tanti quante le onde create da una notte di tempesta nel mare”, dice il poeta tragico Frinico secondo Plutarco (Questioni conviviali, 8, 9, 732f), evidenziando quantità e varietà delle “figure” coreutiche.
A metà tra il mimetismo sonoro della mousike e quello figurativo delle arti plastiche, la danza trasforma lo spazio fisico dei movimenti corporei in luogo di espressione e condivisione di valori sociali ed etici. Platone nelle Leggi lo afferma in maniera suggestiva: la danza nasce dalla tendenza propria di ogni animale a muoversi, ma solo l’essere umano, avendo ricevuto dagli dèi il senso del ritmo e dell’armonia, può trasformare il movimento scomposto in danza (653d-654a). Questa visione antropocentrica che non riconosce agli animali – peraltro considerati provetti ballerini da altre fonti antiche – la capacità di danzare, si spiega nel contesto della riflessione platonica sulla musica, che intende quest’arte come un’esperienza propria di quella parte della psiche che è a un tempo la più umana e la più divina: la ragione. Nelle Leggi la choreia, la danza corale, perfetta fusione di parole, melodia e movimenti del corpo, è donata dagli dèi agli uomini perché possano acquisire, in maniera piacevole, una giusta condotta: essere ben educati significa aver fatto propri i contenuti di una danza in cui il gesto fisico più elegante e bello coincide perfettamente con quello che esprime alti valori etici (654ac). Nel settimo libro delle Leggi, Platone divide le danze, in base al loro contenuto etico-estetico, in danze nobili, espressione di atteggiamenti belli, e danze ignobili, manifestazione di comportamenti spregevoli. Il primo gruppo è diviso in danze di guerra e danze di pace, rappresentate rispettivamente dalla pirrica e dall’emmeleia. Queste sono le danze che caratterizzano l’educazione, le esperienze religiose e la vita civile di ogni individuo nello stato immaginato da Platone, infondendo l’una il coraggio, l’altra la temperanza.
La classificazione presente nelle Leggi, benché chiaramente ispirata a particolari principi politici e filosofici, può fornire un utile schema per orientarsi all’interno dell’articolato quadro delle danze greche. Ponendo enfasi sulla funzione della danza nella società e sulle modalità con cui le varie forme coreutiche possono contribuire a modellare l’individuo e la collettività, essa si rivela particolarmente interessante in una prospettiva socio-antropologica.
Alla categoria della danza armata (enoplios orchesis) sono riconducibili numerose forme coreutiche assai diverse tra loro, per contesti di esecuzione, significati, movimenti.
La più famosa è la pirrica (pyrrhiche) ma, a dispetto della sua fama, la danza armata per eccellenza presenta tratti non facilmente definibili, a causa della quantità e diversità di caratteristiche che le testimonianze le attribuiscono. Danza dal marcato carattere marziale – secondo una delle tante etimologie, il nome deriverebbe da Pirro Neottolemo, il quale per primo l’avrebbe danzata attorno al cadavere del nemico Euripilo –, essa è parte del curriculum educativo dei giovani a Sparta e ad Atene; ma è anche danza che accompagna riti di transizione, da uno stato sociale a un altro, da un’età a un’altra: particolarmente significativo, in tal senso, è il suo legame con il culto di Artemide, divinità guerriera che presiede all’ingresso dei giovani nel mondo adulto. La pirrica, però, è anche associata al culto di Dioniso, come è testimoniato dalle rappresentazioni vascolari di satiri armati che danzano o di danzatori di pirrica armati di tirsi, anziché di lance.
Il volto dionisiaco della pirrica, accanto al suo aspetto schiettamente militare e al suo ruolo nei riti di transizione, mostra bene come tale danza sia veicolo di un ampio spettro di significati e come le sue caratteristiche specifiche dipendano dal contesto nel quale è eseguita, dalla musica che la accompagna, dall’identità dei danzatori.
Al di fuori della categoria delle danze armate, si registrano numerose danze, note in alcuni casi soltanto per nomi che lasciano immaginare bizzarre performances: la “danza del prurito” (knismos), la “danza dei gomiti” (epankonismos), la “danza del cesto” (kalathiskos). Nelle Leggi Platone fa riferimento anche a un terzo gruppo di danze, le quali, non rientrando in nessuna delle categorie individuate e sfuggendo a qualsiasi altro principio di classificazione, finiscono ai margini dello Stato: si tratta delle danze bacchiche, categoria ben documentata dalle fonti antiche.
All’ambito dei riti dionisiaci è da ricondurre l’oreibasia (letteralmente “l’andare per i monti”), sorta di frenetica danza processionale in cui le Menadi si aggirano per le montagne brandendo torce o tirsi, al suono dell’aulos e di strumenti a percussione, come i tympana. Consacrato a Dioniso è anche il ditirambo, canto e danza rituali destinati a dar vita poi a un vero e proprio genere letterario; concorsi di ditirambo hanno luogo ad Atene in occasione delle Grandi Dionisie, durante le quali si fronteggiano imponenti cori di 50 elementi che cantano e danzano al suono dell’aulos. Un breve e interessante elenco di danze e un’idea del valore sociale ed etico riconosciuto al movimento del corpo emergono da un aneddoto narrato da Erodoto (Storie, VI, 129). L’ateniese Ippocleide avrebbe “danzato via il proprio matrimonio” esibendosi in danze sempre meno convenienti, alla presenza di Clistene di Sicione, padre della futura sposa: egli sarebbe partito da un’emmeleia, quindi avrebbe danzato, sopra una tavola, “figure” laconiche, attiche e infine, a testa in giù, una specie di cheironomia acrobatica. L’emmeleia (letteralmente “armonia, grazia”) è la danza caratteristica della tragedia, secondo diverse fonti antiche; ma il termine può riferirsi anche, più in generale, alle danze appropriate a determinati contesti sociali e religiosi, e in tal senso probabilmente lo impiega Platone nelle Leggi. Cheironomia, la danza delle mani, sembra indicare sia un codice espressivo della danza in generale sia una danza vera e propria. Movimenti delle braccia, delle mani e delle dita sono ampiamente sfruttati dalla danza greca che non pone enfasi sugli arti inferiori (si può danzare anche seduti), in questo mostrando analogie con altre tradizioni coreutiche come l’indiana e la giapponese. Il movimento ritmico ed espressivo delle mani assume un ruolo centrale nel percorso che porta la danza greca a trasformarsi, in età imperiale, in pantomima. Esito di una serie di cambiamenti partiti da lontano (IV sec. a.C.) e spesso avvertiti, dalle fonti che ce li descrivono, come espressioni di una progressiva decadenza, la pantomima, spettacolare esibizione in cui un’intera storia si dipana dalle abili movenze del danzatore-mimo, suscita disappunto in chi vi vede uno svilimento dell’arte coreutica e dei suoi valori. Agli occhi dei detrattori la pantomima, enfatizzando l’aspetto mimetico e spettacolare del gesto coreutico, mette in scena la dissoluzione dell’equilibrio formale tra musica, parole e movenze, caratteristico dell’antica choreia, e il rovesciamento dei valori educativi della danza, presentandosi come espressione affettata di costumi ben poco edificanti. È degno di nota che uno dei più famosi tentativi di sottrarla al discredito – quello di Luciano di Samosata nella sua opera Sulla danza – sarà condotto proiettando sulla pantomima gli antichi argomenti, soprattutto platonici, sulle virtù della danza.