fulgore (folgore)
È voce tipica del regno della luce, il Paradiso, dove compare 13 volte (per l'alternanza tra le due forme v. Petrocchi, Introduzione 433). Il termine indica infatti una luce abbagliante, assai viva; è frequentemente connesso con l'idea dello splendore che circonda le anime ed è espressione di beatitudine e di ardore di carità e di pietà: dall'ombra piena di letizia degli spiriti del cielo di Mercurio uscia un folgór chiaro (Pd V 108); e il folgór che cerchia le anime (XIV 55) esprime l'intimo loro letiziar (IX 70); anche gli angeli festanti sono ciascun distinto di fulgore e d'arte (XXXI 132). Ugualmente in XX 66, XXI 11, XXX 51.
Anche la Grazia divina si manifesta a D. con un f. che percuote la sua mente (XXXIII 141).
In rima con splendori, il termine fulgori riprende il valore del participio folgorate che si trova all'inizio del verso precedente in una specie di chiasmo figurativo con richiamo interno dell'immagine, in Pd XXIII 84 vid'io così più turbe di splendori, / folgorate di sù da raggi ardenti, / sanza veder principio di folgóri: tutta la vigorosa terzina rutilante di luce comunica il senso del divino che caratterizza l'atmosfera del Paradiso. Con uguale intensità luminosa in XXXII 144, in rima con primo amore, il termine indica il raggio in cui esso si manifesta e risalendo il quale D. penetra in Dio. La stessa funzione pregnante ha l'allitterazione fulvido di fulgore con cui D. definisce l'immagine del fiume di luce che gli appare nell'Empireo (XXX 62; v. FULGIDO e FULVIDO). Per estensione D. indica con f. le anime beate che altrove sono chiamate splendori, lumi, luci, lucerne, fuochi, soli: in X 64 Io vidi più folgór vivi e vincenti / far di noi centro e di sé far corona, e XVIII 25 nel fiammeggiar del folgór santo, / a ch'io mi volsi, conobbi la voglia / in lui di ragionarmi ancora alquanto.