MANFREDI, Fulgenzio
Nacque probabilmente a Venezia nella seconda metà del Cinquecento da Ludovico, di famiglia cittadinesca, ed ebbe almeno due fratelli: Giambattista, pittore e incisore, e Gabriele, "sensale di cambi".
Operata la scelta religiosa (fu accolito nel 1580 e presbitero nel 1586) e addottoratosi in teologia, il M. vestì i panni di s. Francesco come cappuccino per passare poi tra i frati minori osservanti. Si mise in luce come predicatore, mansione che svolse, almeno dal 1594, in chiese di Venezia e di fuori, oltre che in quella di S. Francesco della Vigna, cui fu assegnato dall'Ordine. Eloquentissimo ma mordace e polemico, tanto da essere privato, nel 1594, della facoltà di predicare per quattro anni, alternò l'attività oratoria con la produzione di scritti religiosi e storici.
Nel 1598 apparve un Compendio sulle vite dei dogi costituito da dodici tavole intagliate in rame dedicate alla pianta di Venezia e dai ritratti di novanta dogi, eseguiti dal fratello Giambattista, con brevi cenni biografici che Antonio Foscarini collocò tra le opere del M. "non meritevoli di memoria" (Benzoni, p. 303, n. 131). Una certa risonanza, invece, ebbe la Degnità procuratoria di S. Marco di Venetia (Venezia 1602), un'operetta su "materia da nessun altro trattata prima", secondo lo stesso M. (ibid., p. 304, n. 133), che metteva in risalto fastigi e dimore dei procuratori e lo fece annoverare tra i letterati del suo tempo. Progettò, senza riuscire a pubblicarle, vite di santi e beati veneziani, di cui abbiamo un saggio nelle assai modeste vite di s. Magno (Predica fatta nella chiesa delli santi Apostoli predicandovi tutto l'anno 1604. alli 6. d'ottobre giorno festiuo di S. Magno, Venezia 1605) e di s. Pietro Orseolo (Vita di s. Pietro Orseolo, di doge e principe di Vinetia fatto monaco & eremita in Guascogna, Venezia 1606).
Più che per la produzione letteraria, tuttavia, il M. acquistò credito durante l'interdetto, quando, pur non essendo "un ministro publico né stipendiato" (Sarpi, 1931, I, pp. 43 s., 52), partecipò alla campagna antiromana nella schiera dei cosiddetti "teologi minori" a fianco di quelli ufficiali. Dai pulpiti del Redentore e della chiesa dell'Umiltà, che, tolta ai gesuiti, gli era stata affidata, il M. - seguito da un pubblico per lo più di estrazione popolare ma non disdegnato da un vasto numero di senatori - esercitò la sua veemente oratoria "contro li costumi della corte romana" (ibid., II, p. 101). Con Roma, d'altronde, era già caduto in disgrazia per la condanna inflitta dalla congregazione dell'Indice, nel 1605, a uno scritto contro la riforma del suo Ordine a lui attribuito (Apologia, overo Difensione sopra la riformatione dell'Ordine suo, s.l. né d.).
Alla fine del 1606, convocato dalla congregazione del S. Uffizio "ad respondendum de fide", non si presentò, opponendo le sue ragioni in alcuni scritti quali il Manifesto [di risposta] al documento della sacra Inquisizione di Roma che lo cita ad apparire davanti ad essa (Venezia 1606), A tutti li reverendissimi Padri in Christo. La gratia dello Spirito Santo, lo Spirito di Christo, et il zelo de gli Apostoli (ibid. 1606, edito anche in latino nel medesimo luogo e anno), in cui si professava "predicator apertamente verace e della dottrina Evangelica fortissimo difensore e della Apostolica vita humilissimo seguace" (dall'esemplare rilegato nella miscellanea della Biblioteca naz. Marciana di Venezia: Opuscoli sull'interdetto, Parigi 1607, p. 268). Con la scomunica che il 5 genn. 1607 gli fu comminata, fama e popolarità del M. crebbero, e i pareri sulle accuse di eresia, anche tra coloro che nutrivano riserve sulla sua personalità, furono assolutori: Paolo Sarpi, in una lettera a Christoph von Dohna, esponente dell'Unione protestante, sostenne che nelle prediche il M. "gridava solo contro il papa", limitandosi a riprendere "con molta efficacia li difetti degli ecclesiastici" (1931, II, p. 122) e anche un patrizio conservatore come Girolamo Cappello negò che il M. avesse affermato "cose heretiche" (in De Rubertis, p. 266). Si tendeva, insomma, a minimizzare l'importanza del M., indicandolo come un frate che nella foga oratoria si abbandonava a sgradevoli pronunciamenti, un fustigatore di costumi cattolici, niente di più. Il nunzio Berlingero Gessi - a Venezia dal settembre 1607 al luglio 1610 - in una lettera inviata al cardinale Scipione Borghese poco dopo il suo arrivo dovette riconoscere che, sebbene il M. avesse detto dal pulpito molte cose, in caso di processo "se ne proveranno poche" per mancanza di testimoni: avverrebbe che "costui benché sia tristo non si potesse condannare et egli da sé confesserà solamente d'haver dissuasa l'osservanza dell'interdetto, tutto il resto che se gli oppone nega" (cit. in Benzoni, p. 305). Nondimeno l'esuberanza del M. preoccupava tutti gli Stati interessati alla composizione della contesa e specialmente la Serenissima, attenta a distinguere la ferma difesa dei principî giurisdizionali dagli attacchi alla persona del pontefice. L'intervento personale del card. F. de Joyeuse - la cui mediazione pose fine, il 21 apr. 1607, alla vertenza dell'interdetto - indusse le autorità a ritirare al M. il governo della chiesa dell'Umiltà e a limitarne l'attività.
Questa tuttavia provocò ancora vibrate proteste del nunzio Gessi, ora per le affermazioni che non v'era differenza tra un semplice presbitero e un vescovo o il papa, ora per l'affissione sopra la porta della chiesa dell'Umiltà d'un festone che esibiva il simbolo della S. Sede in configurazione provocatoriamente "vacante"; un'altra volta per un ritratto che, con buona dose di megalomania, s'era fatto fare con la didascalia "Evangelicae veritatis propugnator acerrimus".
Tuttavia il M. si rese conto del progressivo isolamento, sentendosi tradito dallo Stato che aveva difeso con passione, e in tal modo agevolò il piano del nunzio di riportarlo all'ubbidienza alla Chiesa. L'abile prelato, respinto il ricorso alla forza prospettato dalla Curia, fece leva sulle ambizioni e sulle debolezze del M., uomo "vano et ambitioso et poco devoto" (Cicogna, V, p. 582) e, aiutato dal veronese Zevio, amico e confratello del M., con la promessa di un salvacondotto e dell'assoluzione dalla scomunica riuscì a persuaderlo a rifugiarsi a Roma. Inutili i tentativi di dissuaderlo, e di mostrargli la pericolosità della scelta, del patrizio sarpiano Nicolò Contarini, cui il governo aveva affidato quell'incarico per scongiurare che il M., una volta a Roma, potesse svolgere attività antiveneziana. L'8 ag. 1608, munito di salvacondotto, il M. fuggì a Rimini e da lì a Ferrara e a Bologna, accolto, "giubiloso e contento" - scrisse lo Zevio al Borghese (in Taucci, p. 76) - con tutti gli onori.
In una lettera al Senato veneziano il M. giustificò la decisione di presentarsi al papa Paolo V per togliere a Venezia l'onere di difenderlo, assicurando di aver agito per "amore non per mercede". A un confratello confidò, invece, di esser "stato più accarezzato e favorito in doi giorni che in doi anni di servitù tanto importante fatta a cotesti nostri Signori vinetiani" (Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci degli ambasciatori e residenti, Roma, 59, c. 410). Uno dei prelati che lo vide partire commentò impietosito: "Povero frate con che allegrezza e sicurezza va a Roma e non s'avvede che va al macello" (Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Correr, 1051: Relatione della morte, c. 25, ma il cronista G.C. Sivos annotò sprezzante: "Ognuno correva a vederlo et il balordo credea che concorressero per le sue virtù e bel'imprese fatte, non conoscendosi per huomo scellerato, vene non spinto da gelo [sic] dell'anima sua d'andar a ricever l'assolutione della scomunica, ma vanaglorioso molto, se n'andava scrivendo [(] che era honorato accarezzato et benissimo regalato per tutto ove passava con grandissimo concorso di gente" (Ibid., Cicogna, 2120, III, c. 168), senza avvedersi che la gente accorre anche quando si conduce un malfattore al patibolo. Sarpi scrivendo ad Antonio Foscarini insinuò che il M. se ne fosse andato "con molte doble" (1931, I, p. 30) e l'ambasciatore veneziano a Roma Francesco Contarini scrisse il 23 agosto che gli sarebbero stati promessi 200 scudi l'anno, un'abiura segreta e ampia possibilità di predicare (Arch. di Stato di Venezia, Senato, Dispacci degli ambasciatori e residenti, Roma, 59, n. 55).
Giunto a Roma il 30 agosto, il M. andò a S. Pietro in Montorio, residenza del suo Ordine, e due giorni dopo si recò in udienza dal papa, che "lo accolse con gran prontezza et con molta humanità" (ibid., 60, n. 1) e gli confermò le promesse fatte. Ben presto, in realtà, il M., che s'era mostrato assai zelante nel fornire dettagliate informazioni sulla penetrazione protestante a Venezia, cominciò a sentirsi a disagio, privo di incombenze, ostacolato nella predicazione, con una provvigione deludente, osteggiato dai confratelli e guardato con crescente sospetto dalle autorità. Non gli restava che tornare a Venezia, ma la Serenissima, considerandolo un personaggio scomodo, ignorò la supplica inoltrata agli inizi del 1610, mentre l'Inquisizione continuò per tutto il 1609 ad accumulare indizi sempre più pesanti a suo carico. "Hieri matina - scriveva il 6 febbr. 1610 il nuovo ambasciatore veneziano, il filocuriale Giovanni Mocenigo - andarono a questa chiesa di Aracoeli intorno a venti sbiri et se ne condussero prigione Fra Fulgentio il quale vogliono che habbi straparlato della persona del papa et d'altri, per il che non gli vengono fatti troppo buoni augurii" (ibid., 62, n. 40); non aveva potuto appurare altro, scrisse il 13 febbraio, se non che il M. aveva "dato scandalo con li suoi costumi" (ibid., n. 42) e che erano stati sequestrati autografi indicanti l'intenzione di scappare in Inghilterra; il M., che si trovava nel carcere comune di Tor di Nona, "contra il suo costume" se ne stava avvilito e umile.
Il tragico epilogo della vita del M. è raccontato dall'ambasciatore Mocenigo nei dispacci al Senato del 3 e 10 luglio, ma è attestato anche da una Relatione della morte di fra Fulgentio, di un anonimo simpatizzante del frate: un racconto non allineato, tendenzioso e polemico, ricco di dettagli, eco dello scalpore che l'evento suscitò nell'opinione pubblica, scritto con l'intento di presentare un M. non remissivo, vittima della crudele ingiustizia della Sede apostolica.
Il M., trasferito alle prigioni della congregazione dell'Inquisizione, fu processato sulla base di pesanti imputazioni, tra cui il possesso di libri proibiti, contatti con eretici e scritti autografi contenenti attacchi alla dottrina cattolica, la delegittimazione del papa e del concilio di Trento, e accuse di eresia. Il M. le respinse tutte considerandole solo frutto di equivoci, ma fu condannato come eretico "relapso", e consegnato al braccio secolare. Il 4 luglio, dopo che in S. Pietro gli furono letti i capi d'imputazione, fu condotto a S. Salvatore in Lauro, degradato e ricondotto alla prigione del governatore di Roma da dove, la mattina del 5 luglio 1610, fu portato in Campo de' Fiori e giustiziato.
Nel verbale dell'Arciconfraternita di S. Giovanni Battista, che assisteva i condannati, si legge: "A dì 5 luglio 1610 in Torre de Nona fra Fulgenzio del q. Ludovico Manfredi venetiano eretico relapso e abiurato, era dell'ordine de' Minori osservanti di S. Francesco. Furono a tal effetto chiamati quattro teologi domenicani. Si dispose benissimo, fu condotto in Campo di Fiore e su la scala delle forche si disdisse de' suoi errori e ne chiese perdono ad ognuno ad alta voce e prima a Dio e al sommo pontefice, e protestò voler morire in grembo di santa Chiesa; fu appiccato e poi abbruggiato" (cit. in Firpo, p. 323). A Venezia il doge, Leonardo Donà a colloquio con l'ambasciatore inglese sir Henry Wotton, in visita di congedo, interpretando l'opinione comune disse che la morte del M. non era che "colpa della sua disgratia, qui dentro non c'è entrato cosa alcuna del nostro" (Arch. di Stato di Venezia, Collegio, Esposizione principi, b. 22, c. 91).
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Senato, Deliberazioni, Roma ordinaria, reg. 16, c. 112; ibid., Dispacci degli ambasciatori e residenti, Roma, filze 58, cc. 310, 358; 59, cc. 335, 410 (nn. 55-56); 60 (nn. 1, 3, 5, 23, 24, 35, 37); 61 (nn. 3, 4, 5); 62 (nn. 40, 42, 43); 63 (3 e 10 luglio 1610); ibid., Inghilterra, filza IX, n. 39; Ibid., Consiglio dei dieci, Capi del Consiglio dei dieci, Dispacci degli ambasciatori, Roma, b. 27 (19 luglio 1608 e 8 maggio 1609); Collegio, Esposizioni Roma, reg. 15, cc. 139, 227, 261, 284; ibid., Esposizione principi, b. 22, c. 91; Ibid., Consultori in jure, filze 6, c. 3; 137, cc. 79, 133, 193; Miscell. atti diversi manoscritti, b. 51, cc. 57-58; Miscellanea codici, I, St. veneta, 13: G. Tassini, Cittadini, cc. 152-153; Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Correr, 1051: Relatione della morte di f. F. M. venetiano seguita in Roma l'anno 1610, a' 5 dì luglio, de Roma li 28 ott. 1610, cc. 210-235; Cicogna, 1382/L; 1629/III, c. 17; 2120: G.C. Sivos, Vite dei dogi overo Cronica veneta, III, cc. 168-173; Venezia, Arch. della Curia patriarcale, Archivio segreto, Clero ordinazioni, reg. 8, cc. 41, 141; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, III, Venezia 1830; V, ibid. 1842, ad ind.; Were "Heretics" ever burned alive at Rome? A report of the proceedings in the Roman Inquisition against F. M., a cura di R. Gibbins, London 1852; Lettere di fra P. Sarpi, a cura di F.L. Polidori, Firenze 1863, ad ind.; E. Cornet, Paolo V e la Repubblica veneta, in Archivio veneto, V (1873), pp. 27-96, 222-318; R. Putelli, Il duca Vincenzo I Gonzaga e l'interdetto di Paolo V a Venezia, ibid., n.s., XI (1911), pp. 3-280; XX (1912), p. 608; V. Spampanato, Nuovi documenti intorno a negozi e processi dell'Inquisizione (1603-1624), in Giorn. critico della filosofia italiana, V (1924), 1, pp. 97, 357; M.D. Busnelli, Un carteggio inedito di fra P. Sarpi con l'ugonotto F. Castrino, in Atti del R. Istituto veneto di scienze, lettere ed arti, LXXXVII (1928), p. 1037; P. Sarpi, Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, I-II, Bari 1931, ad ind.; A. De Rubertis, Ferdinando I de' Medici e la contesa fra Paolo V e la Repubblica veneta, Venezia 1933, ad ind.; P. Savio, Per l'epistolario di Paolo Sarpi, in Aevum, X (1936), pp. 3-104; XI (1937), pp. 35 s.; XIV (1940), p. 49; XVI (1942), p. 30; G. Mercati, Opere minori, III, Città del Vaticano 1937, pp. 21 s.; R. Taucci, Intorno alle lettere di fra P. Sarpi ad Antonio Foscarini, Firenze 1939, ad ind.; P. Savio, Il nunzio a Venezia dopo l'interdetto, in Archivio veneto, LXXXV (1955), pp. 55-110; G. Cozzi, Il doge N. Contarini, Venezia-Roma 1958, ad ind.; P. Sarpi, Scritti scelti, a cura di G. Da Pozzo, Torino 1968, pp. 578, 645; G. Benzoni, I "teologi" minori dell'interdetto, in Archivio veneto, CI (1970), pp. 31-108; L. Firpo, Esecuzioni capitali in Roma (1567-1671), in Eresia e Riforma nell'Italia del Cinquecento, Firenze-Chicago 1974, pp. 317, 323; C. Pin, Tra religione e politica: un codice di memorie di P. Sarpi, in Studi in onore di L. Firpo, a cura di S. Rota Ghibaudi - F. Barcia, Milano 1990, II, pp. 171 s.; Id., Introduzione a P. Sarpi, Consulti, a cura di C. Pin, Pisa-Roma 2001, I, pp. 55 s., 68; II, p. 622; F. De Vivo, Dall'imposizione del silenzio alla "guerra delle scritture". Le pubblicazioni ufficiali durante l'interdetto del 1606-1607, in Studi veneziani, XLI (2001), pp. 179-213.