frutto
Ricorre frequentemente in tutte le opere, con la sola esclusione della Vita Nuova; è usato due volte anche nel Fiore, mai nel Detto.
Nella sua accezione più ampia indica quanto la terra coltivata produce per alimento degli uomini e degli animali. Con questo valore è usato due volte: il passo di Pg XXVIII 143 Qui fu innocente l'umana radice; / qui primavera sempre e ogne frutto, ha per fonte Ovidio (Met. I 107-109 " ver erat aeternum... / mox etiam fruges tellus inarata ferebat "); in Cv IV II 10 dice santo Iacopo apostolo ne la sua Pistola: " Ecco lo agricola aspetta lo prezioso frutto de la terra... ", è invece puntualmente tradotto il versetto di Iac. Epist. 5, 7 " Ecce agricola exspectat pretiosum fructum terrae ".
In quattro casi compare con il suo significato più consueto e immediato, con riferimento cioè al risultato della fecondazione del fiore di una pianta. In tutti questi esempi è usato sempre al singolare, con valore collettivo, pur riferendosi a tutti i f. di uno o più alberi. È questo il caso di Cv IV XXIV 10 la buona natura... dà a la vite le foglie per difensione del frutto, e li vignuoli con li quali difende e lega la sua imbecillitade, sì che sostiene lo peso del suo frutto; altri esempi sono quelli di Rime XCV 5 e Cv IV VII 3.
Per spiegare a D. la particolare natura e le condizioni del Paradiso terrestre, Matelda fa notare che quella campagna santa / ... d'ogne semenza è piena, / e frutto ha in sé che di là non si schianta (Pg XXVIII 120). Tutti i commentatori sono concordi nel notare come questa descrizione si riallacci al versetto della Genesi (2, 9): " Produxit... Dominus Deus de humo omne lignum pulchrum visu et ad vescendum suave; lignum etiam vitae in medio paradisi lignumque scientiae boni et mali ". Dissentono invece nell'idenitificare la specie vegetale, sconosciuta nell'emisfero abitato, cui Matelda allude; la maggior parte dei commentatori antichi, e con loro il Porena, pensano all'albero della vita o a quello della scienza del bene e del male; a Chimenz, Mattalia, Sapegno, ecc., sembra più naturale che Matelda accenni semplicemente ad alberi e f. di meravigliosa bellezza e sapore, quali non si trovano sulla terra.
L'unico esempio, nelle opere certamente dantesche, del collettivo frutta è quello di If XXXIII 119 I' son frate Alberigo; / i' son quel da le frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo. L'uso di frutta al plurale fu oggetto di " futile disputa negli editori del secolo scorso " (Petrocchi, ad l.), che preferirono la variante frutte, adottata anche dall'ediz. del '37 e dal Casini (ediz. 1892³) perché ritenuta morfologicamente più regolare. Quanto al significato di tutta la frase, essa resta d'incerta interpretazione; i più la considerano come una metafora e la spiegano quindi come " frutta cresciute nell'orto del tradimento e del male "; altri invece, sulla scorta del commento di Benvenuto, intendono per mal orto Faenza " quae produxit tam malos fructus in nobilibus suis: unde autor posuit duos nobiles proditores de Faventia in ista glacie, scilicet Thabaldellum... et Albericum "; altri ancora, sempre riallacciandosi a Benvenuto, pensano all'orto dei Manfredi, nel quale Alberico avrebbe consumato il suo tradimento.
La stessa forma del plurale si trova in Fiore CVII 13, in una frase di schietto sapore popolare: di gran follia credo m'intramettesse / voler insegnar vender frutta a trecca, sarebbe indice di pazzia voler insegnare a una fruttivendola (trecca) a vender frutta.
Con estensione di significato, f. può indicare il prodotto del concepimento: ventre da frutto (Cv IV XXVIII 17) è il grembo della donna feconda; in Fiore XXXIX 7 Ragione consiglia all'Amante di non desiderare la donna sol per lo disdutto / né per diletto, ma per trarne frutto, per averne figli. Analogamente, in Cv IV XVII 12 si parla di frutto de la cera e di frutto del mele, da parte delle api: in quanto queste sostanze sono il risultato di un processo fisiologico, in qualche modo analogo al concepimento.
In un caso vale " rendita ", " profitto " che si ricava dal possesso di un bene materiale. In Pd XXII 80 quel frutto / che fa il cor de' monaci sì folle è il reddito dei benefici ecclesiastici, a possedere il quale, frodandolo ai fedeli, si protendono i cuori dei monaci, resi folli dalla cupidigia. È questo il senso del passo, e così lo intendono tutti i commentatori; solo il Lombardi ne dette una spiegazione diversa: " quel reo frutto che il cuore de' monaci, sì folle, sì impervertito, fa, produce ".
Molto ampia è la varietà degli usi traslati. In molti casi, f. è riferito a ciò che di bene o di male opera l'uomo, in quanto il suo modo di agire è l'effetto di un abito morale già acquisito. In questo senso la parola acquista un valore assai vicino a quello di " opere ", specialmente in contrapposizione a pensieri, sentimenti, intenzioni, modo di apparire. L'origine evangelica di questo uso figurato (derivato dai versetti di Matt. 7, 15-16) è esplicitamente richiamata in Cv IV XVI 10 si legge nel Vangelio di santo Matteo - quando dice Cristo: " Guardatevi da li falsi profeti " -: " A li frutti loro conoscerete quelli ". Talora la metafora è resa più evidente dal ricorso alla figura etimologica: Di questa nobilitade nostra, che in tanti... frutti fruttificava, s'accorse lo Salmista (XIX 7); e così pure in XXI 14.
In qualche caso si ha la contrapposizione di frutti (" opere ") a fiori (" pensieri "): in Pd XXII 48 quel caldo / che fa nascere i fiori e ' frutti santi è la carità divina, suscitatrice di santi pensieri e di opere virtuose; altro esempio si ha in Fiore XCIV 13.
Lievemente diverso è il valore della metafora in Pd XXVII 148 e vero frutto verrà dopo 'l fiore. Per spiegare a D. i motivi del traviamento umano, Beatrice ha ricordato come ben fiorisce ne li uomini il volere; / ma la pioggia continüa [delle tentazioni e dei mali esempi] converte / in bozzacchioni le sosine vere (vv. 124-126), cioè induce al male gli uomini. Tra poco, continua Beatrice , verrà posto riparo alla decadenza morale dell'umanità, sicché al fiore del buon volere seguirà il vero frutto delle buone opere. In Rime LXXXIII 105 la contrapposizione è tra frutto e fronde, cui è attribuito il valore metaforico di " aspetto esteriore ": colante / persone, quante / sembiante portan d'omo, e non responde / il lor frutto a le fronde / per lo mal c'hanno in uso.
Dalla tradizionale immagine dell'albero genealogico deriva l'ampio traslato cui Ugo Capeto ricorre per parlare di sé e dei suoi discendenti: Io fui radice de la mala pianta / che la terra cristiana tutta aduggia, / sì che buon frutto rado se ne schianta (Pg XX 45). I più intendono se ne schianta riferito a pianta; quindi Ugo Capeto si definirebbe il capostipite di quella malvagia stirpe dei Capetingi, che corrompe tutta la terra cristiana, al punto che da essa mala pianta raramente si può cogliere il buon frutto di un principe saggio (Casini-Barbi, Chimenz) o di azioni virtuose (Mattalia, Sapegno). Per il Porena, invece, " la coerenza delle immagini vuole che ciò che è annunciato come malo effetto dell'aduggiare si riferisca all'aduggiato, cioè alla terra cristiana; ed è questa che non dà, se non raramente, buoni frutti ".
In due passi l'uso metaforico di f. non serve tanto a indicare le opere, le azioni, quanto piuttosto il risultato positivo che, operando bene, è possibile conseguire. È questo il caso di s. Francesco, il quale, non essendo riuscito a convertire i Saraceni durante la sua permanenza in Palestina, per non stare indarno, / redissi al frutto de l'italica erba (Pd XI 105), tornò cioè in Italia, dove la sementa della sua predicazione prometteva messe più sicura e copiosa. È ben noto come gli elogi di s. Francesco e di s. Domenico siano condotti con uguali procedimenti di stile e con stretta concordanza d'immagini. È perciò naturale che al frutto de l'italica erba corrisponda, nell'elogio a s. Domenico, il ricordo del mirabile frutto / ch'uscir dovea di lui e de le rede (XII 65). In questo caso, anzi, la metafora è inserita in un contesto ammirevole per coerenza stilistica: la Spagna, dove Domenico era nato, è quella parte ove surge ad aprire / Zefiro dolce le novelle fronde (vv. 46-47); Bonaventura parla del santo come de l'agricola che Cristo / elesse a l'orto suo (vv. 71-72); i fedeli, confermati nella loro fede dalla predicazione domenicana, sono assimilati ad arbuscelli (v. 105); e si vedano ancora i vv. 86-87, 96, 100, 104. A questi esempi può accostarsi Pd XX 56, dov'è ricordato come Costantino sotto buona intenzion che fé mal frutto, / per cedere al pastor si fece greco.
In parecchi passi del Convivio, più che il risultato di un modo d'agire, f. è posto a significare l'effetto di un abito morale o anche il compimento del processo attraverso il quale inclinazioni potenzialmente presenti nell'animo umano passano all'attualità di attitudini ormai acquisite a operare in un certo modo. Esempi di questa accezione si hanno in Cv IV XIX 10 buono e ottimo segno di nobilitade è ne li pargoli e imperfetti d'etade, quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge, che è allora frutto di vera nobilitade; XVII 11 la felicitade de la vita contemplativa è più eccellente che quella de l'attiva, e l'una e l'altra [sono] frutto e fine di nobilitade; XXII 9 l'uso de la cosa amata... è frutto d'amore; XVII 2 propiissimi nostri frutti sono le morali vertudi, però che da ogni canto sono in nostra podestade. E così pure in VIII 1, XVI 10, XIX 6 (due volte), XX 3 e 9 (due volte), XXII 12, XXIV 8, XXVII 3.
Con lo stesso valore di " effetto ", ricorre in Pd II 70, dove però è riferito non già alle attitudini dell'animo umano ma alle virtù attive, diversamente operanti a plasmare la materia terrestre, che le stelle fisse possiedono. Come Beatrice dimostra a D., virtù diverse esser convegnon frutti / di principi formali distinti. Il passo è ben chiarito da Quaestio 70 licet caelum stellatum habeat unitatem in substantia, habet tamen multiplicitatem in virtute; propter quod oportuit habere diversitatem illam in partibus quam videmus, ut per organa diversa virtutes diversas influeret.
Ancor più genericamente vale " profitto ", " utile ", " vantaggio ": Dio ti lasci, lettor, prender frutto / di tua lezione (If XX 19); e così pure in Cv IV VI 10, XXVII 8, Pg XVII 90; nella locuzione avverbiale sanza frutto, " inutilmente ", in Pg III 40.
Con l'ulteriore accezione di " premio ", in Pg XVII 135: Dio è d'ogne ben frutto e radice, principio primo e ricompensa di ogni bene; il passo non presenta alcuna difficoltà interpretativa. Molto discusso e controverso è invece il senso di Pd XXIII 20 e Bëatrice disse: " Ecco le schiere / del trïunfo di Cristo e tutto 'l frutto / ricolto del girar di queste spere! La maggior parte dei commentatori moderni (Scartazzini-Vandelli, Casini-Barbi, Mattalia, Sapegno) si attengono alla spiegazione già datane dal Buti, Benvenuto, Landino e Vellutello, chiaramente deducibile dal commento di quest'ultimo: " ecco le moltitudini di quei beati, che da Cristo col suo sangue furon ricomperati, e con la sua morte vinse la morte loro e trionfò del suo nemico. Et ecco ricolto tutto il buon guadagno (frutto) de le influentie, che questi cieli ne moti loro hanno infuso sopra questi beati, perché mediante esse buone influentie, sono venuti a questa gloria del Paradiso ". È questa la sola spiegazione persuasiva e meglio di ogni altra rispondente al pensiero di D. perché identifica i due fattori positivi e condizionanti della salvezza nel trïunfo di Cristo, cioè nella redenzione, e nel girar di queste spere, ovverosia nelle buone doti naturali dovute alle influenze benefiche dei cieli. Può ben dirsi quindi con il Buti che i beati sono " premio e guadagno che hanno fatto li cieli col suo girare e mandare influenzie giuso nel mondo ", in piena coerenza con la dottrina esposta in Pg XVI 73-81.
Non è invece accettabile l'interpretazione del Venturi (e poi Tommaseo): " Dal ‛ girare ' che han fatto questi ‛ cieli ' ", né quella del Torelli (presso Lombardi): ecco tutta la milizia celeste raccolta, per seguire il trionfo di Cristo, da tutte le sfere, ove era sparsa. Il Porena, poi ripreso dal Chimenz, spiega: " ecco le schiere dei beati che portano Cristo in trionfo, ed ecco raccolti qui tutti coloro che hanno subito in vita gli influssi di questo ottavo cielo ". Anche questo modo di chiarire il testo è però poco convincente, perché, com'è stato obbiettato dal Sapegno, esso " sembra obbedire ad una preoccupazione, meramente intellettualistica, di equilibrio strutturale ".