FRIULI (A. T., 24-25-26)
Regione storica situata tra la Livenza, le Alpi Carniche, le Alpi Giulie e il Timavo. Il Friuli è quindi, una regione di confine, che importanti strade in ogni tempo attraversarono; gran parte della sua storia non si spiegherebbe senza tener conto di una tale situazione geografica, e anche sotto l'aspetto biogeografico si può affermare che nel Friuli s'incontrano i limiti di più regioni, il quale fatto ne spiega la ricchezza della flora e della fauna. È tradizione, confermata da parecchi documenti, comprendere sotto il nome di Friuli principalmente la regione tra il fiume Livenza a occidente e l'Isonzo a levante, tra il crinale delle Alpi Carniche principali a N. e il Mare Adriatico a S. Centro del Friuli è Udine, dai secentisti chiamata "umbilico della Patria": oltre a tutta l'attuale provincia di Udine (esclusone però il territorio della Tarvisa [Tarvisio], di recente annessione) il Friuli comprende il territorio di Portogruaro a occidente, e a oriente tutta la parte della provincia di Gorizia che sta a destra dell'Isonzo.
In senso più ampio, nel Friuli è compreso l'intero bacino idrografico dell'Isonzo, ponendosi, per conseguenza, il limite orientale della regione allo spartiacque principale delle Giulie e quello occidentale lungo lo spartiacque fra Piave, Cellina e Tagliamento. Tale spartiacque separa il Friuli dall'Alpago, dal Bellunese e dal Cadore, senza però che i limiti amministrativi lo seguano fedelmente. In questo più ampio senso fanno parte del Friuli anche l'intera provincia di Gorizia e il territorio di Monfalcone appartenente alla provincia di Trieste, essendo a SE. confine tradizionale della regione friulana la sorgente del Timavo presso Duino. Il crinale delle Giulie fino al Passo di Piro segna il netto confine orientale. Ma fra questo passo e il Timavo non ci si può appoggiare ad alcuna linea naturale. Solo può valere il confine storico della contea di Gorizia, la cui giurisdizione si spingeva sul Carso sino alle spalle di Trieste.
Un criterio più ristretto e non accettabile, perché trascura il fatto che il Friuli è una regione storica con limiti abbastanza sicuri, si è quello di assegnargli i confini della parlata friulana (v. appresso: Dialetti).
Nell'uso popolare talvolta si distinguono dal Friuli la Carnia (v.) e il Canale del Ferro (v.), per modo da restringere il Friuli alla parte media e meridionale della regione. Di questa è pure importante la distinzione tradizionale in due parti, che sono separate dalle ampie ghiaie del Tagliamento, il cui corso medio e inferiore anche nella corografia scientifica si assume a divisore della regione: Friuli Orientale (nell'uso popolare "di cà da l'aghe", di qua dal fiume, rispetto a Udine) e Friuli Occidentale ("di là da l'aghe"). Gli abitanti di quest'ultimo sono perciò detti Oltráns (d'oltre fiume). A oriente, per essersi mantenuta per molti secoli, e sino al 1915, la linea di confine politico a occidente dell'Isonzo, ne derivò la distinzione del Friuli Veneto dal Friuli Austriaco, il quale ultimo era spesso detto Friuli Illirico, per la ragione che tutto il paese cisalpino sulla sinistra dell'Isonzo appartenne alle provincie illiriche dell'impero napoleonico. Il popolo distingue anche la regione montuosa (Alta) dalla parte Bassa, che è propriamente la pianura sotto la linea delle risultive. E nell'Alta, mentre la pianura arida, superiore alle risultive, o non ha nome speciale o si dice Campagna, la parte montana, oltre alla Carnia (v.) e al Canal del Ferro (v.), annovera parecchie distinzioni territoriali.
Il punto più settentrionale del Friuli è il Monte Fleòns (2507 m.) alla latitudine di 46° 39′, di neppure un grado inferiore a quella della Vetta d'Italia, estremità dell'Italia geografica e politica; il suo punto più meridionale è la foce della Livenza (Porto di S. Margherita) a 45° 35′ di lat. boreale. Quanto a longitudine, il Friuli è compreso fra 12° 21′ e 14° 11′ E., se si ponga il suo confine allo spartiacque delle Giulie; se invece si assume per limite orientale della regione la sorgente del Timavo, la coordinata orientale che è anche il meridiano lungo il quale il corso dell'Isonzo descrive buona parte dei suoi gomiti caratteristici, è 13° 36′. Dalla posizione geografico-matematica ora indicata e da quella naturale, dipende il clima della regione. Questa comprende la parte più orientale della grande Pianura Padana e i monti delle Carniche e delle Giulie che le sovrastano a N. e a E., e dal Monte Cavallo al Carso la recingono con un imponente anfiteatro che si può ammirare dal castello di Udine. Perciò è aperta a mezzodì, verso l'estremo prolungamento settentrionale del bacino del Mediterraneo, donde vengono azioni temperatrici e venti umidi. Verso mezzodì, anche se le valli sono diversamente orientate nel loro corso fra i monti, si aprono i loro sbocchi, e, attraversata la pianura, i fiumi mettono nell'Adriatico. Ma come su questo d'inverno si precipitano le masse d'aria fredda raccoltesi nell'anticiclone pannonico, così anche la pianura friulana e le Prealpi soffrono del gelido e impetuoso vento chiamato bora.
Poco meno che la metà del Friuli è piana e la pianura dal livello del mare raggiunge a Meduno la sua altezza massima (342 m.); le montagne, di altezza variabile, in pochissimi casi superano i 2500 m. La carta della media elevazione delle masse è infatti caratterizzata dalle curve di 500 e 1000 m., che attraversano la regione montuosa del Friuli; ma non solo nelle regioni culminali, anche nelle valli più chiuse e meno esposte penetra il clima veramente alpino. Le medie annuali di stazioni come Gorizia (94 m.), 12°,9, Udine (110 m.), 12°,7, Tolmezzo (331 m.), 10°,5, Pontebba (573 m.), 5°,9, Sauris (1217 m.), 6°,0, possono dare un'idea della differenza della temperatura con il variare dell'altezza. A rigore, queste cifre non sarebbero comparabili, perché risultano da periodi di osservazione diversamente lunghi o troppo brevi. Questi dati però dimostrano che, considerata la latitudine, il clima del Friuli è, in complesso, mite. Nei luoghi bene esposti delle colline subalpine (46° 10′), presso Zompitta e Savorgnano del Torre, l'olivo vi raggiunge il suo limite polare. I mesi di maggio-giugno e di ottobre corrispondono alle più abbondanti precipitazioni atmosferiche. E queste sono le maggiori di tutte le Alpi, poiché superano i due metri e nella parte orientale anche i 3 metri annui. Infatti a Crecousce, a SO. di Idria, cadono 3230 mm. all'anno, a Plezzo (alto Isonzo) 2850 mm., a Dol nella Selva di Tarnova 2797 mm., a Resiutta nel Canal del Ferro 2724 mm., a Caporetto (alto Isonzo) 2500 mm. Assai nevose le montagne, specialmente le Giulie, dove un manto di nevi di tre metri e più è abbastanza frequente, nell'Alto Tricorno pare che esso non raggiunga un'altezza minore di 10 m. Le nevi ammantano i monti dalla terza decade di novembre ai primi di aprile. I luoghi più interni delle Alpi e meglio separati dal mare per mezzo di montagne interposte, sono soggetti a meno abbondanti precipitazioni: così Sauris di sotto ha 1760 mm. di pioggia all'anno, Collina 1551 mm., Pesariis 1467 mm., Ovaro 1219 mm. Pure meno piovosa delle Prealpi e del bacino dell'alto Isonzo è la pianura (Gorizia 1668 mm., Udine 1572 mm., Monfalcone 1090 mm.). Da notarsi ancora che nella parte occidentale del Friuli pare che le piogge cadano in quantità minore che nell'orientale (Maniago 2337 mm., Claut 2048 mm., Passo della Mauria 997 mm.). Il Friuli è certamente una delle più piovose regioni, non solo d'Italia, ma anche d'Europa.
Importantissima conseguenza di questa condizione è il generale abbassamento di tutti i limiti altimetrici dei fenomeni fisici e biologici. Il quale fatto generale dipende anche dalla natura dolomitica di gran parte delle montagne friulane, sterili e spesso aspre, soggette a forte disfacimento meteorico e a dilavamento non meno intenso; le quali azioni formano il materiale di imponenti conoidi: per tal modo le parti alte sono inaccessibili alla stessa vegetazione spontanea. Da ciò consegue anche che il limite del bosco, quelli delle coltivazioni e delle abitazioni sono alquanto più bassi che nei vicini paesi alpestri (Cadore, Trentino, Alto Adige).
Alcuni considerarono il Friuli come una regione naturale completa, nel senso che ne fanno parte tutte le zone fisiche della Venezia, dallo spartiacque principale delle Alpi al mare, con una notevole varietà di condizioni naturali, dovute al succedersi di terreni di età differente, dai paleozoici ai quaternarî, ai quali corrispondono anche importanti differenze nelle forme del terreno e nell'altimetria, nel clima e nella vegetazione e, per conseguenza, nelle forme economiche e nella distribuzione della popolazione. Come fu notato poco fa, il Friuli è montuoso nella parte settentrionale, piano nella meridionale. Le sue montagne appartengono alle Carniche e alle Giulie e tanto alle catene di spartiacque principali, che ne formano i limiti N. ed E. nella regione alpina, quanto a quelle del versante meridionale.
Nel dire delle forme del terreno incominceremo dalle prime, attenendoci alle divisioni più comunemente accettate.
La Catena Carnica, di spartiacque alpino principale, diretta quasi esattamente da ponente a levante e lunga più di 100 km., è in gran parte formata da terreni paleozoici. È descritta altrove (v. carnia): una serie di valli e di passi, longitudinali rispetto all'asse orografico, rappresentata dal Canale di San Canziano, dalla Valcalda, dal Passo di Ligosullo, dal Chiarsò, dal rio Mueia, dalla forca Griffon, dalla Forcella d'Aupa, dal Rio Studena, dall'alta Fella a monte di Pontebba, dalla Sella di Camporosso, dalla valle di Tarvisio che a levante continua in quella della Sava di Wurzen, ne segna abbastanza bene il limite meridionale, separandola dalle Alpi Tolmezzine e dalle Alpi Giulie. Le Alpi Carniche raggiungono nel Cogliàns la massima altezza di tutto il Friuli (2781 m.), se a oriente lo si limita all'Isonzo; se invece vi si comprende tutto il bacino idrografico di questo fiume, il Cogliàns è superato dal Tricorno che, attingendo 2863 m., è anche la massima altezza delle Alpi Giulie.
A mezzodì del solco longitudinale sopra indicato, si elevano le masse calcareo-dolomitiche delle Alpi Tolmezzine (v. carnia) a occidente della Fella e delle Giulie settentrionali a oriente dello stesso fiume; sono attraversate da valli trasversali dirette da N. a S. (Degano, But, Aupa) le prime e da valli longitudinali (Dogna, Raccolana, Resia) le seconde. Queste valli mettono in un altro solco longitudinale che rappresenta la prosecuzione orientale della linea della Valsugana, percorso dal Tagliamento superiore, dalle valli della Fella inferiore, della Resia, dell'Uccea e, per breve tratto fra Saga e Tolmino, dall'Isonzo. Mentre nella sezione orografica occidentale delle Alpi Tolmezzine le rocce calcaree sono poco estese e si elevano sopra una base arenaceomarnosa, a levante invece, tra But e Fella, prendono maggiore sviluppo, sino a divenire esclusive nelle Giulie settentrionali.
Con la natura della roccia e la sua disposizione poco inclinata, si spiegano le forme di pianori, di pinnacoli, di torri e di bastioni delle parti elevate delle Giulie. Montasio (2754 m.), Jof Fuart (2666 m.), Canin (2585 m.), Mangart (2678 m.), Solcato (Razor, 2601 m.), Tricorno (2863 m.), Cren (2246 m.), sono pianori sormontati da creste e da cime, alcuni con piccoli ghiacciai, tutti poi foracchiati da pozzi naturali, da solchi carsici.
A mezzogiorno del Passo d'Idria (704 m.) e del fiume omonimo confluente nell'Isonzo a S. Lucia, con un rilievo che per l'elevazione e le forme ha più l'aspetto di colline che di montagne, incominciano le Alpi Giulie dette Carsiche che il corso medio dell'Isonzo separa dalle Prealpi Giulie. Nella valle dell'Idria sono notevoli le rocce eruttive triassiche e il giacimento di cinabro che si trova fra i terreni più antichi del Triassico inferiore e del Carbonico e i più recenti calcari cretacei.
Nelle Giulie Carsiche si distinguono il Carso in senso proprio, formato dagli scaglioni calcarei meno elevati che sorgono a S. del Vipacco, e gli altipiani situati a N. del medesimo, i quali formano come un'enorme gradinata intermedia fra gli alti pianori delle Giulie settentrionali e il Carso propriamente detto. Perciò furono comprensivamente chiamati Alto Carso (Altipiano della Bainsizza 1071 metri, Selva di Tarnova 1496 m., Selva di Piro 1299 m.). Il Basso Carso, o Carso propriamente detto, si distingue in Carso di Monfalcone (M. San Michele 275 m.), che giace a occidente del Vallone di Doberdò, e in Carso Goriziano o Triestino a levante e a SE.
E veniamo alle montagne che per la loro situazione periferica e la loro altezza vennero chiamate Prealpi Friulane. A mezzodì del solco longitudinale Alto Tagliamento-Resia-Isonzo, fra Piave e Isonzo, si elevano in complesse giogaie, costituite da terreni prevalentemente mesozoici, le Prealpi Friulane, distinte in Carniche e Giulie, per mezzo della valle trasversale del medio Tagliamento: esse, mentre presentano un versante settentrionale assai breve e in generale ripido, con il meridionale, assai ampio, degradano sulla pianura friulana talvolta bruscamente (Prealpi Carniche), talaltra volta con zone di colline, nelle Giulie sviluppate in modo speciale, in rapporto con l'estensione che vi hanno i fertili terreni marnoso-arenacei dell'Eocene. Nelle Prealpi Carniche, dove l'orlatura di colline prealpine ha scarsissimo sviluppo e più rapide ne sono le pendici scendenti alla pianura, è notevole il fatto che le maggiori cime (2479-2703 m.) non si elevano lungo lo spartiacque separante i due accennati versanti, bensì piuttosto all'esterno e sono dolomitiche, e hanno forma di castelli e di campanili. Le valli della Cimoliana della Settimana, della Cellina, della Meduna, dell'Arzino e del lago di Cavazzo (alto 195 m. s. m., profondo m. 38,5) le dividono in gruppi. Le Prealpi Giulie sono meno elevate delle Prealpi Carniche (massima loro altezza nel M. Plauris 1939 m.); la valle di Resia e la Sella di Monte Guarda (1682 m.) le separano dalle Alte Alpi; i torrenti Torre, Natisone e Judrio, tributarî dell'Isonzo, le attraversano. In esse sono notevoli le tipiche montagne a catena che, separate da bassure longitudinali, fronteggiano i pianori delle Alte Giulie, seguono verso S. altipiani e dossi che sfumano nella pianura con fertili colline. L'anfiteatro morenico, in gran parte wurmiano (morene alterate del Rissiano a E.), che chiude la valle del Tagliamento e ha dietro a sé l'ampio bacino terminale rappresentato dal Campo di Osoppo, continua verso ponente, fra Torre e Tagliamento, la zona collinosa delle Giulie.
Riguardo all'ammanto boschivo, le montagne del Friuli presentano un'assai notevole differenza tra quelle che fecero parte del dominio veneto di terraferma e quelle che fino al 1918 appartennero alla monarchia austriaca. Le prime sono povere di boschi, non pochi dei quali si devono a recenti rimboschimenti, le seconde vantano una ricchezza forestale che, nonostante i danni sofferti durante la guerra, è veramente preziosa. Il quale fatto è la conseguenza della diversa politica economica e della diversa legislazione forestale dei due stati, dai quali le provincie di Udine e di Gorizia rispettivamente dipesero per molto tempo. Boschi di castagni e di rovere nella zona delle colline, che ricetta vestigia di flora mediterranea in quelle eoceniche e colonie microtermiche sulle moreniche, boschi di faggi fra 500 e 1500 m., di abete fra 1300 e 1800 m.; sopra la zona delle conifere s'incontra soltanto vegetazione arbustiforme ed erbacea: e finalmente la neve persistente. Nonostante questa varietà di condizioni, la zona montuosa dei Friuli è in complesso povera, causa l'estensione degli sterili terreni calcarei e dolomitici, la grande scarsezza di minerali, e la notevole depressione dei limiti altimetrici delle coltivazioni, dovuta al clima, con il conseguente restringimento delle aree coltivabili, poco estese anche per il fatto che i fondi delle valli sono spesso occupati da ampie ghiaie. Le coltivazioni che il clima permette accompagnano le dimore stabili sino ai loro limiti.
Generalmente le borgate e i villaggi sorgono sui fondi delle valli, che sono anche le vie naturali di comunicazione, oppure occupano punti opportuni poco al disopra dei fondi stessi. Ond'è che gli aggruppamenti di case aventi qualche importanza si trovano al di sotto dei 1000 m. Poche sono le eccezioni a questo fatto generale: in Carnia le due borgate di Sauris raggiungono rispettivamente 1212 e 1400 m., Collina i 1250 m.; nelle Alte Alpi Giulie il villaggio al passo del Predil è a 1150 m., sugli altipiani del Goriziano costituenti l'Alto Carso vi sono sedi permanenti di poco superiori ai 1000 m. (Voschia 1090), nelle Prealpi Giulie (Colaurat) le fertili marne arenacee dell'Eocene, anche dove si trovano a quota relativamente alta, sono abitate tutto l'anno (Rauna 1041 m.). E non soltanto questi terreni, ma anche quelli scistosi e quelli di trasporto glaciale e fluviale sono senza confronto più abitati di quelli calcarei e dolomitici troppo sterili e troppo elevati; il quale contrasto è assai spiccato nel bacino idrografico dell'Isonzo, dove nella zona delle Alpi Giulie la densità della popolazione va da 0 a 25 per kmq., mentre il Collio e la pianura di Gorizia hanno una densità fra 200 e 450. Anche l'ampiezza e la ristrettezza delle valli, la loro maggiore o minore importanza come vie di comunicazione, si combinano o contrastano con la natura del suolo nel favorire o meno il popolamento. Nelle Prealpi Carniche, calcaree e dolomitiche, le aree anecumeniche sono estese e le valli piuttosto strette sono assai poco abitate specialmente se non mettono a un passo di una certa importanza: la densità della popolazione va da 10 a 50 ab. per kmq. Più popolata (50-100 per kmq.) è l'arteria stradale Medio Tagliamento-Canal del Ferro, benché il terreno sia ancora calcareodolomitico. Al di sopra del limite altimetrico delle dimore stabili sono le dimore temporanee che nella buona stagione servono all'alpeggio del bestiame e sono distinte negli stavoli, relativamente più bassi (1500-1800 m.), abitati solo in primavera e in autunno e nelle casére, più alte, che, abitate in luglio e agosto, dalla zona naturale dei boschi ai quali fu sostituito il pascolo, salgono nella zona più elevata naturalmente scoperta, fin quasi a 2000 metri.
Alle colline subalpine segue verso S. la pianura alluvionale (diluviale medio e recente in prevalenza), attraversata dagli ampî letti ghiaiosi dei fiumi-torrenti di provenienza alpina (Tagliamento, Isonzo) e prealpina (Cellina, Colvera, Meduna, Cosa, Torre, Malina, Natisone, Judrio) e dai torrenti che hanno origine nell'anfiteatro morenico tilaventino (Corno, Cormor e i minori torrenti detti lavie). È questa pianura costituita da un enorme mantello alluvionale estremamente bibulo, dal quale sporge qualche rilievo di origine più antica e anche marina (Pozzuolo, Medea). La formarono i predetti fiumi-torrenti che tuttora, causa le abbondanti precipitazioni atmosferiche, nelle piene convogliano grande quantità di detriti. Questa pianura, per sé arida, e assai povera di vegetazione boschiva, la quale probabilmente non vi formò mai un mantello continuo, ha carattere di steppa (praterie, magredi) non perché scarseggino le piogge ma a causa della rapida infiltrazione delle medesime. La terra coltivabile è uno strato di alterazione delle alluvioni e i villaggi si raccolgono intorno ai pozzi. Queste condizioni, associate all'opportunità delle comunicazioni e allo sviluppo industriale, vi raccolgono una popolazione, la cui densità va da 100 a 200, scendendo anche a 50 lungo i larghi alvei torrenziali.
Appoggiata al colle isolato del suo castello, in posizione centrale nella pianura a E. del Tagliamento, sorge Udine, nodo delle comunicazioni che provengono dagli sbocchi delle valli e attraversano la pianura. In questa parte della stessa, grazie anche allo sviluppo delle industrie, la densità della popolazione è notevole (da 200 a oltre 500 per kmq.). Anche intorno a Gorizia, verso cui convergono importanti strade, vi è un'altra area equivalente di popolamento e nella pianura occidentale intorno all'industre Pordenone.
Nell'attraversare la pianura superiore, i fiumi perdono le acque per infiltrazione, ma le riacquistano più sotto, là dove esse ritornano alla luce formando la zona acquitrinosa delle risultive. Da questa nascono fiumi piuttosto abbondanti e perciò navigabili (Livenza, Noncello, Fiume, Sile di Azzano, Loncon, Lemene, Stella, Ausa, Corno).
Discontinua nel Friuli Occidentale, dove ad alimentare la Livenza concorrono sorgenti tipicamente carsiche, la zona sorgentifera e paludosa presenta una maggiore continuità nel Friuli Orientale; vi è notevole il suo deprimersi procedendo dal Tagliamento (Jutizzo 44 m.) all'Isonzo (Campolongo m. 17) che va di conserva con quello dei fondi delle valli prealpine e in genere del rilievo montuoso prealpino verso oriente. Da ciò anche deriva il fatto che tra i fiumi di risultiva il più lungo (Stella) è il più occidentale. Questa pianura termina a mare con una fascia di lagune e di paludi dalla foce della Livenza a quella del Timavo.
(V. tavv. XXIII-XXVI).
Bibl.: G. D. Ciconi, Udine e sua provincia, 2ª ed., Udine 1862; P. Antonini, Il Friuli orientale, Milano 1865; G. A. Pirona, La provincia di Udine sotto l'aspetto storico-naturale, in Cronaca del R. Liceo Stellini di Udine, 1876; Annuario statistico per la provincia di Udine; v. anche varî articoli nella rivista In Alto. Cronaca della Società Alpina Friulana; Società Alpina Friulana, Guida del Friuli (volumi pubbl.: Carnia e Canal del Ferro in nuova edizione, Prealpi Giulie, Gorizia e la valle dell'Isonzo) ricca d'indicazioni bibliografiche.
Folklore.
La maggior parte dei Friulani sono agricoltori; e anche sulla donna pesa il carico del lavoro di campagna, massime nelle zone montane, donde gli uomini emigrano temporaneamente per lo più come costruttori edili e stradali. La vita faticosa della donna, specialmente in Carnia, è simboleggiata tradizionalmente nella gerla con cui essa anche oggi trasporta quasi tutto ciò che serve alla vita. Con questa dura esistenza è in relazione ciò che è rimasto dei costumi locali: il fazzoletto da testa nero o a vivaci colori; il corpetto attillato e senza maniche, per lasciar liberi i movimenti alle braccia, coperte dalle lunghe maniche della camicia di tela robusta; la gonna lunga e ampia così da potersi rimboccare e annodare per il lavoro: calzari di stoffa, con suola di tela a più doppî fittamente trapunta con spago resistente (scarpez), ovvero zoccoli o scroi (dàlminis) scavati nel legno d'acero, con punta ricurva.
Della casa friulana, la parte più caratteristica è l'ampia cucina, con il grande focolare di mattoni o di pietra e la sovrapposta cappa (nape), da cui pende la catena da fuoco che sostiene il paiolo per la polenta di granturco; sul focolare vi è spesso un grande alare di ferro (ciavedàl) e una panca corre all'ingiro. Alle pareti della cucina sono appese le secchie di rame lucente. Nella regione montana era particolarmente aggraziato il tipo della vecchia caratteristica casa rustica, a logge sovrapposte, di cui restano numerosi esemplari. Il museo etnografico di Tolmezzo ha una larga raccolta di arredi d'ogni genere, spesso lavorati con gusto e maestria, fondendo elementi originali o di varia derivazione con tipi in prevalenza veneziani.
Fra le usanze speciali, meritano di essere menzionate: quella del traghét, che consiste nel far pagare comicamente la "dogana" per l'ingresso degli sposi nella vita coniugale; la sampognade, che accompagna rumorosamente le nozze fra vedovi anziani; le lamentele funebri, che variano coi luoghi e le circostanze; qualche processione caratteristica; il lancio delle cidulis (assicelle tonde o quadrate di faggio ardenti) da un'altura prossima all'abitato nelle sere di sagra. Ancora superstiti alcune danze tradizionali, come la ziguzàine (furlana), la "resiana" e la stàiare (stiriana). Tra le specialità alimentari, ricordiamo la brovade, di grosse rape messe a fermentare tra le vinacce; i cialsóns, ravioli di pasta con ripieno di ricotta, erbe, pan grattato e uva passa, lessati e conditi con burro e ricotta affumicata; la gubane (propria del Cividalese), pizza di pasta sfogliata con ripieno di uva passa, noci e spezie.
Nel campo delle leggende, un primo gruppo si riferisce ai pagàns e ai salvàns, ultimi superstiti del gentilesimo, e vi si connettono anche le pelose agánis, abitatrici delle grotte; un secondo gruppo comprende l'orco, le streghe, i folletti (come il carnico mazzarót di bosc), l'incubo (chialchiút); un terzo gruppo si riferisce al diavolo e ai dannati; un quarto ha come protagonisti il Signore e San Pietro.
Bibl.: G. I. Ascoli, Studi critici, Gorizia 1861; id., Saggi ladini, in Arch. Glottol. it., 1873; Baudoin De Courtenay, Resianische Texte, Acc. d. sc. di Pietroburgo, 1895; C. v. Czoernig, Die deutsche Sprachinsel Sauris, in Zeit. Deut.-Öst. Alpenver., 1886; G. Del Pippo, La casa in Friuli, in Ann. ist. tecn. Udine, 1907-09; id., in In Alto, Udine 1912; L: Gortani, Tradizioni popolari friul., Udine 1904; M. Gortani, La raccolta etnogr. carnica, Udine 1931; V. Ostermann, Proverbi friul., Udine 1876; id., Villotte friul., ivi 1892; id., La vita in Friuli, ivi 1892; i periodici Pagine friulane, Udine, I-XV (1888-1903); La Panarie, Udine 1924 segg., e le pubbl. d. Soc. Filol. Friul., Udine (1920).
Dialetti.
Per quanto concerne la posizione del Friulano rispetto al gruppo ladino si rimanda all'art. ladino; per i caratteri fonetici, morfologici e lessicali che dànno a questo dialetto un colorito speciale di fronte agli altri alpini e subalpini, cfr. Carlo Battisti, Popoli e lingue nell'Alto Adige, 1931, pp. 94-211. Si veda in ogni caso la proposizione dell'Ascoli: "il friulano avrà nel sistema ladino un'indipendenza non guari diversa da quella che ha il catalano nel provenzale".
Basti qui ricordare taluni dei tratti più specifici i quali allontanano il friulano dal grigione e dal ladino dolomitico: la mancanza della sincope nei proparossitoni dopo nasale o labiale (fémine, sábide, gióvine); la dittongazione di ó, ú latini in posizione (sièt "sette", tjèra "terra", uès "osso", puárte "porta"); la conservazione di l avanti consonante (cialde "calda", dolć "dolce"), di -d- fra due vocali (viòdi "vedere", medóle "midollo" pedòli "pidocchio") e di qu iniziale e dopo consonante (quindis "15", quarante, cinquante); la mancanza del tipo flessionale dei personali múta- mútans "ragazza-e" dei nominativi ille-a-i-ae o delle forme *teus, *seus, per tuus, suus, ricalcate su meus. Con molta autonomia procede il friulano nella coniugazione; esso ha un tipo diverso di desinenza della 1ª e 3ª persona plurale e s'apparta spiccatamente dal grigione e dal ladino dolomitico nella flessione di molti verbi irregolari (per es. "essere", "vedere", "dare", "stare", "andare"). Anche nel lessico l'indipendenza dai gruppi predetti è manifesta in gran numero di esempî, pur prescindendo dall'immancabile introduzione di voci slave, specialmente sensibile nella varietà sonziaca.
Dal punto di vista geografico-linguistico il friulano è un'area estrema conservativa, dell'unità linguistica veneta.
La divergenza attuale fra il veneto e il friulano, è in gran parte dovuta alle innovazioni seriori del veneto. La -s finale, per lo meno nella seconda persona (friul. puartas, ven. porti), permane tutt'ora nella costruzione interrogativa del veneto ed è attestata per il veneziano da Dante (per le plaghe di Dio tu non verás), il quale passo ci dimostra la preesistenza nel veneziano trecentesco dei nessi pl-, bl-, ecc. che ora sono caratteristici del friulano. Della dittongazione di ú, ó latini in posizione rimangono tuttora tracce evidenti in talune varietà venete, e specialmente ve n'erano nel pavano (despuogia "spoglia", impromietto, tiendri "tenere"). Nel Veneto orientale, sul confine friulano ritorna la desinenza in -i, -e della 1ª persona presente indicativo (mi porte, mi porti) che guizza pure in altre varietà occidentali e una volta era molto più salda che ora. Se oggi il veneto non ha più, a differenza del friulano, i ć e ǵ (per c, g + e, i: cj, tj, dj), sono estese su vasta zona delle fricative dentali che dimostrano, come la riduzione veneta sia avvenuta laboriosamente in epoca seriore, formando, come in altri casi, una differenza del tutto secondaria. Anche l'abbreviamento subito dalla tonica nell'ossitono neolatino in sillaba aperta per cui né nel ladino dolomitico, né nel friulano esiste il dittongo ei, ou nei continuatori latini di tēla, sēra, mĭnat, hōra, cōda, fa rientrare le due aree estreme nell'unità veneta. Le divergenze fra il friulano e il veneto consistono dunque precipuamente nel fatto che il primo, come zona marginale, è molto più conservativo del secondo; le più caratteristiche sono: la formazione ladina del plurale in -s di cui mancano tracce nel veneto e la palatalizzazione di c avanti a (ciavál "cavallo" pajá "pagare"); si veda pure nel De regimine rectoris di fra' Paolino chian "cane", chiani, che può essere esemplare prezioso di un'antica risoluzione della formula ca-.
Lo spartiacque fra il Piave e il Cellina segna una demarcazione fra due grandi bacini fluviali (Piave-Tagliamento) orientati diversamente nel complesso veneto. Da Erto sul Vaiónt (Piave) s'insinua per il passo di Sant'Osvaldo a Cimolais nel Cimozzane (Cellina) un filone dialettale non friulano. Più a S., al limite delle prealpi fra la Livenza, a E. di Sacile, e il Cellina (Polcenigo, Budoia, Aviano, S. Quirino, Cordenóns, Pordenone e Chions) il friulano è ormai superato dal veneziano che vi si sovrappone; ancor più a S., il distretto di Portogruaro, fino al Tagliamento, esula dal gruppo friulano. Questo abbraccia l'intera Carnia, con esclusione del bacino superiore del Torre, dove si parla lo sloveno, e arriva con Gorizia a varcare l'Isonzo, che forma il suo confine orientale fino al mare, rimanendo veneziani Grado e Monfalcone. Ma è un confine recente, perché a Trieste e nella vicina Muggia si parlava fino un secolo fa un dialetto ladino. Nella Carnia centro-occidentale è una minuscola colonia tedesca l'appartato villaggio di Sauris (Ampezzo); una seconda è più a settentrione sul confine provinciale fra S. Stefano di Cadore e Forni Avoltri-Sappada. Nell'unità dialettale friulana le condizioni orografiche hanno creato nei singoli sistemi vallivi alpini delle varietà differenziate sensibilmente dalle parlate della pianura, più uniformi e più ambientate al tipo udinese che, in generale, s'identifica col friulano letterario e da molto tempo s'è sveltito e ingentilito per un processo di selezione, pur conservando un aspetto particolare per cui esso è immediatamente riconoscibile di fronte al veneto. Le divergenze del friulano alpino di fronte al tipo pianigiano e subalpino si riducono essenzialmente a un fattore conservativo, cioè al non aver partecipato alle semplificazioni e deviazioni che il dialetto udinese ha effettuato nella sua evoluzione grammaticale e lessicale. Mantenendo la loro autonomia, le parlate montanare poterono anche innovare indipendentemente dal capoluogo e anche queste innovazioni contribuirono per la loro distribuzione geografica a dare a singoli dialetti o sottogruppi dialettali delle impronte caratteristiche. Nelle prealpi hanno una certa indipendenza le varietà alpine tanto del Meduna (Tramonti), quanto del Cellina (Barcis, Cellino-Claut). Nella più uninforme pianura si è già notato che nel tratto occidentale la pressione veneta è notevole. Qualche leggiera differenza (piuttosto lessicale che formale) dal tipo udinese presenta il goriziano. Il sentimento della "patria del Friuli" e lo spirito pratico friulano fecero sì che già nella seconda metà del sec. XIV sull'esempio di Venezia, un maestro Pietro di Cividale dettasse una grammatica latino-friulana.
Bibl.: La magistrale esposizione del friulano di G. I. Ascoli, Archivio glottologico ital., I, pp. 474-535, è essenzialmente dedicata al tipo udinese. Fra i lessici conserva tuttora il suo valore il Vocabolario friulano di J. Pirona, pubblicato postumo dal nipote Giulio (1871), ma è di gran lunga superato per modernità di metodo dal Vocabolario friulano di G. A. Pirona, pubblicato da U. Pellis, E. Carletti e G. B. Corgnali (Udine 1927 segg.). La Società filologica friulana prima con la sua Rivista (voll. 6, 1920-25), poi col bollettino mensile Ce fastu? (1925 in poi) offre anche al linguista preziosi materiali di studio e continua la tradizione delle importantissime Pagine friulane di D. Del Bianco, Udine 1888-1903, voll. 16. - Sulle relazioni veneto-friulane v. G. Bertoni, Italia dialettale, Milano 1917, p. 62.
I testi muglisani furono raccolti da J. Cavalli, Reliquie latine raccolte in Muggia, Trieste 1893; quelli tergestini da G. Mainati, Dialoghi piacevoli in dialetto vernacolo triestino, Trieste 1828; su questo dialetto (spento) v. C. Salvioni, in Rend. Ist. lombardo, XLI (1908); P. G. Goidànich, Intorno alle relique del dialetto tergestino-muglisano, Padova 1904; G. Vidossich, Un nuovo cimelio tergestino, in Studi... Rajna, Firenze 1911, pp. 289-394. Per quanto concerne il bacino del Tagliamento, v. Carlo Battisti, Appunti sul friulano alpino, in Rivista della Soc. filologica friulana, Udine, V (1924); pp. 100-112. Le varietà goriziane sulla sinistra dell'Isonzo furono studiate da U. Pellis, Il Sonziaco, Trieste 1910-11, p. 110. I frammenti della grammatica latino-friulana furono pubblicati da A. Schiaffini in Riv. della Soc. filol. friulana, II (1921). Essi sono di poco posteriori ai più antichi testi dialettali friulani raccolti da V. Joppi, in Arch. glott. ital., IV, illustrati dall'Ascoli ivi, e alla carta gemonese del 1355 edita da L. Sorrento in Rend. Ist. lomb., LXI (1928), pp. 401-420.
Letteratura.
Non v'ha dubbio che, sotto l'aspetto culturale, la letteratura di lingua italiana sia di gran lunga la più importante e abbondante del Friuli; ma la palma dell'arte spetta forse alla letteratura latina, da S. Paolino agli Amaltei (v.), e alla letteratura di linguaggio friulano, sia popolare sia letteraria, a ciò contribuendo l'indole della parlata, ricca di serietà intima, specchio della vita segregata e durissima del Friuli sin oltre la metà dell'Ottocento: indole che, come fu osservato, le dà certa fisionomia e capacità di lingua, onde, con riferimento all'appellativo del dialetto, suol essere antonomasticamente indicata col nome di "letteratura friulana", o con l'altro, pur inesatto ma più modesto, di "letteratura ladina del Friuli", piuttosto che con quello di "letteratura dialettale friulana".
Letteratura popolare. - Non è il caso di parlare della comune letteratura popolare di linguaggio pseudoitaliano, che non manca neppure in Friuli, con esclusione assoluta dei rispetti, degli stornelli e della villotta in endecasillabi, con un minimo per le canzoni epico-liriche propriamente dette e un massimo per le "orazioni", le narrazioni scherzose e le filastrocche. Essa non è che un episodio alquanto scolorito della letteratura popolare nazionale. Una maggiore individualità è in quella parte di poesia religiosa, pure di comune origine italiana, ch'è stata da secoli assimilata nel linguaggio e negli spiriti (originale affatto invece un bellissimo natale), nei pochi coròts ("pianti funebri") superstiti, nelle canzoncine a ballo (che, per la musica, ci richiamano più generalmente a motivi slavi e tedeschi), e soprattutto nelle fiabe di tipo "nordico" piuttosto che centroitaliano; nelle quali anche il tema, diffuso in tutta Europa, dei viaggi di Gesù ha singolare sviluppo. Ma prodotto schiettamente indigeno e di notevole importanza culturale e artistica, è la villotta di ottonarî (ordinariamente una sola quartina, qualche volta due; raramente una catena di villotte; col 2° e 4° verso tronchi), indipendente, quanto poesia popolare può essere, da ogni altra contermine, che risponde in tale sua concisione densa a un carattere essenziale del popolo friulano, ond'è anche di gran lunga la più diffusa forma di canto fra Timavo e Livenza, la più ricca in varianti e in armonie, e l'unica veramente cara a tutto il popolo. Ve n'ha di singolare bellezza; nelle quali il pudore del sentimento e un'ingenuità maggiore e più schietta che negli altri canti italiani (onde s'accostano ai sardi e ai corsi), unendosi a una passionalità concentrata e frenata, dànno luogo a lampeggiamenti poetici di una perfezione e di una delicatezza che meraviglia.
Letteratura d'arte. - Il linguaggio friulano ha i suoi primi documenti schiettamente letterarî in tre poesie anonime del sec. XIV, ove si rispecchiano tendenze realistiche, popolaresche e provenzaleggianti (cfr. B. Chiurlo, Antologia, pp. 127-134): scarso residuo d'un tentativo, certo modesto, di letteratura locale, che le fortunose vicende di quella terra limitanea hanno a caso rispettato. Ma un secolo e mezzo di quasi assoluto silenzio mostra abbastanza come il prevalere della lingua nazionale, magari sotto forme tosco-venete, e, soprattutto, il movimento umanistico, abbiano tosto arrestato quel fervore; sinché verso la metà del Cinquecento (quando la vitalità di questi moti parve esaurirsi nell'imitazione o nella stravaganza) ci troviamo di nuovo in piena fioritura di verseggiatori ladini: i migliori, se non proprio poeti, almeno vigorosi stilisti (Morlupino, Biancone). Il sec. XVIl, che non manca, specie a Udine, della solita tendenza rusticale dilettantesca, né di un verseggiatore come Eusebio Stella di Spilimbergo, il quale, quando tocca la nota realistico-erotica, si pone risolutamente tra i primi, ci dà nel conte Ermes di Colloredo (v.) il maggior stilista e senz'altro lo scrittore più forte di linguaggio friulano, "di vizî ricco e di virtù", sino a Pietro Zorutti (v.), il quale rappresenta, dopo la depressione settecentesca, l'apice del Parnaso friulano, sotto il doppio aspetto del realismo scherzoso e della poesia naturalistica e sentimentale, pur viziata, qua e là, da residui berneschi arcadici e preromantici. Contemporaneamente allo Zorutti, per quanto di lui più giovane (1812-1888). Caterina Percoto (v.) crea la prosa friulana d'arte, già accennata nel Seicento dal Colloredo e, per il gusto fine - superiore d'assai a quello delle sue novelle italiane - previene i tempi, avendo solo più tardi negli arguti carnici Luigi e Giovanni Gortani (fine sec. XIX) e nel più colto e appassionato Dolfo Zorzut di Cormons (nato nel 1894) i suoi migliori seguaci.
Pure nella seconda metà del secolo il teatro, che ha un progenitore in una pastorale del primo Settecento, si annunzia nel 1851 con P. Valussi e si afferma nei decennî seguenti con gli avvocati F. Leitenburg ed E. G. Lazzarini, per darci le cose migliori (senza uscire dalla mediocrità) nel dopoguerra, con B. Pellarini e altri.
Intanto la poesia dello Zorutti, che portava già nella sua soverchia facilità, nella sua inclinazione allo scherzo grasso e pettegolo i segni di una prossima dissoluzione, si vien stemperando coi "zoruttiani" nei difetti soliti della poesia vernacola di bassa forza. Dalla quale nell'ultimo quarto del secolo la rileva Piero Bonini (v.), aprendo più larghe possibilità, in rapporto coi tempi mutati, alla generazione fine-di-secolo, che ci offre - in un ambiente riscaldato specialmente dal costante amore alla friulanità di D. Del Bianco - poeti quali Pieri Corvàt (Pietro Michelini) di Tricesimo (nato nel 1863) che congiunge schietta ispirazione e stile robustamente friulano a novità di temi, Enrico Fruch di Rigolato carnico (nato nel 1873), più delicato, musicale, intimista, e il valoroso umorista Antonio Bauzon (nato a Trieste nel 1879). La generazione che comincia a pubblicare verso il 1905, estende ancora in ogni senso queste esperienze, non di rado con felici risultati, sempre con una notevole coscienza d'arte, che le impedisce di ricadere nel dilettantismo vernacolo: ricorderemo almeno, per ordine di fioritura, Bindo Chiurlo, Vittorio Cadel (morto nel 1917), Giovanni Lorenzoni, Ercole Carletti, Vittorio Vittorello, e più tardi Ugo Pellis, Emilio Nardini (il più "friulano" forse di questi poeti), Spartaco Muratti (triestino che scrive anche in friulano), Francesca Nimis Loi, e i goriziani Tita Collorig e Alfonso Deperis. Quest'ultima generazione, che offre un complesso di poeti molto notevole, si svolge in parte nel clima della Società filologica friulana: fondata nel 1919 da U. Pellis e B. Chiurlo, portata al massimo rigoglio organizzativo da E. Carletti negli anni seguenti, e ora diretta da P. S. Leicht, essa è la massima società di studî regionali d'Italia.
Bibl.: B. Chiurlo, La letteratura ladina del Friuli, 4ª ed., Udine 1922; id., Antologia della letteratura friulana, Udine 1927 (qui anche abbondanti cenni bio-bibliografici e critici. Le prime 120 pp. sono dedicate alla lett. pop.); id., Bibliografia ragionata della poesia popolare friulana, Udine 1920-22, che viene seguita nella rivista Lares, ed è da vedersi anche per la bibl. musicale; id., Il carattere e l'arte del popolo friulano nei suoi canti, in Pallante, 1932, fasc. 9°.
Le più ricche raccolte di villotte a stampa sono sinora quelle di V. Ostermann, Udine 1892, e di A. Tellini, Bologna 1923; di canti religiosi quella di L. Gortani, Udine 1904. - Per le melodie vedi soprattutto le raccolte Persoglia, Montico e della Società fil. friul., edite ed inedite (cfr. E. Carletti, in Ce fastu? VII, 1931, pp. 119-124; e prima, ibidem, VI, pp. 187-193, dove è studiata l'insigne figura di un villottista d'arte, A. Zardini). La maggiore raccolta di novelle è quella di D. Zorzut, Sot la Nape, Udine 1926-27; la maggiore raccolta di proverbî, quella di V. Ostermann, Udine 1876. - Per la letteratura d'arte singolarmente importante: V. Joppi, Testi inediti friulani, in Arch. glott. ital., IV (1878). Posteriormente alla bibliogr. citata nei lavori generali sopra ricordati, notevole l'ed. completa delle poesie del Cadel a cura della Soc. fil. fr., Udine 1927 e degli Scritti friulani di C. Percoto, Udine 1929.
Musica popolare.
La musica popolare friulana per le sue affinità con quella del Veneto si pone nella zona dell'Italia superiore, con caratteri comuni a tutta la musica popolare alpina (modo maggiore in prevalenza), non senza un substrato slavo. Il Veneto le ha dato la gaiezza, la leggerezza e la morbidezza di linee; le contingenze slovene le hanno dato un senso di sogno e di vago. L'elemento musicale non presenta grande varietà di modi e di forme e neppure un notevole sviluppo nel tempo; esso dà piuttosto l'impressione di una stasi in un periodo di maturità, che non si discosta troppo da quello arcaico da cui è derivato: stasi dovuta a geloso spirito di conservazione e a scarsi contatti con gente di altre regioni.
Il genere più antico e originario è comunque da ricercarsi molto probabilmente nelle canzoni della culla e nelle orazioni. La musica che le accompagna appare di una semplicità puerile ed elementare, oppure presenta i caratteri consueti in tutta la musica popolare friulana in genere, consistenti nel predominio del modo maggiore, nella brevità del periodo musicale (di carattere settecentesco) e nella disposizione del canto a due voci procedenti per terze. Anche quando la melodia è cantata da una voce sola, essa presenta costantemente la possibilità che una seconda voce l'accompagni per terze parallele, e fa cadenza sempre sul terzo grado della scala tonale, in modo che la seconda voce possa far cadenza sulla fondamentale.
Un autentico e delizioso tipo arcaico di orazione friulana fu raccolto e pubblicato con la musica da Olga de Craigher, nella Rivista delle tradizibni popolari. Si tratta di una laude natalizia (riprodotta integralmente da F. B. Pratella nel suo Saggio di gridi, canzoni, cori e danze del popolo italiano, Bologna 1919): poesia freschissima e ingenua, con tono e colore di favola. La melodia che l'accompagna, in cambio, è ben ritmata e cadenzata, di espressione eloquente, di carattere settecentesco, eccezionalmente in modo minore e monodica.
Il periodo della maturità offre le villotte. La melodia delle villotte e delle canzonette è varia di struttura e di ritmo, ma costante in quei mezzi di esprimersi che abbiamo notato più indietro parlando delle ninne-nanne. La varietà musicale esige spesso la ripetizione di una metà del verso e deve aver fatto violare, in tempi posteriori, l'unità di forma e di metro della villotta, così che in via eccezionale s'incontrano poi canzonette con molti versi e incisi di versi ripetuti e con versi più brevi degli ottonarî tradizionali, con conseguente prolungamento e deformazione della strofa di quattro versi.
La regione friulana conta anche molte danze popolari, di cui una antichissima e illustre, per essere entrata da tempo nel campo della musica artistica, cioè la furlana (o friulana), che in origine doveva essere in forma bipartita e tripartita, con maggiore sviluppo e ricordante nel suo ritmo in 6/8 l'allegra e scapigliata monferrina. Presentemente nel Friuli il popolo canta ancora e molto e il suo canto ha dato origine a un genere corale semipopolare a tre o a quattro voci, di cui il rappresentante più caratteristico, importante e riconosciuto è stato il poeta musicista Arturo Zardini, l'autore della suggestiva canzone Stelutis Alpinis.
Bibl.: Oltre a quella citata al par. Letteratura popolare v.: Ella Adaiewsky de Schultz, La berceuse populaire, in Rivista musicale italiana, I, II e IV, Torino 1894-95-97; G. B. Mazzuttini, Furlane (La ziguzaine - La veneziana), Trieste 1914; P. Jahier, Canti di soldati, armonizzati da V. Gui, Milano 1920; A. Zardini, Canti friulani, Udine 1927; L. E. Ferraria, Villotte friulane, fasc. 6ª di I canti della montagna (poesia e musica), Milano 1929.
Storia.
La cerchia delle Alpi Carniche e Giulie, che abbraccia la vasta pianura friulana, non costituì neppure nei tempi antichi un ostacolo alle migrazioni dei popoli. Il Friuli, popolato nelle età più remote da genti liguri, abitatrici di caverne, che ci hanno lasciato nelle grotte di Villanova, di Tarcento e in altre, le loro primitive suppellettili, fece poi parte dei vasti territorî dominati dalle schiatte veneto-illiriche. Esse si erano diffuse nei due versanti delle Alpi Orientali, e attive correnti di traffico attraversavano perciò il Friuli, in ispecie per il valico di Piedicolle (Podberdo), che mette in comunicazione la valle della Drava e della Sava con l'alta valle dell'Isonzo e poi con quella del Natisone. Ciò avvenne nell'età del bronzo, ma negli ultimi tempi del dominio veneto-illirico compaiono i primi oggetti di ferro. Verso il 400 a. C. l'invasione celtica portò un gravissimo turbamento in queste regioni: i Veneti furono stretti fra potenti immigrazioni celtiche che sommersero gran parte dell'Italia superiore; gli stessi Celti assoggettarono i territorî transalpini. I Gallo-Carni nel 186 a. C. si affacciarono alle Alpi e scesero nella pianura, con l'intenzione d'insediarsi nelle terre deserte del medio e del basso Friuli. I Veneti superstiti si rivolsero a Roma chiedendo protezione, e il Senato costrinse i bellicosi alpigiani a ritornare alle loro sedi. Questo avvenimento ebbe grande importanza per il Friuli, perché determinò nel 181 la fondazione di Aquileia, dove fu dedotta una colonia romana, formata nelle origini di 3000 pedoni e d'un adeguato numero di cavalieri (v. aquileia). La formazione d'un centro romano così cospicuo nel territorio friulano ebbe grandi conseguenze, perché Aquileia, cresciuta a poco a poco sino a divenire una delle città più popolose dell'Impero, irradiò l'influenza della civiltà romana in tutte le regioni contigue sia di qua, sia di là dalle Alpi. Con le guerre contro gl'Istri (177-176 a. C.), contro i Giapidi (129 e 119 a. C.), contro i Taurisci (115 a. C.) i Romani assicurarono ai commerci aquileiesi sicurezza di movimento attraverso le vie transalpine.
Gravi giorni attraversò Aquileia nel 102 a. C., in seguito alla discesa dei Cimbri, durante la quale l'agguerrita colonia romana rimase isolata fra territorî occupati dai barbari, comunicando con Roma solo per mare. Sterminati i Cimbri da Mario (101 a. C.), l'Italia superiore e con essa Aquileia fu liberata per molto tempo da minacce barbariche. Sotto il fermo governo di Roma il Friuli si popolò: un'altra colonia romana, Iulia Concordia, fu dedotta nella pianura; nelle valli alpine furono costituiti non si sa bene se da Cesare o da Ottaviano, due Fori, chiamati ambedue Forum Iulii. Il primo era situato sul Natisone, sull'antica via commerciale che dal valico di Piedicolle, attraverso le valli dell'Isonzo e del Natisone, sboccava in pianura; il secondo nella valle del But, anch'esso su una strada che scendeva dal valico di Montecroce Carnico mettendo in comunicazione la valle della Gail con quella del Tagliamento. Questo secondo Forum Iulii fu chiamato comunemente Iulium Carnicum. La pianura e il pedemonte furono disseminati di poderi romani, coltivati da contadini gallo-romani che imposero a tali villaggi i nomi con la desinenza in -acco, che ancora si trovano di frequente nella toponomastica friulana. Importanti famiglie romane avevano possessi nel territorio friulano e alcuni personaggi di esse ebbero anche stabile residenza sia ad Aquileia, dove del resto si soffermarono sovente gl'imperatori, sia nei municipî della pianura e del pedemonte. Ad Aquileia, emporio nel quale affluivano negozianti e soldati da tutte le parti dell'orbe romano, troviamo tracce dei più varî culti pagani orientali e occidentali; nel rimanente Friuli è comune il culto a Beleno, nota divinità gallica. Assai presto si dovette introdurre in Friuli il cristianesimo, ma soltanto nella prima metà del sec. III fu costituita ad Aquileia una sede episcopale che, data la grandezza della città, assurse tosto a grande importanza.
La minaccia barbarica si addensava intanto sulla fiorente regione friulana. Un primo segnale del pericolo furono le incursioni dei Marcomanni e d'altri popoli loro collegati, i quali giunsero nel 167 d. C., poco lungi dalle mura d'Aquileia. Gl'imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero allontanarono il flagello. Piu̇ tardi il territorio aquileiese fu straziato dalle lotte interne dell'Impero, come quando Aquileia fu assediata dall'usurpatore Massimino e difesa dai senatori Crispino e Menofilo. La resistenza degli abitanti e della guarnigione ottenne completa vittoria e rimase celebre questo bellum Aquileiense negli annali dell'Impero, anche per l'ardimento delle matrone. Nel 261 una nuova incursione di Germani sboccata dalle Alpi fu respinta dall'imperatore Gallieno, ma dovette produrre gravissimi danni sul territorio. Aquileia fu saccheggiata nel secolo successivo dai soldati di Teodosio, poco dopo la vittoria ottenuta da questo sul Frigido (v.). Nel 452 ecco addensarsi intorno ad Aquileia le orde unniche di Attila. La città, guernita da un debole presidio, resistette valorosamente per circa tre mesi, ma alla fine i barbari, entrati per una breccia delle mura, devastarono col saccheggio e con l'incendio la misera Aquileia, che non risorse più da quell'eccidio, se non come una piccola terra, alla quale soltanto la sede ecclesiastica e le antiche glorie davano rinomanza. A capo della regione friulana, da quest'epoca, si pone il Forum Iulii orientale posto, come già vedemmo, sul Natisone, e dove secondo Strabone era stata pure dedotta una colonia. La piccola città fortificata nel basso impero, divenne nel periodo gotico e bizantino un castrum, ossia una fortezza, chiave d'una parte della difesa "limitanea", organizzata con muraglie e castelli minori, lungo le Alpi Orientali, contro gli assalti barbarici. Teodorico dovette munire di guarnigioni il Friuli: ne troviamo ancora il ricordo nel nome Godia d'alcune localita friulane. Più tardi i Bizantini ricuperarono per breve tempo il paese, ma nel 568 ecco scendere da Nauporto (Lubiana) il longobardo Alboino, con un'accolta di barbari di varie nazioni. L'occupazione dei Friuli, avvenne, pare, senza colpo ferire, perché i Bizantini non avevano forze sufficienti per difendersi. Forum Iulii, l'odierna Cividale, divenne sede del primo ducato longobardo, e Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, nato egli pure nella Foroiuliana Civitas, narra che da Alboino fu costituito duca il nipote Gisulfo, il quale volle dal re la concessione delle più valorose "fare" ossia schiatte longobarde, a guernire il paese e ad assicurare le spalle delle soldatesche longobarde che scendevano in Italia, contro i probabili attacchi degli Avari e degli Slavi. I Longobardi s'assisero così saldamente nel Friuli e per molti secoli si avvertono le tracce della loro influenza: sin nel sec. XV si notano istituti longobardi e si riconosce come vigente il diritto longobardo per una parte della popolazione. Il che non vuol dire che non fosse rimasta sotto i fieri dominatori una folta popolazione romana; ciò è dimostrato dallo stesso dialetto friulano che si forma in questi secoli, e che è pienamente romanzo. Questi abitanti chiamavano sé stessi romans come si vede da nomi di luogo collocati in vicinanza di centri abitati da Longobardi o più tardi da Slavi.
Il ducato friulano ebbe drammatiche vicende, in lotta continua, come fu, con gli Avari e con gli Slavi. Nei primi anni del sec. VII un'invasione avarica portò alla caduta di Forum Iulii nelle mani dei ferocissimi barbari che la distrussero. Il duca Gisulfo II era caduto in battaglia, gli abitanti furono in parte uccisi, in parte portati nella Pannonia, quali schiavi. La duchessa Romilda, che secondo il racconto di Paolo Diacono avrebbe aperte le porte della fortezza al nemico fidandosi di patti offerti dagli Avari, venne da questi impalata e il suo nome rimase per secoli esecrato. I figli si sottrassero con la fuga all'eccidio e i maggiori si succedettero poi nel ducato friulano, mentre il più giovane, Grimoaldo, rifugiatosi a Benevento, ne divenne poi duca e ascese più tardi al trono longobardo. Grandi lotte sostennero i duchi friulani contro gli Slavi. Ferdulfo cadde in battaglia, ma Pemmone riuscì a dar loro, nella valle della Drava, una decisiva sconfitta, assicurando i confini orientali del regno. Il periodo più splendido del ducato fu questo: i figli di Pemmone, Ratchis e Astolfo, salirono l'uno dopo l'altro sul trono longobardo. A Cividale aveva trasportata in questo tempo la sua residenza il patriarca d'Aquileia. Questa grande sede s'era divisa in due dopo la venuta dei Longobardi (v. aquileia); e poiché a Grado, rimasta bizantina, s'era ricostituita la sede episcopale aquileiese, ligia a Roma e a Bisanzio, il clero friulano ottenne dal re longobardo e dal duca d'eleggere un proprio vescovo, scelto tra i sostenitori dei "tre capitoli", condannati dai Bizantini e accettati da una parte del clero italiano.
Aquileia era distrutta, e questo vescovo fissò prima la sua residenza a Cormons, grosso castello del pedemonte, ma poi volle portarla nella sede del ducato, cacciando un altro vescovo, quello di Giulio Carnico, che vi aveva portato la sua sede dopo che l'originaria era stata rasa al suolo negli assalti barbarici. Ciò avvenne per opera di Calisto, vescovo d'Aquileia, ed egli assunse dopo ciò il titolo di patriarca, forse per il fatto che la sede era ritenuta dai Longobardi la principale del loro regno.
La caduta di Desiderio fu origine d'un sanguinoso dramma per i Longobardi friulani. Pochi mesi dopo la caduta di Pavia, il duca del Friuli Rotgaudo, unito a qualche altro duca delle Venezie, levò lo stendardo della ribellione, mentre Carlo era impegnato coi Sassoni. I Franchi, giunti rapidamente alla riscossa, sconfissero Rotgaudo che rimase ucciso sul campo insieme con molti fra i suoi; altri furono esiliati con le loro famiglie in Francia, ove molti perirono di miseria e di stenti: i più fortunati fuggirono in Baviera o fra gli Avari. In Friuli furono posti molti fedeli franchi e furon loro date alcune terre in benefizio, ciò che costituì una stabile guarnigione per il paese e diede le prime origini al formarsi dei feudi. Carlomagno trovò adesioni fra i Romani e anche in una parte dei Longobardi, persuasi che ormai era inutile sperare un risorgere dell'antico regno indipendente. Fra i prediletti cortigiani di Carlo troviamo il celebre patriarca Paolino, gentile poeta e insigne teologo e così pure Massenzio, che fu successore di Paolino. Per lungo tempo stette alla corte anche lo storico e poeta longobardo Paolo Diacono. Il Friuli fu da Carlo organizzato come marca, cioè contea di confine, a fronteggiare Avari e Slavi. Dei suoi margravî o duchi sono celebri Erico, che, nei giorni di Carlo, sterminò gli Avari e ne distrusse la capitale, e più tardi Eberardo, marito d'una figlia di Ludovico il Pio e padre del re e imperatore Berengario I. Durante il regno di quest'ultimo un flagello spaventevole si rovesciò sulla marca orientale: le incursioni degli Ungari, che distruggevano ogni cosa nel loro passaggio. Lungo le strade friulane si formarono ampie zone deserte, che poi vennero dagl'imperatori concesse ai patriarchi, oppure a baroni di oltralpe: costoro cercarono di ripopolare le terre, in parte servendosi delle popolazioni locali, in parte introducendo Slavi dalla Carantania e dalla Carniola: origine questa dei paesi di nome slavo che si trovano lungo la grande arteria stradale che da Codroipo (Quadruvio) mette a Pordenone e oltre. Tali popolazioni allogene si fusero però rapidamente con le originarie e già nel Trecento nessuna differenza le distingueva. Continuò invece l'uso dei dialetti slavi nei coloni introdotti nei secoli XII e XIII a popolare le alte valli dell'Isonzo e del Natisone.
La fine del regno d'Italia indipendente, con Berengario II, porta profondi cambiamenti nella condizione del Friuli. Cividale, che mentre era capitale della marca orientale o Austria, secondo il linguaggio del tempo, aveva assunto il nome di Civitas Austriae conservato durante tutto il Medioevo, è ormai a capo d'una semplice contea, che forma parte della marca di Verona, unita da Ottone I alla marca di Carinzia, per meglio assicurare i valichi delle Alpi. Sospettosi però degli stessi loro vassalli, i marchesi di Verona e i conti del Friuli, gl'imperatori della casa di Sassonia e più tardi della casa salica e francone, erigono di fronte a questi grandi signori laici la potenza politica della chiesa aquileiese. I patriarchi ricevono dagl'imperatori vastissime terre, numerosi castelli, strade e ponti di grande importanza, oltre a diritti sovrani d'ogni genere.
E già nella prima metà del sec. XI, al tempo del celebre patriarca Popone, la chiesa aquileiese aveva raggiunta una grandissima potenza secolare; ma questa divenne ancor maggiore quando, nel cuore della lotta per le investiture, l'imperatore Enrico IV concesse al suo fedelissimo patriarca Sigeardo prima la contea del Friuli con diritti ducali, e più tardi la Carniola. Si forma così uno stato aquileiese che dura dal 1077 al 1420 e che ebbe vasta espansione territoriale (v. aquileia).
Il Friuli, rimasto per così lungo tempo sotto la dominazione patriarcale, crea interessanti ordinamenti, i quali sanciscono a favore della feudalità e dei comuni ampie autonomie: esse culminano nel parlamento friulano, formato da baroni ecclesiastici e laici e da rappresentanti delle piccole città friulane, che acquistano un'importanza sempre maggiore. Nei primi tempi (i più antichi documenti appartengono al patriarcato di Bertoldo di Andechs, 1218-1251) l'attività del parlamento si limita all'approvazione delle nuove leggi e delle taglie finanziarie e militari gravanti sui proprî membri; nei secoli XIV e XV, invece, una giunta parlamentare governa sovente il paese accanto al patriarca. I comuni non hanno naturalmente l'autonomia piena, giacché alla loro testa sta sempre un ufficiale patriarcale, gastaldo o capitano. Ma nelle lotte sanguinose che il patriarcato deve ognora sostenere coi potenti vicini (specialmente il comune di Treviso, e poi i Da Camino signori di Treviso), si nota la sempre maggiore importanza d'un fattore della vita friulana: la forza dei comuni, che sovente aiutano il patriarca a lottare contro i conti di Gorizia, o i duchi d'Austria, i quali trovano invece largo appoggio nella feudalità. Fra i comuni acquista potenza sempre maggiore Udine, città fondata dal patriarca Bertoldo di Andechs con ampie franchigie. Essa diviene centro favorito dei commerci e sede di molti banchieri toscani. Il troppo favore dato dal patriarca Bertrando (1323-1350) a Udine gli suscitò anzi contro la vecchia capitale friulana, Cividale, che si alleò coi conti di Gorizia e con varî potenti feudali. Fu fatta una lega giurata e il 6 giugno 1350 il patriarca, reduce da Padova, fu ucciso a S. Giorgio della Richinvelda, presso il guado del Tagliamento.
L'ultimo quarantennio del patriarcato fu un seguito di disordini e di lotte interne. Alla morte del patriarca Marquardo (1382) il papa Urbano VI ebbe l'infelice idea di dare, com'era consuetudine di quei tempi, il patriarcato in commenda al principe francese Filippo d'Alençon. Questa nomina suscitò gravissime discordie nel Friuli. La gelosia fra Udine e Cividale, la prima contraria all'Alençon, la seconda favorevole, formò due grandi partiti che si contesero il campo sino alla caduta del governo patriarcale. Gli Udinesi e i loro capi, i potentissimi feudatarî Savorgnan, che esercitavano nella città una vera signoria, si appoggiavano a Venezia: il partito avverso faceva capo ai Carraresi e al re d'Ungheria loro protettore. Questi contrasti culminarono nell'uccisione di Federico Savorgnan, avvenuta per opera dei partigiani del patriarca Giovanni di Moravia, successore di Filippo: morte vendicata da Tristano Savorgnan, figlio dell'ucciso, con l'eccidio dello stesso patriarca compiuto il 13 ottobre 1394. Tali contese non cessarono più. Il partito udinese ebbe il sopravvento durante il patriarcato di Antonio Pancera (1403-1411); ma re Sigismondo d'Ungheria, deciso a combattere l'estendersi dell'influenza di Venezia, fece occupare il paese dalle sue soldatesche e ottenne dal papa la nomina d'un patriarca suo aderente, il duca Ludovico di Teck. Venezia e i Savorgnan, coi loro aderenti, ruppero in guerra aperta. Il 13 luglio 1419 Cividale faceva dedizione a Venezia e con lei alcuni altri comuni e feudatarî; il 16 giugno 1420 capitolava anche Udine e Tristano Savorgnan vi rientrava solennemente, portando egli stesso lo stendardo di S. Marco. La dominazione politica della chiesa aquileiese era così finita e cominciava il periodo veneziano della storia dei Friuli, che durò sino al 1797.
Questo lungo periodo è in maggior parte pacifico: due guerre però vi si devono ricordare, cioè quella detta di Cambray e l'altra di Gradisca. Sia l'una sia l'altra sono suscitate da tentativi fatti da Veneziani per unificare il Friuli, aggiungendo ai loro possessi le terre goriziane. Morto infatti nel 1500 Leonardo, ultimo conte di Gorizia, Venezia sostenne che il feudo goriziano fosse ricaduto naturalmente a S. Marco successore della chiesa aquileiese: occupò pertanto Gorizia, Gradisca, Cormons e la bassa valle dell'Isonzo e quella del Vipacco, nonché i varî possessi dei conti in Friuli. Ne venne la celebre guerra fra l'imperatore Massimiliano e la Repubblica. Le alterne vicende di essa condussero a due occupazioni del Friuli da parte degl'imperiali: nella prima rifulse (1509) il valore di Cividale, che resistette agli assalti dell'esercito imperiale, e quello dei Venzonesi che contro di esso tennero la Chiusa della Fella; nella seconda è celebre l'assedio sostenuto da Girolamo Savorgnan nella fortezza d'Osoppo. Questa eroica resistenza diede modo all'esercito veneziano di sopraggiungere e di sconfiggere nella battaglia di Pordenone le truppe dell'impero. Ma Venezia non riuscì nell'intento di aggregarsi le terre goriziane e a mala pena poté conservare gli antichi possessi. Uguale sorte ebbe la guerra di Gradisca, scoppiata nel 1616, in seguito alla pirateria degli Uscocchi, corsari croati che taglieggiavano i navigli veneziani. La guerra si svolse intorno alla fortezza austriaca di Gradisca, abilmente difesa dal nobile goriziano Riccardo di Strassoldo. Malgrado molte azioni guerresche condotte nel Carso e nella valle d'Isonzo, i Veneziani non vennero a capo della resistenza austriaca e la guerra finì nel 1617 lasciando invariati i confini.
La dominazione veneziana in Friuli si cattivò l'animo delle popolazioni: la repubblica seppe proteggere i contadini contro le eccessive pretese dei signori feudali, così da organizzarne una particolare rappresentanza, sia presso il luogotenente del Friuli, sia a Venezia. Questo ne sedò le velleità di ribellione, venute a minacciosa rivolta nel 1511. Nel Settecento si nota in Friuli un certo risveglio nell'agricoltura e nell'industria; però il governo veneziano è privo di forti iniziative, così che la provincia langue. Da questo torpore la risvegliarono le truppe francesi, che sconfissero sul Tagliamento, il 17 marzo 1797, gl'imperiali. La repubblica di S. Marco era finita: cominciavano tempi nuovi. Con gli altri territorî veneziani, il Friuli fu ceduto all'Austria che governò il paese dal gennaio 1798 sino al dicembre 1805, il Friuli fece poi parte del Regno Italico fino al 1814. Fu un breve periodo, ma formò germi fecondi negli animi: anche in Friuli la signoria austriaca, iniziatasi con la costituzione del regno Lombardo-Veneto, suscitò profondi rancori e ardenti desiderî d'indipendenza dallo straniero. Quando nel 1848 parve matura l'ora della riscossa, i Friulani alzarono il tricolore e si rinchiusero nelle fortezze di Palmanova e di Osoppo per resistere agli Austriaci che ritornavano. Anche Udine, benché difesa soltanto da mura cinquecentesche, tentò la resistenza. Tutto fu vano. Il nuovo periodo della dominazione austriaca fu ancora più cupo del precedente. Nel 1864 scoppiarono in Friuli moti rivoluzionarî: bande guidate dal dottor Andreuzzi e da Tolazzi si formarono nelle montagne: dovettero però disperdersi dinnanzi alle soverchianti forze austriache. Finalmente nel 1866 suonò l'ora della liberazione e il Friuli udinese fu ricongiunto all'Italia. Rimase sotto la dominazione austriaca la provincia goriziana e ne doveva essere liberata soltanto nel 1918.
Bibl.: Opere generali: F. Di Manzano, Annali del Friuli, voll. 7, Udine 1858-79; id., Compendio di storia friulana, Udine 1876; P. S. Leicht, Breve storia del Friuli, Udine 1923. Su particolari momenti e questioni, F. Di Manzano, Cenni storici sui confini del Friuli e la sua nazionalità, Udine 1894; V. Marchesi, Le relazioni del luogotenente della Patria del Friuli al Senato veneziano, Udine 1893; id., Il dominio veneto nel Friuli, Udine 1894; id., Le condizioni del Friuli alla fine del '500, Udine 1895; A. Battistella, Il S. Officio e la riforma religiosa in Friuli, Udine 1895; id., I Toscani in Friuli e un episodio della guerra degli otto anni, Bologna 1898; G. Cogo, La sottomissione del Friuli al dominio della repubblica veneta, 1418-20, Udine 1896; id., Il patriarcato di Aquileia e le aspirazioni de' Carraresi al possesso del Friuli, 1381-89, Venezia 1898. Di grande importanza è la pubbl. degli atti del Parlamento friulano (1228-1480) a cura di P. S. Leicht, I, Bologna 1917; II, Bologna 1925. Per maggiori notizie v. G. Valentinelli, Bibliografia del Friuli, Venezia 1861 e G. Occioni-Bonaffone, Bibliografia storica friulana dal 1861 al 1895, voll. 3, Udine 1883-1896. V. anche aquileia; cividale; gorizia; udine.