Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling è tra i principali esponenti dell’idealismo tedesco. Dopo un inizio dedicato alla filosofia trascendentale d’ispirazione fichtiana e parallelamente alla filosofia della natura (1794-1800), i cui esiti più maturi si trovano nel Sistema dell’idealismo trascendentale (1800) e nell’idea dell’arte come manifestazione dell’infinito nel finito, elabora un sistema dell’identità (neoplatonico-spinoziano) che riduce la molteplicità finita a differenza solo quantitativa dell’assoluto concepito come identità (1801-1809). Segue una fase con inclinazioni teosofiche, dedicata alla filosofia del male e della libertà, e - ma di qui in poi tramite opere quasi sempre postume - alle “età del mondo” intese come epoche della manifestazione di Dio (1809-1825). Elabora infine una vasta filosofia positiva (1825-1854), impegnata a documentare, a fronte di una filosofia negativa i cui procedimenti logici si rivelano insufficienti, il carattere rivelativo sia della mitologia sia del cristianesimo.
Gli esordi
Pur in un’età affollata di grandi personalità, Schelling – insieme a Johann Gottlieb Fichte e Georg Wilhelm Friedrich Hegel notoriamente il fondatore dell’idealismo tedesco – conta su una genialità particolarmente precoce, nonché su uno slancio creativo il cui risultato sarà un pensiero tanto proteiforme da sconcertare anche il più continuista degli interpreti. Nato nel 1775 a Leonberg, nel Württemberg, in un ambiente pietista e iniziato dal padre alle lingue antiche, entra con quasi tre anni di anticipo all’università (Stift di Tübingen), condividendo per qualche tempo con i più anziani Hegel e Friedrich Hölderlin sia la stanza, sia l’entusiasmo per una necessaria e imminente rivoluzione politica e filosofica. Concluso il biennio filosofico, caratterizzato da esercitazioni su Immanuel Kant, Platone e la gnosi, con una dissertazione sull’origine del male nel testo genesiaco (1792) e il successivo triennio teologico con un lavoro su Marcione (1795), Schelling è ormai tanto avverso all’imperante conservatorismo teologico da decidere di non accedere alla prevista carriera ecclesiastica.
A interessarlo è dapprima un’interpretazione filosofica, in parte ancora razionalistica, del mito (Sui miti, le leggende storiche e i filosofemi del mondo più antico, 1793), inteso come indispensabile strumento originario, estetico solo inconsapevolmente nell’inventio, dell’altrimenti impossibile sensibilizzazione delle idee. Questa funzione di coesione sociale del mito è al centro anche del progetto di una “nuova mitologia” o “mitologia della ragione” abbozzato nel fulminante scritto anonimo – probabilmente la trascrizione hegeliana di un appunto di Schelling – scoperto nel 1913 e noto come Il più antico programma sistematico dell’idealismo tedesco (1796-97). Vi si legge l’auspicio che la filosofia si trasformi in una filosofia estetica e che, tramite appunto una “nuova mitologia” che integri sapere (monoteismo della ragione) e vita (politeismo dell’immaginazione e dell’arte), eliminando le scissioni sia tra le facoltà dell’individuo sia tra le classi sociali e fornendo così la base per una religione sensibile, la poesia ridiventi ciò che fu in origine, ossia educatrice dell’umanità: un’esemplare testimonianza di come nell’età postkantiana la mitologia da oggetto antiquario si trasformi in farmaco dei deficit estetico-politici della modernità.
Filosofia trascendentale e filosofia della natura (1794-1800)
Ma è alla filosofia che ben presto Schelling si dedica completamente, guidato dall’idea, straordinariamente costante in tutto il suo percorso, della necessaria coesistenza (invero non sempre esaustivamente chiarita) di due filosofie, in prospettiva sintetizzabili in un solo sistema. Da un lato la filosofia trascendentale, intesa come il superamento fichtiano (ma già pervaso da istanze spinoziane) del kantismo grazie a un’intuizione intellettuale del sovrasensibile, qui dell’io come fondamento dell’intero sapere, indimostrabile perché inoggettivabile (Sulla possibilità di una forma della filosofia in generale, 1794; Sull’io come principio della filosofia, 1795; Lettere filosofiche sul dogmatismo e il criticismo, 1795). Dall’altro lato la filosofia della natura, a cui è indotto dalla necessità di spiegare il nesso tra l’uno incondizionato e la molteplicità condizionata ma anche da un autentico interesse per la fondazione filosofica delle più recenti scoperte scientifiche. In virtù di una concezione dinamica contrapposta alla quantificazione e al meccanismo atomistico, ritenuto incapace di cogliere l’in-sé dei fenomeni, la natura è concepita da Schelling come un organismo vivente e finalistico, la cui unità occulta (la platonica e bruniana “anima del mondo”) sarebbe il galvanismo (autentica anticipazione dell’elettromagnetismo) e la cui incessante produttività, grazie al meccanismo della polarità, e cioè alla continua azione reciproca di forze opposte (attrazione vs. repulsione, produttività vs. prodotto), sarebbe il riflesso e simbolo inconscio dell’altrettanto continua evoluzione dello spirito (Idee per una filosofia della natura, 1797; Sull’anima del mondo: una ipotesi della fisica superiore per spiegare l’organismo generale, 1798; Primo abbozzo di un sistema di filosofia della natura, 1799).
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling
Sapere, obbiettivo e subbiettivo
Introduzione al Sistema dell’idealismo trascendentale
1. Ogni sapere si fonda sull’accordo di due elementi, l’uno subbiettivo, l’altro obbiettivo. Infatti si conosce soltanto il vero; ma la verità è generalmente posta nell’accordo delle rappresentazioni coi loro oggetti.
2. Possiamo chiamar Natura la totalità degli elementi obbiettivi del nostro sapere, mentre l’insieme di tutti gli elementi subbiettivi dicesi Io, o intelligenza. I due concetti sono antitetici. In origine l’intelligenza è concepita come il puro rappresentativo, la natura come il puro rappresentabile; quella come il conscio, questa come l’inconscio. Tuttavia in ogni sorta di sapere è necessario il mutuo concorso di ambedue (del conscio, e di ciò che in se stesso è inconscio); rimane dunque a chiarire questo concorso.
3. Nello stesso fatto del sapere - in quanto io so - l’obbiettivo e il subbiettivo sono così uniti, che non si può dire a quale dei due tocchi la priorità. Non c’è qui un primo e un secondo; sono entrambi contemporanei ed un tutto unico. A volere spiegare questa identità, debbo averla già soppressa. Per poterla spiegare, poiché per me non è dato altro all’infuori di quei due fattori del conoscere (come principio di spiegazione), necessariamente devo preporre l’uno all’altro, partire dall’uno per venire da esso all’altro; da quale dei due si parta, non è determinato dalla questione.
4. Or sono possibili solo due casi.
A) O è posto come primo l’obbiettivo, e si domanda: come gli si aggiunga un subbiettivo, che si accorda con esso.
Il concetto del subbiettivo non è contenuto nel concetto dell’obbiettivo, anzi tutti e due si escludono a vicenda. Il subbiettivo deve adunque aggiungersi all’obbiettivo. Nel concetto della natura non è incluso che esista anche un’intelligenza, la quale se la rappresenti. La natura, così sembra, esisterebbe anche se non esistesse quello che se la rappresenta. La questione pertanto si può enunciare anche così: in che modo alla natura si aggiunge il principio intelligente, o in che modo la natura perviene ad esser rappresentata?
È ammessa come primo la natura o l’obbiettivo. Ora questo è indubbiamente il compito della scienza della natura, che così appunto procede. - Qui possiamo solo indicare brevemente come la scienza della natura effettivamente - e senza saperlo - si avvicini almeno alla soluzione di un tal compito.
Se tutto il sapere ha come due poli, che si presuppongono ed esigono a vicenda, essi debbono rintracciarsi in tutte le scienze; debbono perciò esservi necessariamente due scienze fondamentali, e deve tornar impossibile muover da un polo, senza essere spinti verso l’altro. La tendenza necessaria di tutte le scienze naturali è dunque di andare dalla natura al principio intelligente. Questo e non altro vi è in fondo ad ogni tentativo diretto a introdurre una teoria nei fenomeni naturali. La scienza della natura toccherebbe il sommo della perfezione se giungesse a spiritualizzare perfettamente tutte le leggi naturali in leggi dell’intuizione e del pensiero. I fenomeni (il materiale) debbono scomparire interamente, e rimanere soltanto le leggi (il formale). Accade perciò che, quanto più nel campo della natura stessa balza fuori la legge, tanto più si dissipi il velo che l’avvolge, gli stessi fenomeni si rendano più spirituali, e infine cessino del tutto. I fenomeni ottici non son altro che una geometria, le cui linee son tracciate per mezzo della luce, e questa luce stessa è già di materialità dubbia. Nei fenomeni del magnetismo scompare già ogni traccia materiale, e dei fenomeni della gravitazione, che gli stessi naturalisti credevano di poter concepire solo come un’immediata influenza spirituale, non rimane altro che la loro legge, la cui estrinsecazione in grande è il meccanismo dei movimenti celesti. Una teoria perfetta della natura sarebbe quella per cui la natura tutta si risolvesse in una intelligenza. I morti e inconsci prodotti della natura non sono se non dei conati falliti della natura per riflettere sé medesima; la cosiddetta natura morta è soprattutto un’intelligenza immatura; perciò ne’ suoi fenomeni già traluce, ancora allo stato inconscio, il carattere intelligente. La natura attinge il suo più alto fine, che è quello di divenire interamente obbiettivo a sé medesima, con l’ultima e la più alta riflessione, che non è altro se non l’uomo, o, più generalmente, ciò che noi chiamiamo ragione; in tal modo per la prima volta si ha il completo ritorno della natura a se stessa, e appare evidente che la natura è originariamente identica a ciò che in noi viene riconosciuto come principio intelligente e cosciente.
Questo può bastare a mostrar che la scienza naturale ha la tendenza necessaria a render intelligente la natura; appunto per questa tendenza, essa diviene filosofia della natura, che è una delle due necessarie scienze fondamentali della filosofia.
B) O è posto come primo il subbiettivo, ed il problema è: come vi si aggiunga un obbiettivo, che si accorda con esso.
Se ogni sapere si fonda sull’accordo di questi due elementi (v. 1), il compito di chiarire questo accordo è indubbiamente il più elevato per ogni sapere; e se, come generalmente si concede, la filosofia è fra tutte le scienze la più elevata e la suprema, esso è indubbiamente il compito principale della filosofia.
Ma il problema richiede soltanto la spiegazione di quell’accordo in generale, e lascia del tutto indeterminato donde muova la spiegazione stessa, che cosa essa debba porre come primo e che cosa come secondo. Siccome i due opposti sono vicendevolmente necessarî, il risultato dell’operazione deve essere uguale, qualunque sia il punto di partenza.
Porre come primo l’obbiettivo e ricavare da esso il subbiettivo, è, come abbiamo già accennato, il compito della filosofia della natura.
Ora, se una filosofia trascendentale esiste, non le rimane altro che seguire il cammino opposto: partire dal subbiettivo come dal primo ed assoluto, e farne derivare l’obbiettivo. In tal modo la filosofia della natura e quella dello spirito si son distinte secondo le due possibili direzioni della filosofia; e se ogni filosofia deve riuscire, o a far della natura un’intelligenza, o dell’intelligenza una natura, ne segue che la filosofia trascendentale, a cui spetta quest’ultimo ufficio, sia l’altra necessaria scienza fondamentale della filosofia.
F.W.J. Schelling, Sistema dell’idealismo trascendentale, trad. it. di M. Losacco, riveduta da G. Semerari, Roma-Bari, Laterza, 1965
Il capolavoro e il miracolo dell’arte (1800)
Le due filosofie, pur se con compiti evidentemente opposti – mostrare come la natura si risolva nello spirito (filosofia della natura) e come lo spirito si risolva nella natura (filosofia trascendentale) –, vanno a costituire un unico sistema, capace di sintetizzare nell’uno-tutto (en kai pan) natura (spirito visibile) e spirito (natura invisibile): è il capolavoro della prima filosofia schellinghiana (Sistema dell’idealismo trascendentale, 1800), una delle sue poche opere, tra l’altro, non rimaste frammentarie. Vi è sviluppata l’idea, anticipatrice della dialettica hegeliana, di una storia evolutiva dello spirito, il quale, come solo l’io filosofico può mostrare all’io comune, si oggettiva necessariamente e inconsciamente come mondo esterno (è il “passato trascendentale” dell’io), giungendo solo al termine a essere compiuta autocoscienza. A governare questa storia dell’io è il meccanismo, mutuato dalla filosofia della natura, del continuo contrasto tra un’attività illimitata-centrifuga inconscia e un’attività limitante-centripeta che produce qualcosa di finito e di cosciente di sé. L’io così si intuisce e comprende come il mondo esterno altro non sia che la proiezione esterna della propria attività autolimitantesi, giungendo a spiegare e di conseguenza ad annullare l’illusione realista, che vede in campo teoretico, nella coscienza, l’esito di un’azione esterna e in campo pratico, nel libero agire, una modificazione soggettiva del mondo esterno. Senza più arrestarsi alla constatazione dell’autonomia dell’assoluto, o ridurlo fichtianamente all’aspirazione del finito a realizzare praticamente, e asintoticamente, in sé l’infinito, Schelling conclude le “epoche” della storia dell’autocoscienza con l’assoluta identità tra soggettivo (conscio) e oggettivo (inconscio), a sua volta conscia peraltro solo indirettamente, cioè grazie ai suoi prodotti. Solo parzialmente presente nel prodotto naturale, dove ancora inconscia è l’identità di inconscio e conscio, e solo postulato nel prodotto della storia, il senso del quale è inconscio e trascende destinalmente il libero agire consapevole (dunque illusorio), l’assolutamente identico sarebbe concretamente certificabile solo nell’arte.
Chiamato professore a Jena appena ventitreenne (1798), anche grazie all’intervento favorevole di Johann Wolfgang Goethe, Schelling vi giunge sull’onda dell’entusiasmo per l’arte maturato nelle settimane trascorse a Dresda col circolo romantico dei fratelli August Wilhelm Schlegel e Friedrich Schlegel: un’occasione, tra l’altro, di un “filosofare in gruppo” che influenzerà decisamente le sue opere successive, non ultime le poesie filosofiche scritte nel periodo 1799-1802 e il cui più riuscito esito è il poema panteistico-epicureo Professione di fede epicurea di Heinz Widerpost. Solo così si spiega per quale motivo, nella chiusa del Sistema del 1800, all’arte possa ora essere attribuito, e per la prima volta da un filosofo di rango, un valore supremo. Se in quanto infinito il principio assoluto sfugge necessariamente alla riflessione e può essere colto solo dall’intuizione intellettuale del filosofo, può però essere non solo intuito interiormente, ma anche espresso sensibilmente e intersoggettivamente in virtù dell’intuizione estetica dell’artista. Conducendo l’uomo, nell’interezza della sua esistenza e nella concretezza di un’intuizione esterna universalmente accessibile al senso comune, a un assoluto altrimenti ineffabile, l’opera d’arte realizza – ecco il “miracolo”, attestabile perfino se esistesse una sola opera d’arte! - il contraddittorio, esprime cioè l’infinito in modo finito. Conclude infatti nell’armonia, nella (winckelmanniana) “calma” e “serena grandezza”, una tragica contraddizione tra finito e infinito presente nell’artista non meno che nel fruitore.
Detto altrimenti, unifica un elemento conscio come l’arte, intesa come tecnica e mestiere, e uno inconscio come la poesia, intesa come ispirazione e libero dono della natura, persuadendo concretamente dell’assoluta realtà dell’infinito cui dà veste sensibile. “Unica ed eterna rivelazione” dell’identità altrove solo latente di natura e libertà, l’arte è “l’unico vero ed eterno organo e documento insieme della filosofia” nonché la cifra profetica, previa rinascita nel mondo moderno di una mitologia collettiva in possesso di simboli per tutte le idee, del ritorno di tutto il sapere, filosofia compresa, alla sua origine poetica. Quasi superfluo notare quanto questo assolutismo artistico sarà decisivo per il principio romantico dell’esperibilità solo estetica dell’assoluto.
Identità e estetizzazione universale (1801-1809)
Sposata l’amata Carolina e dopo un paio d’anni di collaborazione con Hegel, Schelling lascia Jena per Würzburg (1803-1806), dove si occupa ancora di filosofia della natura, di arte e persino di una riforma filosofica dell’università (Lezioni sul metodo dello studio accademico, 1803). A guidarlo è però ora, a seguito della cosiddetta “illuminazione” del 1801, un sistema dell’identità (o del real-idealismo) che concili perfettamente l’unità dello spirito, ossia l’idealismo come anima della filosofia, e la molteplicità naturale, ossia il realismo come corpo della filosofia. L’identità di soggettivo e oggettivo, ideale e reale, conoscere ed essere, già intravista nel parallelismo, peraltro più auspicato che effettivamente realizzato, di filosofia della natura e filosofia trascendentale, è ora direttamente intuita senza più scrupoli “critici” e “geometricamente” esibita (si veda il postumo Sistema dell’intera filosofia e della filosofia della natura in particolare, 1804, ma anche l’Introduzione alla filosofia della natura, e gli Aforismi sulla filosofia della natura, entrambi del 1806). A parte le molteplici e inevitabili aporie, la filosofia dell’identità ha però ora difficoltà a spiegare adeguatamente la soggettività, e non è un caso che del lato ideale solo l’arte trovi un’ampia trattazione nei corsi di questi anni (Filosofia dell’arte, 1802-1803, pubblicata postuma) e nella celebre conferenza monachese Sul rapporto delle arti figurative con la natura (1807). Anzi, l’approccio all’assoluto, neplatonico nei principi ( Bruno o il divino e il naturale principio delle cose , 1802) e spinoziano nel metodo espositivo, si può addirittura considerare modellato proprio sull’arte. Non che il dinamismo venga completamente meno, ma in un universo pensato come contenuto in Dio, e nel quale il reale è dato dall’informazione dell’infinito nel finito, esso assume necessariamente l’aspetto di un processo volto escatologicamente alla riconduzione integrale del finito nell’assoluto. La ricchezza stessa delle forme viventi, generata come sempre da una dialettica delle opposizioni (la suprema delle quali è quella tra luce e gravità) in forza della quale ogni differenza si riduce alla semplice prevalenza quantitativa dell’oggettivo sul soggettivo (materia) o del soggettivo sull’oggettivo (autocoscienza umana), non inficia mai l’unità e identità dell’assoluto, i cui complessi meccanismi o “potenze” vengono ora trascritti col distacco tipico della contemplazione (quasi) panteistica.
Addivenuto a una visione dell’universo come gigantesca opera d’arte, Schelling disconosce di fatto il primato in precedenza assegnato all’arte: mentre infatti la filosofia come scienza dell’assoluto, contemplazione dell’unità di vero, bene e bello, esibisce l’assoluto nell’archetipo stesso, cioè nelle idee così come sono in se stesse, l’arte si limita ora a esibire l’archetipo nella copia, cioè nelle idee fattesi reali sotto forma di divinità mitologiche. La filosofia ha ora il primato e non è più in attesa che l’arte ne garantisca miracolosamente gli esiti sul piano sensibile. Alla filosofia dell’arte, in quanto “scienza del tutto nella forma o potenza dell’arte”, spetta semplicemente fissare la posizione universale dell’arte. E cioè comprendere come l’arte possa materializzare senza diminutio le idee con cui l’assoluto si autoafferma, ossia in una forma mitologica, che è la condizione e il materiale indispensabile di ogni arte, nonché simbolica, le figure mitologico-artistiche non “significando” qualcosa ma “essendo” ciò che significano. Ma anche spiegare come possa riuscirvi l’età moderna, pur condannata da una religione volta all’infinito come il cristianesimo all’allegoria quale forma deietta del simbolo, grazie a una nuova mitologia collettiva, a un “ultimo Omero” capace di trasformare la sconsolata successione temporale del mondo moderno in una felice simultaneità simbolica. Ma anche all’idea che l’arte possa fungere da paradigma extrastorico di un’autoriflessione dell’assoluto senza perdita dell’identità Schelling di lì a poco non darà più alcun credito: il cielo si fa sempre più fosco e illusoria deve ormai sembrargli ogni estetizzazione della realtà.
Friedrich Wilhelm Joseph Schelling
Il fondamento della mitologia
La filosofia della rivelazione
Il fondamento della mitologia consiste nel fatto che l’uomo ha rimesso in azione quel principio dell’inizio ch’era destinato a riposare in lui. In qual modo l’uomo originario sia stato messo in grado, e, per così dire, istigato a risvegliare come tale il principio in lui portato alla quiete, e come quest’inizio di ogni mitologia si rifletta nella coscienza mitologica, è quanto qui possiamo indicare solo sommariamente. Quel principio è stato riportato nell’uomo al suo in sé, e doveva, secondo l’intenzione divina, restare interno all’uomo, non diventare di nuovo potenza o possibilità di un altro o di un nuovo essere. È quello spèrma tu teù, quel fondamento teogonico, che deve restare nell’uomo. Ma poiché l’uomo si avvede d’essere in libertà nei confronti di quel principio, è inevitabile che, non appena vi riflette, esso gli si presenti come possibilità, come potenza d’essere nel senso transitivo. Tuttavia di per sé quella possibilità non può nulla. All’azione, all’effetto si arriva soltanto quando ad essa si aggiunge la volontà. In questa condizione dunque - cioè in quanto impotente di per sé - questa possibilità che si presenta e si offre all’uomo appare soltanto come femminile. Questa ne è una veduta non già artificiosa, ma affatto naturale; al tempo stesso però questa possibilità appare come ciò che attira la volontà a sé e che la alletta e stimola. Questo momento della coscienza in cui quella possibilità non è certo ancor altro che possibilità, ma già attira a sé la volontà, questo momento è dunque designato nella mitologia da un essere femminile. Questa possibilità interna che, se resta interna, è = all’essenza, ma che se emerge diventa eguale all’accidentale, cioè a ciò che potrebbe essere o non essere, e che ora però non è più libera di essere o di non essere, ma esiste ciecamente, involontariamente ed in questo senso necessariamente, questo principio esposto al sovvertimento, al trapasso dall’essenziale all’accidentale, è per la mitologia greca Persefone, una figura che già i Pitagorici riconobbero identica con il principio che essi definivano come Duás o diade. Persefone è dunque nella mitologia questo essere ambiguo, dapprima del tutto interiore, ma poi, quando ha abbandonato la sua essenza, soggetto esso stesso alla necessità e al processo. Non ci si deve però immaginare che l’idea di Persefone sia contemporanea all’inizio della mitologia stessa. Quest’inizio è, per la coscienza che ne è sorpresa, un inizio nascosto; soltanto alla fine del processo, quando il tessuto di questo comincia già a decomporsi, l’inizio le diventa chiaro; soltanto qui quel principio le appare di nuovo come possibilità, e le si presenta come Persefone: come quel principio che ha esperito l’intero processo...
Zeus si avvicina a Persefone per sedurla, per strapparla con astuzia alla sua ritiratezza e verginità, per farne il principio generatore di un nuovo processo. Uscita infatti dal suo isolamento essa diventa la madre del Dio, di quel Dio che, come in seguito vedremo, è il primo inizio ed il principio del processo.
Ricollegando l’inizio del processo mitologico a questo che è il primo di tutti gli avvenimenti, a questa catastrofe originaria della coscienza umana, noi spieghiamo nello stesso tempo il processo mitologico come un destino universale, al quale proprio perciò era soggetto l’intero genere umano. La mitologia non è nata da presupposti accidentali, empirici, per esempio invenzioni di singoli poeti o filosofi cosmogonici, che ci si permette di trasferire nei tempi più antichi, neppure da confusioni o fraintendimenti casuali: essa si perde, con le sue più lontane radici, in quel fatto originario o piuttosto in quell’atto immemorabile, senza del quale non ci sarebbe in generale storia alcuna. Infatti la storia, in quanto è un nuovo mondo del movimento, non avrebbe certo potuto esser posta se l’uomo non avesse mosso e scosso di nuovo quel fondamento della creazione mercé il quel tutto doveva pervenire alla quiete e ad uno stato eterno. Senza un’uscita dal paradiso originario non ci sarebbe storia: è per questo che quel primo passo dell’uomo è il vero avvenimento originario, l’avvenimento che solo ha reso possibile una successione di altri avvenimenti, cioè la storia.
Grande antologia filosofica, diretta da M.F. Sciacca e M. Schiavone, Milano, Marzorati, 1968
La libertà e le età del mondo (1809-1825)
Dissoltosi il circolo romantico jenese e maturato dolorosamente il distacco da Fichte (reso pubblico solo più tardi, nell’Esposizione del vero rapporto della filosofia della natura con la dottrina migliorata di Fichte, 1806), cui viene in definitiva addebitata una grave inimicizia verso la natura, utilitaristicamente ridotta a bruto materiale meccanico della libera autorealizzazione dell’io, Schelling lascia Würzburg nel 1806, ormai inviso ai cattolici in quanto protestante e al razionalismo protestante per la sua religiosità romantica, trasferendosi a Monaco. Vi resterà, a parte il breve periodo di Erlangen (1820-27), dal 1806 al 1841, prima come membro dell’Accademia delle Scienze e poi come segretario generale dell’Accademia delle Arti figurative. Indirettamente stigmatizzato dall’ormai ex amico Hegel come la “notte in cui tutte le vacche sono nere” (prefazione della Fenomenologia dello spirito del 1807), il sistema dell’identità si scopre, respinti creazionismo ed emanatismo, nuovamente in difficoltà a spiegare il passaggio dall’uno assoluto al finito molteplice. L’enigma della libertà e della finitezza, in verità già affrontato in termini di “caduta” nel breve Filosofia e religione (1804), sollecita Schelling, sotto l’influenza di Franz Xaver Baader, di letture mistico-teosofiche (in primis Jakob Böhme, 1575-1624, e Friedrich Christoph Oetinger, 1702-1782) e di una certa predilezione tardoromantica per il “lato notturno” dell’esistenza, ad abbandonare definitivamente lo sguardo olimpico e solare sull’universo che governava il sistema dell’identità.
La svolta è avviata dalle Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana (1809). La contraddizione fondamentale, da sempre per Schelling il motore del dinamismo, non è più assorbita in una teodicea che fa del male e della libertà un’inadeguata prospettiva finita, ma viene ora collocata nell’assoluto stesso. Ne viene che l’armonia, eternizzata nel precedente sistema dell’identità, diviene una condizione cosmica solo escatologica, resa possibile dal finale superamento del fondamento caotico dell’esistenza. Così come l’errore non è solo privazione di verità, il male non è una mera privazione di realtà, bensì un relativamente non-essente che minaccia il vero essente; anzi, in quanto tale (tenebra, caos, inconscio) è dell’esistenza (luce, ordine, conscio) e del divenire di Dio addirittura una precondizione, il fondamento tenebroso, rimuovendo e vincendo il quale soltanto Dio diviene veramente Dio, cioè un Dio personale. La libertà, la cui condizione di possibilità è allora la contraddizione immanente all’essere stesso, è quindi la facoltà dell’uomo di scegliere il bene, contribuendo alla redenzione del mondo, ma anche il male, pervertendo la gerarchia dei principi e rendendo dominante quanto dovrebbe invece restare solo “fondamento”. Responsabile, appunto perché libero, dell’eventuale mancato compimento della natura nel mondo degli spiriti, ossia di un’interruzione del processo che relega la natura nel suo vorticoso movimento caotico e infrange così l’ordine della creazione, l’uomo assume su di sé un’angoscia che non si fa fatica a considerare cosmica.
La morte improvvisa di Carolina nel 1809 conferisce poi a questa crisi, come si vede già intrinsecamente speculativa, una valenza pienamente esistenziale, rendendo Schelling particolarmente sensibile ad aspetti irrazionali dell’esistenza come la morte, la vita post mortem, il nesso tra la natura e il mondo degli spiriti (donde il dialogo quasi swedenborghiano Clara ovvero sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti , 1810-11). Tutti aspetti ben presto rielaborati sul piano squisitamente filosofico (Lezioni private di Stoccarda, 1811) e nel quadro di un progetto particolarmente grandioso ( Le età del mondo), continuamente annunciato ma sempre rinviato – un mutismo editoriale che dopo il 1809 è per Schelling la norma –, e del quale conosciamo, postume, tre versioni (1811, 1813, 1815) solo del primo libro (“Il passato”) e, come sua appendice, l’erudito discorso monachese sulle Divinità di Samotracia (1815). L’ambizione dell’opera è quella di ripercorrere l’intera storia dell’automanifestazione di Dio (passato, presente e futuro), ravvisandovi una successione di età cosmiche (eoni) avviata da una contraddizione originaria e nel corso della quale l’assoluto, superando la natura che ha in sé (passato), prende via via coscienza di sé, per diventare solo al termine compiutamente persona: tutto in tutto, e non solo come spirito, ma anche in una dimensione di corporeità superiore (spirituale).
Filosofia negativa e positiva (1825-1854)
Risposatosi nel 1813 con Pauline Gotter, Schelling a Monaco affianca nuovamente a varie cariche istituzionali (è presidente dell’Accademia delle Scienze e precettore del principe Massimiliano) l’insegnamento (dal 1827), e comincia a sviluppare in parallelo, ma senza decidersi mai a pubblicarne gli esiti, i due nuclei della sua ultima filosofia, e cioè la filosofia “negativa” e la filosofia “positiva”, quest’ultima a sua volta suddivisa in filosofia della mitologia, in un certo senso erede della filosofia della natura, e filosofia della rivelazione. Per quanto controverso e rimesso in discussione dalla continua scoperta di ulteriori trascrizioni dei suoi corsi, l’impianto dualistico si ripete grosso modo anche quando Schelling – sarà per lui l’ultimo momento di celebrità – passa a Berlino (1841). La grande attesa, anche per i motivi politici e antihegeliani che ne giustificano la chiamata, è presto delusa e spinge l’anziano filosofo a cessare per sempre l’attività didattica nel 1846 (morirà a Bad Ragaz nel 1854). In questi corsi egli si oppone effettivamente, come ci si attendeva, a ogni filosofia logica e astratta (come quella hegeliana), ma sulla scorta di temi che, come la mitologia e la rivelazione, l’uditorio giudica anacronistici, non potendo ovviamente in alcun modo rendersi conto di assistere a una filosofia ancora in pieno (e tormentato) svolgimento. Della quale oggi si valorizzano soprattutto due aspetti. Anzitutto la drammatica tensione, attestabile anche sul piano storico-filosofico (Per la storia della filosofia moderna, forse 1827), tra la filosofia negativa, che indaga solo la possibilità e l’essenza nei termini logici del pensiero puro, e la filosofia positiva, che, indagando invece la realtà e l’esistenza nella sua assolutezza – di qui un “empirismo” assai peculiare, che fa di Dio il “fatto” originario –, scopre il carattere impotente e postumo della ragione. In secondo luogo la complessa e continuamente rielaborata teoria delle (tre) potenze, intese come forze cosmogoniche e teogoniche, ma anche come epoche della natura e della storia umana, la cui continua interazione genera la struttura dell’intera realtà. La prima 1) è la base oscura ed egoistica, che dà l’avvio al movimento e che sarebbe fatalmente autodistruttiva se non venisse arginata dalla seconda potenza, che è dunque 2) l’atto limitante, destinato a rendere felicemente produttiva la prima nella forma pacificata della terza potenza 3) quale culmine dell’universo, conciliazione definitiva del contrasto precedente. Forte di questa struttura metafisica, Schelling torna, carico di erudizione storico-filologica, al proprio originario interesse per la mitologia, ora spiegata però non razionalisticamente (evemerismo) in riferimento ad altro da sé (allegoria) ma nella sua identità di essere e significato (tautegoria). Vi vede, nella fattispecie, la storia “necessaria” di Dio nella coscienza, nonché un’anticipazione occulta e provvidenziale della rivelazione cristiana, il cui centro nevralgico è sì la persona di Cristo, in qualche modo già preesistente nel paganesimo, ma la cui meta è l’escatologico “tutto in tutti”, ossia la Chiesa giovannea: il corrispettivo di una religione filosofica o filosofia religiosa che contiene indistintamente in sé paganesimo e cristianesimo. Tutte idee che giustificano l’influenza (antihegeliana) di Schelling non più solo sulla filosofia romantica della natura e sull’estetica, ma anche sul teismo speculativo, la psicologia dell’inconscio e, generalmente, sulla filosofia dell’esistenza.