Franzen e i romanzi della natura violata
Sempre più spesso lettori, giornalisti e critici fanno ricorso al termine anglosassone ecofiction, un ombrello sotto il quale trovano riparo opere narrative imperniate su questioni in senso lato ecologiche, che vanno conoscendo nelle letterature occidentali un’impetuosa crescita d’interesse. Naturalmente la messa in scena del rapporto tra uomo e natura non ha mai smesso di attirare gli scrittori e orientare le sensibilità collettive. L’intramontabile mito della wilderness, condensato nel Walden di Henry David Thoreau (1817-1862), in Italia sopravvive per esempio nelle ultime opere di Erri De Luca, di Mauro Corona o di Enrico Brizzi, abile nel sondare le vene profonde della penisola, perlustrate in trekking sfiancanti, come si può verificare da ultimo in Gli psicoatleti (2011). Nel frattempo non perde importanza la deprecazione delle stragi che depauperano la biodiversità planetaria, dalle balene sino agli uccelli migratori, su cui ha insistito Jonathan Franzen. Un bestseller internazionale come Freedom (2010; Libertà) si fonda sui rovelli esistenziali di una coppia chiamata a rappresentare la quintessenza della borghesia progressista d’Oltreoceano. La responsabilità verso l’ambiente è sentita come necessaria, ma al tempo stesso funziona – più o meno consapevolmente – come formidabile vettore di distinzione sociale. Concentrato sino all’ossessione sul perseguimento di uno stile di vita sostenibile, l’avvocato ‘verde’ Walter Berglund si interroga (oltre che sui nemici dei volatili) sull’effetto serra, le centrali a carbone, il nucleare, l’uso smodato dei pick-up, il destino complessivo dei rifiuti. Come ha notato Cinzia Scarpino in US Waste. Rifiuti e sprechi d’America (2011), si tratta di un motivo fondamentale nella cultura statunitense almeno dagli anni Novanta, quando uscì Underworld (1997) il capolavoro di Don DeLillo. Meno dibattuto, ultimamente, è un altro argomento che ricorre in Franzen, ovvero la sovrappopolazione del pianeta.
È significativo osservare come le opinioni neomalthusiane attribuite a Walter si ripresentino in un passaggio cruciale del romanzo di Ian McEwan, Solar (2010): altra vicenda che scorre lungo binari frequentatissimi dall’ecofiction – i cambiamenti climatici e la ricerca di fonti rinnovabili – ma arricchita da un ingrediente piuttosto raro in quest’ambito: l’ironia. L’eroe di Solar è uno scienziato, già premio Nobel, ormai in disarmo, scettico sul riscaldamento globale e tuttavia pronto a ricredersi per opportunismo. Come nel libro di Franzen, non è difficile percepire un certo fastidio tanto per gli approcci ‘puritani’ alle tematiche ambientali, quanto per lo spocchioso sussiego degli umanisti, pronti a vestire l’abito del profeta di sventure per discettare su problemi conosciuti a malapena. In ogni caso, è indubbio: la catastrofe funziona. La carta dell’umorismo farsesco tentata da McEwan fa eccezione. Il panorama propone innanzitutto scrittori decisi a sfruttare le ansie sulle sorti del pianeta per aggiornare il tema dell’apocalissi, come Frank Schätzing (Der Schwarm, 2004; Il quinto giorno). Altro filone in vistoso sviluppo è quello dei cosiddetti ecothriller, una strada aperta da Michael Crichton con State of fear (2004; Stato di paura). Al proposito si può rimarcare, in Italia, il successo della collana VerdeNero, nata presso le Edizioni Ambiente, dove sono apparsi vari romanzi interessanti, come Delta Blues (2010), firmato dal collettivo Kai Zen, o Corpi di scarto (2011), che Elisabetta Bucciarelli ha ambientato ai bordi di una discarica. Vanno in effetti moltiplicandosi le rappresentazioni narrative dello scempio di un territorio devastato da abusi, condoni, indifferenza. L’angolazione predominante si colloca a metà tra fiction e reportage, in accordo con la ricetta proposta da Roberto Saviano in Gomorra (2006). Questa vasta matrice degli orrori nostrani è alla base di un’impressionante fioritura di studi, che hanno guardato anche alle correnti di ecocriticism sorte negli Stati Uniti.
Bilancio letterario italiano
di Daniele Giglioli
Piacerebbe sempre a un cronista, chiamato ad assolvere il compito di dar conto di un’annata letteraria appena trascorsa, poter dire che si è trattato di un anno di svolta, o almeno di transizione. Ma la svolta dovrebbe essere chiaramente visibile; e la transizione accennare verso cosa. Non è il caso di questo 2011 uscente; che, se lo si dovesse riassumere in una formula, andrebbe piuttosto classificato come un anno di conferme, non smentite nemmeno dagli esordi di cui è stato teatro.
Si conferma, per esempio, la predilezione di molti scrittori per tematiche, soggetti e situazioni estreme. Un fatto leggibile nel frequentissimo ricorso a scenari postapocalittici o comunque postcatastrofici, come in romanzi quali Nina dei lupi (Marsilio) di Alessandro Bertante, o La seconda mezzanotte (Bompiani) di Antonio Scurati, ambientati entrambi in un’Italia su cui si è abbattuta una sciagura insieme climatica e sociale che l’ha ricondotta a un universo dominato dalla violenza e dalla crudeltà. Ma anche in due libri d’esordio per più versi notevoli come Elisabeth (Einaudi), di Paolo Sortino, dove si romanza la vicenda realmente accaduta di una giovane austriaca tenuta segregata per ventiquattro anni da un padre incestuoso; o come Il demone a Beslan (Mondadori) di Andrea Tarabbia, dove si mette in scena il monologo interiore dell’unico attentatore sopravvissuto. Tinte forti, situazioni fuori dall’ordinario, sguardi stravolti sulla normalità gettati a partire da una condizione di eccezionalità etica e sociale che sembra essere per tanti scrittori l’unico punto di osservazione possibile: un fenomeno ancora tutto da interpretare. Mentre più perturbante e insidiosa appare in questo senso la scelta di Giulio Mozzi di ripubblicare presso un piccolo editore come Laurana una raccolta di racconti, a forte coefficiente autobiografico, intitolata significativamente Il male naturale (prima ed. Mondadori 2007). Così come stravolto, anche se nel senso dell’esasperazione dell’ordinario, è l’universo narrativo di un romanzo come La vita accanto di Mariapia Veladiano (Einaudi), storia di una bruttezza femminile e delle reazioni (e relazioni) complicate e perverse che genera.
Non che beninteso, ci sia stato solo questo. E visto che parliamo di conferme, diciamo allora che due tra i nostri scrittori più talentuosi e raffinati, Tommaso Pincio e Gabriele Frasca, ci hanno offerto quest’anno un risultato estremamente maturo e per così dire apicale della loro attività ormai quindicinale: Tommaso Pincio con Hotel a zero stelle (Laterza), inclassificabile impasto di saggistica, autobiografia e autofinzione che ruota intorno ai fantasmi di alcuni autori molto amati; Gabriele Frasca con Dai cancelli d’acciaio (Luca Sossella), opera babelica e incontenibile in cui convergono e si disseminano tutti i temi e le ossessioni della sua opera di romanziere, dalla sessualità ai vangeli gnostici, dalla società dello spettacolo all’inevitabilità del tradimento. Estreme però, questa volta, tanto in Frasca quanto in Pincio, sono non solo le tematiche e le ambientazioni ma anche, e per fortuna, il trattamento della lingua e della costruzione narrativa, perfettamente adeguate al loro oggetto quanto quelle di molti scrittori citati sopra ne rimangono al di sotto.
Altra conferma di cui parlare sarebbe la nuova, raffinata sperimentazione metanarrativa di Mauro Covacich (A nome tuo, Einaudi); o la Storia della mia gente (Bompiani) di Edoardo Nesi, cui è toccato, non si sa se per fortuna o per sfortuna, di vincere lo screditatissimo (ma prezioso per le vendite) Premio Strega. Ma preferiamo in conclusione menzionare un outsider un poco in ombra, ma capricciosamente dotato, come Paolo Morelli (Il trasloco, Nottetempo), autore di una stralunata sotie autobiografica che ruota intorno a un tragicomico cambiamento di indirizzo, e che conferma la vitalità di quella linea oraleggiante e lunatica di cui è capofila Gianni Celati e sono epigoni autori come Ermanno Cavazzoni, Daniele Benati e Paolo Nori. E soprattutto l’opera di esordio di Alessandro Mari, Troppo umana speranza (Feltrinelli), che rinsangua l’ormai un po’ usurata rinascenza postmoderna del romanzo storico dedicando ottocento pagine a una rivisitazione ‘dal basso’ del Risorgimento italiano: con alcune ingenuità e qualche caduta, una scrittura che osa molto, gestita ancora imperfettamente, ma da un autore di grandissimi mezzi, e su cui verrebbe da scommettere per il futuro.