Frankenstein
(USA 1931, bianco e nero, 71m); regia: James Whale; produzione: Carl Laemmle Jr. per Universal: soggetto: dall'omonimo romanzo di Mary Shelley e dall'omonimo testo teatrale di Peggy Webling; sceneggiatura: Francis Edward Faragoh, Garret Fort, John L. Balderston; fotografia: Arthur Edeson; montaggio: Clarence Kolster; scenografia: Charles D. Hall; effetti speciali: John P. Fulton; trucco: Jack P. Pierce; musica: Bernhard Kaun.
Prima dei titoli di testa, l'attore Edward Van Sloan annuncia davanti a un sipario che il film che ci apprestiamo a vedere potrebbe essere fonte di shock. Poi, il barone e scienziato Frankenstein, con l'assistenza del gobbo Fritz, trafuga un corpo appena seppellito. Con pezzi di cadaveri, infatti, egli intende creare un essere vivente. Manca ancora il cervello: Fritz è incaricato di prelevarne uno sano all'università, ma se lo lascia sfuggire di mano e ripiega sul cervello di un criminale. Intanto la fidanzata di Frankenstein, Elizabeth, è in pena. Assieme all'amico Victor e al Dr. Waldman, si reca al castello in cui il barone si è confinato a sperimentare, e qui assiste alla nascita del mostro, messo alla luce grazie a una scarica di fulmini. La creatura ha un aspetto orribile e patetico, forte come un Ercole ma timoroso del fuoco: dopo aver strangolato il Dr. Waldman, riesce a fuggire. Una volta in libertà, causa la morte per annegamento di una bambina. Il padre, un contadino, porta con strazio il piccolo cadavere tra i suoi compaesani, in festa per il matrimonio tra il barone ed Elizabeth. Il mostro, nottetempo, scivola nella stanza di Elizabeth e la terrorizza. In seguito si carica sulle spalle il suo creatore e lo trasporta fino a un mulino, dove li raggiunge la folla inferocita che appicca il fuoco. Le fiamme avvolgono la creatura, mentre Frankenstein riesce a salvarsi.
Profondamente, quasi volutamente infedele nei confronti dell'opera di Mary Shelley, questo film sembra piuttosto voler essere, del libro, una intensa lettura, sentitamente ermeneutica, tesa a spremere significati sotterranei e a dar senso a enunciazioni sottese e non sempre chiarite. Se si collega la mirabile scena iniziale, al cimitero, con richiami terrifici alle Totentanz medioevali, alla lezione vigorosamente lombrosiana in cui il cervello criminale è confrontato con quello normale, si scorge bene una specie di perennità della storia gotica, destinata a raccogliere, nel suo lungo procedere, tanto gli orrori di un passato che non si estingue mai totalmente, con una attualità che si riempie di antichi orrori, di remote e rinnovate paure, quanto le efferatezze di un torvo futuro sconosciuto.
Creato nel 1931, quindi addirittura in anticipo sul crollo di Weimar e sulla presa di potere da parte di Hitler, Frankenstein è intensamente pervaso di un visivo hitleriano che stupisce per la pertinenza accurata e allusiva. Sembra spesso di essere spettatori dei soggiorni alpini di Adolf ed Eva, in quel rifugio che sembrava, a un tempo, corrusca fortezza e dozzinale condominio acquistato a rate da una cooperativa di piccoli commercianti. Si alternano scene con boschi che richiamano quelle filmate da Eva, a fiaccolate notturne che riportano gli echi delle sfilate e delle adunate. La scelta di rendere molto tedesco tutto l'apparato visivo è poi confermata dalle danze tirolesi di cui si riempie il borgo per l'attesa del matrimonio. E anche la figura del vecchio barone, comico e saggio, spavaldo ma anche intriso di burbanzose tenerezze, ci riporta non tanto e non solo alla Germania, quanto piuttosto ai tedeschi divisi in tanti staterelli che diedero vita allo stile Biedermeier, ben presente anche nel film anche se il fatto è ambientato in un'epoca vicina alla contemporaneità. Le radici romantiche vistosamente esibite da James Whale si riferiscono all'anima più severamente e intensamente tedesca del romanticismo. Si nota, per esempio, la forza con cui viene ripercorsa con piena evidenza la via romantica verso una ascendenza prometeica, sempre guardata come un destino che non può essere eliminato. Così la creatura, composta di vari pezzi di cadaveri via via raccolti, e con nel cranio il cervello lombrosianamente sbagliato, quello criminale, è innalzata fino al cielo, con un apparecchio che sembra alludere a un altare, perché scocchi la scintilla e venga dal cielo la vita. In questo senso, la sfida rivolta verso l'Alto dal Dr. Frankenstein sarebbe solo parziale: la vita, in ultima istanza, è data sempre da chi l'ha davvero creata.
Si è alluso all'espressionismo, per le inquadrature, gli scorci, le ombre del film. Sembra, invece, di doversi piuttosto rifare a due grandi disegnatori come Virgil Finlay e Karel Thole, che crearono una speciale fantasticazione mescolando arditamente effetti, frammenti, brandelli, testimonianze. Il cimitero ricalca certo gotico settecentesco, l'aula universitaria riporta alla didattica del positivismo, il castello dove si dà vita alla creatura è dedotto dal feuilleton, la dimora del vecchio barone ricalca le belle dimore hollywoodiane dei film sull'Ottocento: da una così varia dimensione si ricava un visivo unitario, come in certe copertine di Finlay e Thole. Del resto, proprio in questa serena provincia tedesca, con il barone che conserva antichi vini pregiati e offre champagne alla servitù perché non è degno di nobili palati, proprio in questa cornice tanto familiare ai lettori di Hauff, di Keller, di Hoffmann, deve poter nascere quella creatura che è una sfida e però è anche la concretezza di un sogno. In fondo, il dottor Hoffmann aveva spesso anticipato il dottor Frankenstein: visioni, fantasmi, senso del rimosso pre-freudiano sono presenti in tutti i mirabili racconti dell'eccelso favolista. E questo Frankenstein, del resto, ama la vita come i grandi autori del fantastico tedesco: una vita che è nella natura, che blandisce i tuoni così come ricerca i fiori, che vuole fare esistere anche un essere di cui non si può presagire nulla, perché è bello creare.
Da Mignolina a Frankenstein, dalla Mandragola fatta nascere da Akim von Arnin in una sua celebre fiaba, fino agli automi di Hoffmann, si ha però la grazia Biedermeier congiunta con l'acre presentimento dei lager. La creatura getta nel lago una bambina, che viene riportata morta, nel pieno della festa. È una terribile icona, un ben noto presagio. Vedremo poi tanti bambini morti, sapremo di esperimenti ripugnanti, apprenderemo che si gioca con la vita in laboratori di oggi, senza più l'ardore del dottor Frankenstein, ma con un occhio ai titoli di borsa delle multinazionali dell'industria farmaceutica. Mentre il matrimonio del dottor Frankenstein va avanti nel candore abbacinante di abiti per la sposa e per le damigelle, la creatura muore in un colossale rogo regressivo. Il mulino a vento dell'iconografia fiamminga arde per bruciare l'essere che aveva un cervello sbagliato. Nel film si assiste a una futuribilità che va molto oltre le intenzioni di Mary Shelley. Oggi un grande paese cerca di occultare una rovinosa epidemia: modi contadineschi per morbi futuribili.
Il personaggio di Frankenstein (portato per la prima volta sullo schermo nel 1910 da una produzione Edison) riapparve in una pletora di film successivi. Boris Karloff interpreta nuovamente la creatura in Bride of Frankenstein (La moglie di Frankenstein, 1935, ancora per la regia di James Whale) e Son of Frankenstein (Il figlio di Frankenstein, 1939, regia di Rowland V. Lee).
Interpreti e personaggi: Boris Karloff (la creatura), Colin Clive (Henry Frankenstein), Mae Clarke (Elizabeth), John Boles (Victor Moritz), Edward Van Sloan (Dr. Waldman), Frederick Kerr (barone Frankenstein), Dwight Frye (Fritz), Lionel Belmore (Vogel, il borgomastro), Marilyn Harris (Maria), Cecilia Parker (domestica), Francis Ford (contadino ferito), Michael Mark (Ludwig, padre di Maria).
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Sceneggiatura: Frankenstein, a cura di R.J. Riley, Absecon 1989.