SACCHETTI, Franco
SACCHETTI, Franco. – Nacque a Ragusa, l’odierna Dubrovnik, nel 1332. Il padre, Benci del Buono, abitava fra Venezia e la Dalmazia, dove si trasferì stabilmente (luglio 1333 - inizio 1335) e rimase almeno fino al 7 settembre 1341, mentre il 23 giugno 1343 è citato come residente a Venezia e il 23 ottobre 1347 morì a Firenze. Anche se alcuni studiosi croati hanno ipotizzato che la madre di Sacchetti fosse dalmata, Krekić ha chiarito che si trattava di una donna veneziana, di nome Maria: già nel 1326 un documento, vergato a Cattaro, nomina Benci «come genero Francisci speciali de Venetiis» e nel 1337 Maria è esplicitamente menzionata da Benci come «uxoris mee Marie, filie Francisci speciarii» (Krekić, 1999, pp. 35-40).
Con i famosi versi pronunciati dall’avo Cacciaguida (Par. XVI, 100-105), Dante collocò i Sacchetti fra le famiglie il cui stato era già grande nella Firenze del secolo XII; la documentazione archivistica consente di risalire a un Isacco o Isacchetto documentato nel 1030, il capostipite che avrebbe dato il cognomen alla famiglia guelfa magnatizia: abitanti nel primo Cerchio di mura e con torre in città (come ricorda Mecatti, 1754, p. 93), per effetto degli Ordinamenti di giustizia i Sacchetti erano stati estromessi dalle cariche pubbliche e dovettero diventare popolani per vedersi riammessi. L’ampia trattazione di Demostene Tiribilli Giuliani (1855), pur collocando erroneamente la nascita di Franco nel 1355, cita versi di Ugolino Verino secondo cui la famiglia Sacchetti era di sangue romano e discendeva da Silla.
Per il ruolo prominente negli affari cittadini, Sacchetti è spesso citato nel materiale archivistico, studiato e pubblicato in grande quantità da Ettore Li Gotti (1940b, cui si rinvia per le relative collocazioni); un anno prima, una dettagliata ricostruzione biografica era stata pubblicata a opera di Franz Pieper (1939), a partire da una scrupolosa analisi delle opere sacchettiane, ma senza il riscontro con le fonti documentarie. Con la necessaria prudenza, molte informazioni possono desumersi dallo zibaldone autografo (Firenze, Biblioteca Laurenziana, Ashburnham 574), studiato a fondo nella sua struttura da Alberto Chiari (1938) e Lucia Battaglia Ricci (1990).
Di Franco sono attestati almeno sei fratelli: due maschi più giovani, Andreuolo che morì prematuramente nel 1362, e Giannozzo (v. la voce in questo Dizionario) che fu accusato di aver ordito una congiura filoviscontea e giustiziato il 15 ottobre 1379, con il parere favorevole dello stesso Franco; quattro sorelle: Agnesina, che sposò Vieri Ugolini; Filippa, che sposò Giovanni Strozzi; suor Elia, monaca a S. Apollonia; Niccolosa, che sposò Leonardo degli Asini.
Il 19 gennaio 1351 «Francischus olim Benci del Buono de Sacchettis» figura iscritto all’Arte del Cambio, come vari suoi familiari; nell’occasione, fondò una società con il cugino Antonio, figlio di Forese d’Upizzino Sacchetti (già priore e poi console dell’Arte stessa), e con Bernardo Corradi cittadino fiorentino (Li Gotti, 1940b, p. 109). Il 15 gennaio 1354 sposò Felice del fu Niccolò Strozzi, ricevendo una dote di 500 fiorini: con Giovanni Strozzi che sposava la sorella di Franco, il doppio accordo matrimoniale potrebbe essere stato l’occasione del poemetto eulogico La battaglia delle belle donne, scritto in lode di un’altra Strozzi, Costanza, e ricco di elementi danteschi e boccacciani: tràdita da due soli manoscritti quattrocenteschi, la Battaglia è stata annessa solo in tempi relativamente recenti alla produzione di Sacchetti.
Per il periodo successivo, i documenti d’archivio non aiutano: Sacchetti stesso dice che fra gennaio e febbraio 1354 ascoltò le prediche di Francesco da Empoli a Firenze (Sposizioni, XXXV). Le trecento novelle riempiono in parte questo vuoto: la novella CLXXX, che tratta della rivalità politica fra Ubaldini e Medici, è ambientata poco dopo il 1360; la CCXXII si riferisce all’accordo fraudolento fra Ricciardo Manfredi signore di Bagnacavallo e il cardinale Egidio di Albornoz (1361). A questo periodo sembrano da ricondurre alcuni viaggi in Schiavonia intrapresi per liquidare gli interessi del defunto padre: vi si riferisce con toni aspri la canzone XIV, S’io mai peccai per far contra ’l Superno.
Fra le rime giovanili si affacciano testi che celebrano fatti o personaggi politici in termini più o meno allegorici: la canzone Volpe superba, vizïosa e falsa è un’invettiva contro Pisa, in occasione della vittoria fiorentina presso Bagno di Vena, del maggio 1363; il sonetto CV piange la morte di Niccolò Acciaiuoli, gran siniscalco del Regno di Napoli e amico personale di Boccaccio e Petrarca (novembre 1365); la canzone Credi tu sempre, maladetta serpe, è ancora un’aspra invettiva contro il duca di Milano, e si ricollega alla formazione di una lega antiviscontea alla fine del 1369.
Come conferma lo stesso Sacchetti nella lettera ad Astorre Manfredi del 15 aprile 1397, la sua lunga carriera politica cominciò nel 1363, quando fu nominato rector di Monte Voltraio, presso Volterra; nell’aprile del 1366 fu tratto castellano di Avena – presso Poppi, nel Casentino in provincia di Arezzo − con ser Ventura Niccoli notaio; nell’aprile del 1367 fu podestà di Mangona nel Valdarno inferiore, dove si recò con un seguito di due notai, otto servi e due cavalli e vi restò fino al gennaio dell’anno successivo. Fino alla metà della decade successiva, le vicende biografiche di Sacchetti possono evincersi – indirettamente e con la necessaria cautela – solo da riferimenti delle sue stesse opere: i sonetti CXXXVII-CXXXVIII per la riconquista di San Miniato del 1369-70; le canzoni composte nel 1374 in morte di Francesco Petrarca e, l’anno successivo, per la scomparsa di Giovanni Boccaccio (CLXXIII e CLXXXI).
Nel novembre del 1376, in occasione della Guerra degli Otto Santi, fu inviato a Bologna come ambasciatore del Comune e visse così il difficile periodo della guerra e dell’assedio della città mossi dalle truppe bretoni del cardinale Roberto di Ginevra: in questo periodo si unì al seguito del capitano dei fiorentini Ridolfo II da Camerino, noto all’epoca per la saggezza e arguzia e protagonista di ben otto novelle sacchettiane (VII, XXXVIII-XLI, XC, CIV, CLXXXII).
Il 30 luglio successivo ottenne l’importante nomina – semestrale – di podestà della montagna fiorentina per i comuni di Ragiuolo e Romena, ma l’11 ottobre dello stesso 1377 morì la moglie. Seguì un periodo di assenza dai pubblici uffici, ma non di disinteresse per la politica, come traspare da alcune Rime scritte in occasione del Tumulto dei Ciompi (1378): in questo difficile periodo, Franco si erse a difensore dell’ordine, attestato su una saggia medietas nella gestione del potere e degli interessi cittadini. Tale atteggiamento traspare anche da alcuni componimenti poetici: per esempio, il sonetto CCVII è un elogio della moderazione di Salvestro de’ Medici nella restaurazione dell’ordine cittadino, la canzone CCXIII esalta i signori di Firenze per aver ripristinato l’ordine in città.
Fra novembre 1379 e maggio 1380 fu camerario della Compagnia di Orsanmichele, per la cui ristrutturazione firmò vari pagamenti: fino alla Quaresima del 1381, se a tale incarico si devono ricondurre le Sposizioni, quarantanove ‘spiegazioni’ di passi evangelici che rivestono notevole interesse storico e biografico; l’opera rimase incompiuta, probabilmente a causa dell’ambasceria cui Sacchetti – fautore di una posizione cauta ed equilibrata per limitare le ambizioni milanesi senza irritare Venezia − prese parte nel giugno 1381. Nell’autunno dello stesso anno si recò a Genova in visita presso il fuoriuscito Carlo Strozzi, ma al ritorno l’imbarcazione sulla quale viaggiava fu assalita dai pirati e il figlio Filippo, al suo seguito, venne ferito; pertanto, il Comune gli riconobbe nell’ottobre un risarcimento di 75 fiorini.
A partire dal settembre 1381, fioccarono per lui le cariche, non tutte poste in esecuzione: dai vari scrutini, uscì podestà di Empoli nel settembre, di Firenzuola nell’ottobre, nel novembre di Susinana, in Mugello; nel marzo dell’anno successivo fu scrutinato podestà di Serravalle nuova (ma non dovette recarvisi, dal momento che nell’aprile vi fu destinato con lo stesso incarico Simone di Matteo Biffoli), mentre nell’ottobre gli fu affidata una delicata ambasceria a Milano presso Bernabò Visconti, il nemico dei fiorentini di cui Sacchetti non mancherà di sottolineare lo spirito e l’equilibrio nelle varie novelle che lo rappresentano (IV, LXXIV, LXXXII, CLII, CLXXXVIII).
Come ha dimostrato ancora Li Gotti (1940b, p. 134; doc. XVI, p. 148), le seconde nozze di Sacchetti con Ghita di Piero Gherardini erano già avvenute nel maggio del 1383, quando Ghita – definita «uxor dicti Francisci» − riscosse un vecchio credito di 220 fiorini dovuto alla defunta madre. In quello stesso anno, stando alla novella CLXXVII, Sacchetti fu di nuovo a Genova; ha evidenza documentaria l’incarico di riformatore di Montaione, per conto di Bartolomeo di Francesco Guasconi, sotto il vicariato di S. Miniato tenuto da quest’ultimo: appare così già saldo il lungo sodalizio politico con la famiglia Guasconi, le cui posizioni Sacchetti sosterrà quasi sempre nelle consulte cittadine in cui prese la parola.
Nel 1384 fu eletto fra i priori per il quartiere di San Giovanni, probabilmente nello scrutinio di fine febbraio: fu il periodo in cui Firenze conquistò Arezzo senza combattere, ma acquistandola a fiorini dal condottiero francese Enguerrand de Coucy, che aveva preso la città per conto di alcuni fuoriusciti ghibellini. Alla fine dell’anno successivo Sacchetti fu eletto podestà di Bibbiena, dove si recò nel gennaio del 1386: come spiegò nella lettera IV a Rinaldo Gianfigliazzi, accettò subito l’incarico per timore di dover intraprendere nuovi pericolosi viaggi per mare a Genova; in latino scrisse invece a Carlo da Battifolle, dei conti Guidi, per declinare l’invito a festeggiare l’elezione nella vicina Poppi.
Cominciò nel 1387 circa l’impegno per la fabbrica dell’oratorio di Orsanmichele, alla cui progettazione Sacchetti lavorò almeno fino al 1399, curando nei dettagli la ristrutturazione e decorazione dell’edificio (nel 1397 fu interpellato anche in merito alla decorazione di S. Reparata). L’autore stesso datò l’esecuzione dell’affresco dello Stabat mater all’agosto del 1388 e ne offrì una versificazione nella lauda Stava Madre dolorosa, «orazione volgarezzata per Franco, la quale fece santo Gregorio; la quale Franco fece porre drieto all’altare di santa Anna d’Orto san Michele, e la è per lettera [= in latino]» (Opere minori, 2007, CCXLVII, p. 458).
A Sacchetti si deve la particolare combinazione fra temi figurativi e testi letterari, composti appositamente per alcuni cicli di affreschi di Andrea Orcagna: a tale esperienza si riferisce, in modo non sempre chiaro, il lungo capitolo ternario presente nel citato autografo (Laur. Ashburnham 574, c. 67r-68v: Opere minori, 2007, CCCII, pp. 568-573). In precedenza, del resto, Sacchetti aveva composto a più riprese iscrizioni inserite negli affreschi che decoravano Palazzo Vecchio (almeno dal 1383).
Dal settembre del 1388 al gennaio del 1389 fu chiamato a far parte dei gonfalonieri di compagnia, e nei verbali connessi – tutti pubblicati da Li Gotti (1940b, pp. 163-181) – emerge l’inquietudine per le guerre nell’Italia settentrionale, con l’ascesa impetuosa di Gian Galeazzo Visconti, il conte di Virtù, che conquistò Verona e Padova minacciando i confini appenninici. Nel novembre del 1388, con il consueto equilibrio, prese parte alle delibere sul tradimento di Bonaccorso di Lapo Giovanni, personaggio assai controverso: condannato per i Ciompi un decennio prima, aveva riconquistato la fiducia del Comune fino a ricoprire la carica di gonfaloniere, quando si scoprì che aveva ricevuto la forte somma di mille fiorini d’oro dal nemico per eccellenza, Gian Galeazzo Visconti. Inizialmente prevalse il prudente consiglio di Sacchetti: evitare il pubblico scandalo e offrire a Bonaccorso un salvacondotto perché potesse costituirsi in sua difesa, meglio se nottetempo; in seguito, tuttavia, la fuga dell’accusato a Siena fu vista come un’ammissione di colpevolezza che lo portò alla condanna a morte in contumacia.
Nello stesso 1388 Firenze seguì con apprensione l’assedio di Padova da parte delle truppe viscontee alleate di Venezia contro i Carraresi: eletto fra i gonfalonieri di compagnia, Sacchetti consigliò una tattica attendista anche dopo la caduta della città euganea (Archivio di Stato di Firenze, Consulte e Pratiche, regg. 27-28), per esempio nel non coinvolgere il famoso condottiero John Hawkwood, allora al soldo dei fiorentini. L’episodio può servire a illustrare come all’epoca, in città, si opponessero un fronte interventista e belligerante e uno moderato che, rappresentato da Biagio Guasconi e dallo stesso Sacchetti, preferiva attendere e consolidare l’egemonia di fatto nell’Italia centrale, stringendo vari accordi territoriali con Siena e Perugia. La sua abilità di mediatore emerse anche quando – fra marzo e maggio 1390 – fu eletto fra i Dodici buonomini.
Dal 6 aprile 1391 fu camerario delle prestanze, un ufficio assai delicato nel contesto politico di quegli anni, con campagne militari e fortificazioni da finanziare mediante ‘prestanze’ sempre più gravose da imporre ai cittadini: tenne l’ufficio fino al luglio, ma fu chiamato anche in successive occasioni come richiesto, in forza del suo equilibrio e competenza in materia. Dopo un nuovo incarico presso il Comune fiorentino, nel luglio del 1392 ebbe un incarico semestrale di podestà a San Miniato, propiziato dall’influente amico Rinaldo Gianfigliazzi: in quel periodo è verosimile collocare il momento decisivo della stesura del novelliere, su materiali già in parte scritti. Il modo in cui vengono progressivamente assemblate le Rime nell’autografo citato, tuttavia, induce alla prudenza nel delimitare la cronologia delle novelle, tematicamente assai varie, che potrebbero in alcuni casi presupporre memorie e abbozzi di tipo cronachistico (come è stato ipotizzato fin da Vincenzo Courir 1947); è comunque ragionevole presumere che il lavoro compositivo si sia protratto fino alla morte, senza pervenire a un assetto compiuto né definitivo.
In anni di frequenti capovolgimenti, l’equilibrio e la coerenza di Sacchetti lo esposero a diversi rischi: con l’ascesa di Maso degli Albizi e la cacciata della potente famiglia degli Alberti da Firenze, mantenere rapporti con quest’ultima espose sia lui sia Gianfigliazzi a sospetti e maldicenze, che per Sacchetti risultarono un serio pericolo, sia per i poderi di Soffiano e Marignolle sia per la sua stessa vita.
Gli ultimi anni di vita furono funestati da varie sventure: durante la podesteria di Faenza (1396) fu derubato da due suoi servitori; nell’agosto dello stesso anno morì la seconda moglie, Ghita; il 23 marzo 1397 le truppe mercenarie di Alberigo da Barbiano – al soldo di Gian Galeazzo Visconti – misero a ferro e fuoco i suoi possedimenti a Marignolle, evento traumatico narrato nella lettera XIV ad Astorre Manfredi signore di Faenza, cui dedicò una corona di dodici sonetti contro la guerra composti due giorni dopo che «fu arse e diserte per guerra le sue possessioni» (Opere minori, 2007, CCLXVIII-CCLXXIX, pp. 513-522; la dedica autografa è trascritta per intero a p. 513).
A dicembre 1396 le gravi ristrettezze economiche che conseguirono a tali eventi lo persuasero a sposarsi per la terza volta, con una Giovanna di Francesco di ser Santi Bruni, che gli portò in dote settecento fiorini d’oro nel gennaio successivo, al momento cioè in cui rinunziò alla dote della defunta Ghita in favore delle sorelle di lei. Nella stessa prospettiva vanno visti la richiesta al Comune – di qualche mese dopo – di ridurgli il prelievo fiscale, il tentativo di ottenere i beni della sorella Agnesina, defunta a fine 1397, e la rinnovata disponibilità per incarichi extra moenia. Infatti, dal 9 ottobre 1398 fu vicario di Portico in Romagna; l’incarico gli consentì di riallacciare i rapporti con i potenti signori di quelle terre: gli Alidosi di Imola (il sonetto CCXCIV è rivolto a Lodovico; la novella LXXIV narra di Bertrando) e gli Ordelaffi di Forlì (a Pino sono rivolti il sonetto CCXCVI e la lettera XVI; la novella XXV è ambientata sotto la signoria di Francesco).
Morì durante l’ultima delle sue molte missioni per conto del Comune di Firenze, il vicariato a San Miniato al Tedesco, nell’agosto del 1400, probabilmente a causa della pestilenza lì scoppiata nell’estate di quell’anno. Portando con sé il figlio Filippo, Franco aveva giurato come vicario del Comune il 5 marzo di quell’anno, per un mandato di sei mesi, con atto a oggi conservato nella cittadina toscana: lo pubblicò integralmente Li Gotti (1940b, pp. 278-280), ma la collocazione attuale è diversa: Archivio storico del Comune di San Miniato, Comunità di San Miniato, Deliberazioni, inv. 2312, c. 52v.
Opere. Sposizioni di Vangeli, a cura di A. Chiari, Bari 1938; Libro delle Rime, a cura di F. Brambilla Ageno, Firenze-Perth 1990; La battaglia delle belle donne di Firenze, a cura di S. Esposito, Roma 1996; Opere minori [Rime, Lettere, Battaglia], a cura di D. Puccini, Torino 2007; Le trecento novelle, a cura di M. Zaccarello, Firenze 2014.
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